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Thomas Macho. Il maiale

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Tutto ha una fine. Solo la salsiccia ne ha due

“Tutto ha una fine. Solo la salsiccia ne ha due” recita un detto tedesco. L’equivalente di “povero Cristo”, in tedesco, è “armes Schwein”, letteralmente “povero porco”. “Andare a fare festa” è “Die Sau rauslassen”, ossia “rilasciare la scrofa”. E l’elenco di detti che coinvolgono il maiale potrebbe continuare, rendendo sempre più evidente il legame tra cultura tedesca e maiale, l’animale più mangiato in Germania. Ma è una peculiarità solo del mondo germanofono (in Austria negli anni ‘30 del secolo scorso si cantavano canzonette dedicate al Wiener Schnitzel, la versione originale, XXL, della cotoletta alla milanese) o il maiale è un animale che, con la sua presenza – a volte discreta, a volte inquietante – attraversa tutta la storia della cultura occidentale (e non solo)? È quest’ultima ipotesi che viene sviluppata dallo storico della cultura viennese Thomas Macho nel “gustoso” libro Il maiale, appena uscito in traduzione italiana per i tipi Marsilio con un’ottima prefazione di Marco Belpoliti.

 

Macho, fin dalle prime pagine, condisce con una certa ironia la sua narrazione, chiedendosi i motivi per cui, con ogni probabilità, non esiste nessun animale che abbia suscitato e portato ad espressione sentimenti, sensazioni, orizzonti simbolici e concettuali così diversi – dalla sessualità alla gola, dalla sporcizia all'innocenza, dal pericolo alla comicità – come il maiale. Presto detto: i maiali ci repellono e affascinano perché “sono troppo simili e insieme troppo diversi da noi” (p. 19). Macho, che si occupa di animal studies fin dalla metà degli anni ‘80 (prima che la stessa definizione venisse coniata), esprime in queste parole una delle sue tesi più importanti sul rapporto uomo-animale: per ricostruire come uomini diversi, appartenenti ad epoche e culture differenti, hanno interpretato l'umano, bisogna guardare innanzitutto al modo in cui essi hanno trattato, descritto, rappresentato, cacciato, sacrificato gli animali. “Gli uomini hanno fatto sempre agli animali ciò che essi facevano gli uni agli altri”, sostiene Macho in un uno dei pochi altri suoi testi presenti in lingua italiana, la voce “Animale” nell'enciclopedia Le idee dell'antropologia (a cura di Christoph Wulf, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 52-76. Qui p. 53).

Partendo da questa premessa teorica, Macho si profonde, con Il maiale, in un bell’esempio di storia culturale, che unisce profondità teorica, respiro storico e capacità narrative, oltre a un impianto iconografico estremamente ricco, riportato fedelmente nella traduzione italiana del testo.

 

 

La storia del maiale narrata da Macho inizia di pari passo con quella dell’uomo: con le pratiche di domesticazione, la cui storia è ancora da raccontare a fondo; una storia di convivenza e di co-evoluzione tra uomo e animale, una convivenza che ha modificato profondamente, nel corso dei millenni, entrambi i poli del rapporto. Alla storia della domesticazione si affianca quella dei tabù che riguardano i maiali: il lettore troverà nel libro interessanti argomenti, dal punto di vista storico-antropologico, che secondo Macho sono sottesi agli interdetti della Bibbia e del Corano nei confronti della carne suina. Ancora una volta abbiamo a che fare con il maiale quale accompagnatore e animale-specchio dell’umano, argomentazione forse più convincente delle spiegazioni pseudoscientifiche (il maiale come animale sporco) con cui spesso si giustificano i tabu religiosi nei confronti di questo animale. Macho continua la sua storia culturale con l’antica Grecia, dove il maiale era principalmente il maiale selvatico, il cinghiale terribile e temuto, la cui uccisione era compito degli eroi, passando poi ai racconti sui maiali fedeli degli antichi romani, che lodavano nei suini la capacità inusuale di riconoscere e seguire la voce dei padroni. 

 

Nel proseguo del libro Macho ci spiega perché Sant’Antonio abate viene sempre rappresentato accompagnato da un maiale, e perché il maiale sia stato poi fortemente erotizzato, addirittura quale incarnazione delle potenze sessuali infernali. In generale è sempre un duplice sguardo all’opera nelle analisi dell’autore austriaco: quello rivolto al maiale in particolare e quello gettato sull’animale in generale. La storia dell’umano e quella dell’animale vanno raccontate assieme, ci dice Macho, come la storia di una convivenza che, come ogni convivenza, è stata segnata da conflitti e riconciliazioni. 

Tra i molti aspetti, aneddoti e immagini che il lettore scoprirà nel libro vale forse la pena riportarne almeno due, tra le più interessanti: l’analisi del film Porcile di Pier Paolo Pasolini, da un lato, e quella della scomparsa del maiale dal nostro vivere quotidiano, dall’altro. 

Tramite l’analisi del film pasoliniano Macho ci restituisce in filigrana l’idea di PPP per cui i rapporti di potere si basano sul fatto – arcaico, brutale e insuperato – per cui o si mangia o si è mangiati (e spesso si è mangiati comunque, malgrado la pena che ci si dà per passare dall’altro lato), mentre, con la costatazione della scomparsa del maiale dalla nostra quotidianità, si fa avanti, nella lettura di Macho, l’idea inquietante che i maiali, scomparsi negli allevamenti industriali e macellati lontano dai nostri occhi, siano un’oscura prefigurazione del fatto che “gli uomini hanno fatto sempre agli animali ciò che essi facevano gli uni agli altri”.

 

Concludendo, il libro di Thomas Macho ci racconta, con una prosa ironica ed estremamente godibile, ma anche informata e teoreticamente fondata, sì la storia del maiale, ma anche la nostra storia, la storia dei rapporti tra l’umano e l’animale, e dell’umano con ciò che in lui stesso c’è di animale: perché non solo il maiale, ma ogni animale ci è al contempo lontano e (troppo) vicino.

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L'Amazzonia di Viveiros de Castro

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Dualismi e ontologie

 

Eduardo Viveiros de Castro è un antropologo brasiliano la cui opera intreccia con grande originalità domini disparati, filosofia psicanalisi arte e letteratura, anche se il nucleo da cui si dirama è lo studio della cosiddetta “anima selvaggia”, di cui dimostra l’inconsistenza in un testo poderoso, A incostância da alma selvagem. Tradotto in tutto il mondo, grazie anche al suo insegnamento nelle più prestigiose università, la sua influenza va estendensosi sempre più (per maggiori informazioni si veda il breve ritratto che abbiamo scritto qui). Anche in Italia il suo pensiero, raccolto nel complesso progetto che va sotto il nome di Anti-Narciso, sta diventando popolare, nonostante non siano molte le opere tradotte. Ad esse va ora ad aggiungersi, pubblicato da Quodlibet, Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove, un insieme di lezioni tenute a Cambridge nel 1998 da Eduardo Viveiros de Castro. 

Anti-Narcisoè un progetto mai scritto, un'idea che, pur senza non essere stata oggetto di una sistemazione specifica, attraversa l'insieme della sua opera incidendo sulla trama stessa della sua scrittura in una sorta di lotta corpo a corpo con il dualismo filosofico, ontologico, cosmologico dominante in occidente. E poiché il progetto contiene la parola “Narciso”, l'opera di Viveiros de Castro non poteva sfuggire al clinico.

Questo corpo a corpo Viveiros de Castro lo sintetizza così:

 

Anche se la dualità di corpo e anima è ovviamente pertinente a queste cosmologie [le cosmologie sciamaniche] – come ho detto, tutte le cosmologie sciamaniche operano sulla base di questa fondamentale distinzione –, non può essere interpretata come un dualismo ontologico.

 

Che significa? Io lo intendo in questo modo: il dualismo sciamanico si basa sulla vita come esperienza unica, che non richiede un al di là teologico, un Dio trascendente, o filosofico, né un Io trascendentale. 

Nei mondi di cui parla Viveiros de Castro le persone non sono solo uomini e donne. Persone, in questi mondi, sono anche gli animali. Per esempio: un giaguaro vede l'uomo come persona e l'uomo vede il giaguaro come persona. Ci sono anche gli spiriti, le anime, gli antenati, che pure sono persone; presenti qui ed ora. Tutte queste persone stanno sullo stesso piano, chiamiamolo piano di immanenza. Nessuno sta sopra o vede le cose dal di fuori, non c'è un occhio divino o umano superiore, neppure lo sciamano sta sopra gli altri, semplicemente, potremmo dire, fa il suo mestiere tra gli altri.

Quando si parla di punti di vista, si fa riferimento a culture, modi di vedere, opinioni differenti. Però questa forma di relativismo è ancora interna al modo di pensare dominante tra gli intellettuali occidentali, per esempio quando si pretende di avere una sorta di epistemologia superiore, un punto di osservazione esterno e distaccato da parte di un soggetto ideale che siamo e noi siamo noi. Un sopra e un sotto, un superiore e un inferiore. Una struttura gerarchica che si ritrova anche nella scala morale del relativismo che prevede, a sua volta, una gerarchia al cui vertice stanno gli intellettuali occidentali e al fondo gli animali monocellulari. Uno sotto l'altro: uomo occidentale, uomo tribale, animale domestico, animale selvatico, non mammiferi, organismi viventi attivi di vario tipo (compresi virus e batteri), piante, ecc. Il relativismo, che apparentemente accoglie la molteplicità dei punti di vista, contiene il paradosso di essere la più “elevata” forma di tolleranza.

Gli esempi nel libro sono innumerevoli, provengono sia dall'esperienza dell'autore con i popoli amerindi che dai resoconti di altri antropologi.

L'Amazzonia di Viveiros de Castro è un insieme di realtà che rischiano di sparire sotto gli ultimi colpi di un colonialismo multiforme, la preda di quei mostri a molte teste,  anche che gli eroi tentano di tagliare, facendo nascere però uomini senza tempo e memoria: è la Tebe cosmologica occidentale, con i suoi re giusti e parricidi, con i suoi tiranni che seppelliscono vive le giovani donne.

 

 

Il visibile e l'invisibile

 

Io però, per vedere se ho capito, vorrei piegare queste pratiche antropologiche dentro l'osservazione clinica, dove l'incontro avviene al contrario. L'esperienza clinica con i richiedenti asilo consente di fare colloqui di “antropologia reciproca”, nei quali la curiosità tra mondi multipli si manifesta tra più persone presenti al colloquio: richiedenti asilo, clinici, operatori di accoglienza, mediatori – che vivono in Europa, ma provengono dagli stessi mondi dei richiedenti, e vivono due ontologie –  spiriti, anime, antenati, djiin, e una molteplicità di altre persone, che per alcuni sono sullo stesso piano e che gli altri (noi) devono imparare a vedere allo stesso modo. 

Lo farò prendendo un esempio che fa da ponte tra i mondi, un'attività primigenia: la caccia.

Una della caratteristiche della caccia è l'invisibilità. Preda e predatore si occultano reciprocamente attraverso meccanismi biologici, le metamorfosi della colorazione per occultarsi ai predatori, il letargo nei periodi di mancanza di prede, l'immobilità che non induce l'occhio a percepire il movimento, il passo felpato, lento, lo scatto repentino, in taluni casi, l'uso degli utensili, ecc.

 

Nelle confraternite dei cacciatori in Africa, sono spesso presenti i djiin, spiriti malevoli che stanno tra il modo umano e quello divino, essenze naturali e spirituali. Spesso queste essenze si installano dentro le relazioni di scambio: “Mio padre apparteneva alla confraternita dei cacciatori. Per proteggere i suoi figli, si allontanò e lavorò come agricoltore, sapeva che doveva dare qualcosa in cambio alla confraternita per uscirne, ma non lo fece. Sperava che la confraternita non se ne accorgesse, così la confraternita si è presa i miei fratelli”. La persona che racconta è l'unica che si è salvata perché, dopo essere stata picchiata e lasciata morente nella foresta da parte di un gruppo di ribelli, è stata salvata da un cacciatore.

Poi aggiunge: “Ma questo non lo dovrei sapere nemmeno io e, ora che l'ho detto a voi, non mi sento più sicuro”. A volte bisogna non sapere di sapere. Il dire non è separato dal fare, sapere comporta rischi perché qui ed ora, in questa stanza, non sono presenti solo i visibili, coloro che possiedono una materialità corporea, compresi gli oggetti – dagli amuleti ai cellulari, che, come in un’altra conversazione, possono avere il potere di toglierti il sangue a distanza: qui, ora, sono presenti anche gli invisibili, le ombre, le tenebre.

Noi diremmo: agire inconsciamente aiuta. Che cos'è la consapevolezza se non, come dice Macbeth: “una storia raccontata da un idiota, che non significa nulla”?

Non so se l'esperienza clinica, o etno-clinica – così come è stata recentemente rielaborata, a partire da Tobie Nathan, Marie Rose Moro, Natale Losi, Hamid Salmi, Rita Finco, ed altri – possa entrare in dialogo con l'approccio antropologico di Viveiros De Castro o se, come spesso impone l'accademia, debbano restare “pezzi staccati”. Mi auguro di no. Attenzione però a non interpretare il lavoro di Viveiros come un dover essere, per non far rientrare dalla finestra il trascendentalismo uscito dalla porta del mondo occidentale. Non si tratta di un'antropologia dello scontro, ma di un'antropologia del rispetto. Il rispetto dell'alterità extra-umana.

Nel frattempo attendiamo con curiosità l'arrivo dell'opera A inconstância da alma selvagem, possibilmente in edizione integrale.

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Anti-Narciso
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Altre resurrezioni

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La percezione e la conoscenza diciamo pure popolare che in Occidente si ha della figura del vampiro si ferma, per la maggior parte delle persone alla cinematografia e alla letteratura moderna. Al massimo le conoscenze risalgono all’Ottocento quando la pubblicazione del racconto Il Vampiro di John Polidori, diventa l’atto letterario che coincide con la nascita del mito contemporaneo.

Se è così, molti tra i lettori dell’ultimo libro di Vito Teti rimarranno sorpresi nel conoscere la storia dell’epidemia vampirica che si verificò nella prima metà del Settecento in Europa orientale.

 

Mentre le vicende del principe valacco Vlad III Dracul (l’impalatore) sono state la premessa – storica quanto misteriosa – confusa alla genesi della figura letteraria del vampiro nella versione tardo Ottocentesca di Bram Stocker, l’epidemia vampirica è stata certamente storia reale, per certi versi sorprendente, lungo un periodo centrale del Settecento in alcune regioni dell’est Europa, in particolare Ungheria e Moravia. “Epidemia” vera, perché manifestatasi in una successione di numerosi casi tra immaginazione e “realtà percepita” con tanto di paure collettive, inumazioni di cadaveri, paletti conficcati e roghi (e le conseguenti indagini mediche e delle autorità religiose) per neutralizzarne la paura e la supposta trasformazione nei “non morti” che terrorizzano i vivi; vera e propria storia di vampiri dunque.

È da lì che muove il libro di Vito Teti.

Un libro ripreso attraverso il tempo (dagli interessi e dalle ricerche negli anni 80 e dalla sua prima pubblicazione nel 1994) ma che da allora ha ricevuto il deposito di altre ricerche, altri interessi, filtrati dalle conoscenze e consapevolezze che il tempo regala.

Libro erudito, di ricerca antropologica, sedimento di studi, trattati, saggi, libro che coglie gli interessi dello studioso come del cultore di antropologia.

Eppure, caratteristica della scrittura di Vito Teti è il saper far affiorare la conoscenza e la ricerca anche come induzione dei sentimenti, come ingresso della partecipazione emotiva alla reale comprensione di un fatto episodico, di un fenomeno storico...

 

Libro per tutti dunque. Non a caso la melanconia è la condizione/sentimento che viene abbinato nel titolo. Perché il mito dei vampiri – inventato o tramandato – può essere anche un modo che la società umana, in un certo tempo e in una certa regione, ha scelto per raccontare la paura del vuoto e della morte; la melanconia è la condizione esistenziale per cui la paura di quel vuoto galleggia irrisolta nelle azioni e nei giorni, di tutti.

Perché la melanconia della società occidentale, con le sue falle i suoi vizi le sue piaghe irrisolte cosa è se non la stessa melanconia di cui è permeata la figura del vampiro?

Nel Settecento la società occidentale muove con decisione verso quella che chiamiamo modernità, almeno nel modo essenziale che abbiamo di guardare il mondo, Non è un caso ci dice Teti che l’epidemia vampirica sia di quel secolo, così come non è un caso che in quello successivo e poi ai nostri giorni il vampiro letterario e della finzione cinematografica si aggiri non più in lande oscure ma nelle città europee e americane. 

 

 

Del resto c’è chi ha scritto che tutta la produzione letteraria dell’umanità – e della cultura occidentale in particolare, non può prescindere dalla presenza della morte nella nostra esistenza, o detto in maniera più “leggera” dalla nostra impermanenza. 

In questo senso l’epidemia vampirica del XVIII secolo, la trasfigurazone letteraria di quello successivo, la trasposizione cinematografica che ne sarebbe seguita – fino alla recente saga di twilight che così tanto ha affascinato gli adolescenti di mezzo mondo sarebbero – con modalità differenti – il succedersi della stessa metafora, quella di un vampiro che è immagine trasfigurata della nostra paura e del rapporto irrisolto con l’idea della morte.

 

È questa melanconia il “vero vampiro”, anche quando assume una dimensione sociale, anche quando si veste dell’inesorabile spopolamento delle aree interne del nostro paese e del sud in particolare, in cui la morte è evidente nel silenzio delle strade, nelle case chiuse e in rovina. Avverso a questa “morte” peraltro è sempre stato tutto il lavoro di Teti, che ricorda in alcune pagine ispirate come tutto questa “lotta contro la morte”, abbia avuto origine già quando bambino aveva preso a scalciare contro chi, officiando agli adempimenti del funerale, stava portando via la salma di nonno Peppe, un proposito che continuerà in molti dei suoi scritti e della sua attività sempre in prima linea nel denunciare e nell’opporsi allo svuotamento demografico – cosa se non un’altra morte? – della Calabria e di molte aree interne.

 

Del resto, quando i paesi o un’intera cultura muoiono, quando la fine riguarda un modello sociale e molte delle sue comunità, quale rapporto resta con una fine che riguarda un corpo più grande del nostro e che ci comprende? Esiste un vampiro per questa morte?

E poi e più in generale, del mito del vampiro e della sua evoluzione resta comunque una genesi che ha a che fare con quello che Elias Canetti ha definito con una frase – e che Teti fa sua – “Né il sole né la morte si possono guardare fissi”. Del resto, nelle società tradizionali sono stati ed erano innumerevoli i riti in cui venire a patti con questa impossibilità; ma in tutti questi – riti temuti, cercati e sempre rispettati – le persone defunte restavano in qualche modo parte integrante delle comunità dei vivi.

Così, quell’impossibilita di “guardare fisso” diventa lacerante quando, con la modernità, la società occidentale espelle la morte dal contesto sociale, rendendo progressivamente alieni e invisibili i defunti, così come rende orpello di un passato remoto la comunione che nelle società tradizionali i defunti avevamo con il mondo dei vivi.

Per dirla con il sociologo Jean Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte)“...al giorno d’oggi non è normale essere morti”.

 

Una sensazione/percezione, figlia esclusiva dei nostri giorni, strisciante quanto silenziosa – un meme si potrebbe dire – ma che nel rimuovere l’idea della morte, in fondo rende paradossalmente la nostra vita una continua sopravvivenza ostaggio della morte. 

Se la resurrezione dei corpi oggi è idea che appare inconcepibile e se contemporaneamente l’appartenenza alle linee del sangue attraverso il tempo, attraverso la continuità delle comunità e dell’intera umanità (l’abbraccio dei vivi con chi lo è stato) non consolano, il mito dei vampiri, in una società ormai priva di miti, appare essere come una luce gelida quanto remota, fredda quanto inquietante, del nostro vivere.

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Il vampiro e la melanconia
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Pierre Bourdieu. La violenza simbolica

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Parigi, 1994

Sergio Benvenuto Nell’ambito del suo pensiero, Professor Bourdieu, lei ha elaborato il concetto di "violenza simbolica". Che cosa intende con questa nozione? 

Pierre Bourdieu– La nozione di violenza simbolica mi è parsa necessaria per designare una forma di violenza che possiamo chiamare "dolce" e quasi invisibile. È una violenza che svolge un ruolo importantissimo in molte situazioni e relazioni umane. Per esempio, nelle rappresentazioni ordinarie, la relazione pedagogica è vista come un’azione di elevazione dove il mittente si mette, in qualche modo, alla portata del ricevente per portarlo a elevarsi fino al sapere, di cui il mittente è il portatore. È una visione non falsa, ma che maschera l'aspetto di violenza. La relazione pedagogica, per quanto possa essere attenta alle attese del ricevente, implica un'imposizione arbitraria di un arbitrio culturale. Per fare un esempio, basta paragonare – come si sta iniziando a fare – gli insegnamenti della filosofia negli Stati Uniti, in Italia, in Germania, in Francia, ecc.: si vede, allora, che il Pantheon dei filosofi che ognuno di questi tipi nazionali di insegnamento impone ai discenti è estremamente diverso e una parte dei malintesi nella comunicazione tra i filosofi dei diversi paesi consistono nel fatto che essi sono stati esposti, all'epoca della loro prima iniziazione, a una certa arbitrarietà culturale. È a questo proposito che ho elaborato la nozione di "violenza simbolica”. 

 

A proposito della filosofia, può fare degli esempi di diversità da paese a paese? 

Evidentemente, il fatto che ogni paese abbia i suoi filosofi preferiti – come i suoi scrittori o musicisti preferiti – mi pare alquanto normale e banale. In che senso le particolarità culturali nazionali si traducono in una violenza sugli allievi? Nel senso che gli allievi ricevono con il crisma della necessità, universalità e quindi legittimità qualcosa che invece è particolare e storicamente condizionato. La nozione di violenza simbolica diventa importante quando essa, appunto, legittima questo qualcosa di particolare e di storicamente condizionato. Agli allievi viene quindi mutilata la coscienza, le loro conoscenze e via dicendo. Con l’aggravante che questa mutilazione, non apparendo in quanto tale, proprio in quanto è disconosciuta viene tacitamente riconosciuta. Quei ragazzi e ragazze credono di accedere alla filosofia nella sua universalità, mentre accedono a una sua forma del tutto particolare. 

Mi rendo conto che il mio discorso è rozzo e molto generale, per cui potrebbe apparire un po' riduttivo e semplicista. Ma possiamo entrare anche più nei dettagli. Prendiamo, ad esempio, il pensiero di John L. Austin, filosofo inglese che a mio avviso è tra più importanti della contemporaneità. Ebbene, egli è stato tradotto in Francia non molto tempo fa, verso la fine degli anni 70, con una prefazione nella quale il presentatore si scusava di presentare un autore tanto triviale (ovviamente appariva tale perché filtrato attraverso i canoni della filosofia tedesca, che erano dominanti nell'insegnamento francese). Austin, insomma, appariva un po' pedestre, e tutte le raffinatezze del suo pensiero sfuggivano del tutto ai lettori francesi. In Francia, certo, ma questo è un esempio emblematico del fatto che molte conquiste del pensiero universale sembrano quasi non cumulabili, e perciò si continuano a opporre le filosofie continentali e le filosofie anglosassoni... 

 

In sintesi, penso che il sistema educativo – al pari di altre istanze, come quelle statuali – eserciti sulle persone che gli sono affidate delle forme di violenza che possiamo chiamare dolci, impercettibili, insensibili, infinitesimali: esse consistono nell'imporre, per esempio, certe categorie del pensiero. Molto tempo fa scrissi un articolo, non molto buono a dire il vero, si tratta di un lavoro giovanile. Ma l'intuizione centrale di quell'articolo era abbastanza importante, credo. Si intitolava Sistemi di insegnamento e sistemi di pensiero, e in esso riprendevo grosso modo quel che Émil Durkheim, Marcel Mauss e anche Claude Lévi-Strauss hanno detto a proposito delle forme di classificazione nelle società primitive. La mia idea era che anche nelle nostre società differenziate, il sistema scolastico è uno dei luoghi dove si trasmettono le forme di classificazione, i princìpi classificatori, le tassonomie. E ciò accade anche per la filosofia, nella quale le tassonomie altro non sono se non i concetti che usiamo per classificare i filosofi (uno empirista, l’altro positivista e via dicendo). Queste tassonomie diventano delle strutture mentali attraverso le quali percepiamo il mondo intellettuale per il quale esse sono state formate, ma anche il mondo sociale. È proprio questo ciò che intendo per violenza simbolica: l’inculcare forme mentali, strutture mentali arbitrarie, storiche, un’operazione che plasma, in qualche modo, gli spiriti e che li rende poi disponibili a effetti di imposizione fondati sulla riattivazione di queste categorie. 

Anche se può apparire astratto, la violenza simbolica è a mio avviso una violenza che potremmo chiamare cognitiva: è una violenza che può funzionare solo appoggiandosi sulle strutture cognitive di chi la subisce.

Secondo me la parola "coscienza"è senz’altro di troppo e mi pare pericoloso nella misura in cui si può pensare che la vittima della violenza simbolica abdichi coscientemente alla propria libertà di dissidenza. Io, invece, penso che la violenza simbolica si eserciti con la complicità di strutture cognitive che non sono consce, che sono delle strutture profondamente incorporate, le quali – per esempio nel caso della dominazione maschile – si apprendono attraverso la maniera di comportarsi, la maniera di sedersi – gli uomini non si siedono come le donne, per esempio.

 

Ci sono molti studi di questo tipo: sulle maniere di parlare, sulle maniere di gesticolare, sulle maniere di guardare a seconda dei sessi, e dei ceti sociali. Nella maggior parte delle società, si insegna alle donne ad abbassare gli occhi quando sono guardate, per esempio. Dunque, attraverso questi apprendimenti corporei, vengono insegnate delle strutture, delle opposizioni tra l'alto e il basso, tra il diritto e il curvo. Il diritto evidentemente è maschile, tutta la morale dell'onore delle società mediterranee si riassume nella parola "diritto" o "dritto": "tieniti dritto" vuol dire "sii un uomo d'onore, guarda dritto in faccia, fai fronte, guarda nel viso". La parola "fronte"è assolutamente centrale, come in "far fronte a". In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei princìpi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche (le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell'ordine maschile, ecc.). In sintesi, è attraverso una logica disposizionale che l'ordine si impone.

 

Lei sta forse pensando a certi testi femministi, i quali affermano che per sfuggire alla violenza simbolica maschile le donne devono prendere coscienza della loro inferiorità politica e sociale, della loro sottomissione, ecc. Lei sta forse contestando questa idea secondo cui la soluzione della questione della violenza simbolica consisterebbe in una presa di coscienza delle donne? 

Proprio così. Penso che la nozione di "presa di coscienza" non sia stata oggetto di sufficiente riflessione, e questo è abbastanza comune in un certo tipo di femminismo, anche se è vero che vi è anche un tipo di femminismo che si avvicina maggiormente alle analisi da me proposte e alla tradizione marxista. Insomma, dal mio punto di vista, questa nozione di presa di coscienza è molto ingenua, in quanto lascia supporre che i dominati – si tratti dei proletari nella tradizione marxista o delle donne nella tradizione femminista – potrebbero liberarsi dalla dominazione attraverso una presa di coscienza dei meccanismi della dominazione. Mentre in realtà questi meccanismi di dominazione sono, allo stesso tempo, sia nell'oggettività (sotto forma di differenziazione nella divisione del lavoro, ecc.), sia in quel che possiamo chiamare la soggettività (nelle strutture mentali, sotto forma, appunto, di categorie di percezione, di valutazione, ecc.). Queste categorie di percezione e di valutazione sono al di là o al di qua, poco importa, della presa di coscienza. In fondo, la dominazione maschile è una costrizione attraverso il corpo: la dominazione è fatta di forme o catene logico-pratiche, di disposizioni corporee dell'ordine di quello che la filosofia classica cartesiana classificava sotto la parola "passione". In sostanza, ciò significa che le disposizioni sono maniere di essere permanenti, inscritte in noi attraverso l'apprendimento, attraverso le ingiunzioni insensibili del mondo sociale, della famiglia ecc., e sono molto difficili da trasformare.

Si tratta dell'exis nella tradizione aristotelica, o dell'habitus nella tradizione tomista.

 

Habitus è la traduzione latina dell'éxis aristotelica. Lo dico per ricordare che si tratta di qualcosa di acquisito: "éxis" viene da "échein", avere; "habeo"è qualcosa di acquisito attraverso l'apprendimento, quindi qualcosa di costituito storicamente; il che implica che è storicamente decostituibile. Infatti, qualcosa di storicamente costituito può sempre essere decostituito, trasformato dalla storia. Semplicemente, si opera un lavoro storico, e questo non può operarsi attraverso il miracolo di una presa di coscienza. E questo è importante per differenziare la nozione di violenza simbolica dal semplice effetto di imposizione. 

 

Secondo lei i media esercitano una violenza simbolica? E la esercitano tutti i media? 

Sì. Questo è un po’ complesso da spiegare. Personalmente, penso che si possa capire l'azione dei media unicamente nella logica della violenza simbolica. I media, cioè, esercitano un effetto proporzionato alle loro capacità di manipolare le strutture precostituite della mente delle persone. Di conseguenza, uno dei problemi è sapere che queste strutture precostituite hanno delle condizioni sociali di possibilità: esse sono costituite, alla lunga, da tutta una serie di azioni. C'è un lavoro di fabbricazione delle categorie mentali, e allo stesso tempo ci può essere un lavoro di decostruzione, di trasformazione di queste categorie. Per questo la nozione di presa di coscienza è inadeguata.

 

Prendiamo un esempio semplice, tra gli esempi classici di John L. Austin: quello di un ufficiale che dà un ordine a un soldato. È una cosa estremamente misteriosa. Perché qualcuno obbedisce a un ordine? Si vede bene che quel che sta dietro all'esecuzione di un ordine è l'ordine militare, è la disciplina. Ma la disciplina è un concetto molto, molto esterno, e numerosi sistemi sociali fanno a meno della disciplina. Le forme più potenti di dominazione sono dominazioni senza disciplina, ed è il caso, per esempio, dell'ordine familiare, dell'ordine domestico, è il caso dell'ordine religioso, almeno in gran parte. Certo, abbiamo la disciplina di Ignazio di Loyola. Indubbiamente, c'è disciplina anche nella religione, ma una parte considerevole del funzionamento di un ordine religioso si fa sulla base di disposizioni dell'habitus religioso. La questione diventa dunque di sapere come si sono costituiti questo ordine militare incorporato, questa sottomissione che rende possibile l'obbedienza immediata; in altri termini, come sono fabbricate le disposizioni permanenti alla sottomissione. Allora, per esempio, per capire le disposizioni femminili alla sottomissione, bisogna prendere in esame l'insieme dell'ordine sociale strutturato sulla divisione maschile-femminile, che è pieno di ingiunzioni, di richiami all'ordine

 

In che senso le donne sono ancora sottomesse? In che senso certe categorie di persone spesso appartenenti a classi sociali meno abbienti sono sottomesse? In che senso Lei può dire che queste persone sono culturalmente dominate? Non dovremmo, piuttosto, affermare il contrario, che prevale il gusto di massa? Per esempio, in Italia ci sono molti canali televisivi che programmano degli spettacoli commerciali tradizionali molto seguiti, e questo ne fa dei canali molto potenti. Viceversa, i programmi di avanguardia e di élite, insomma di qualità, sono molto poco seguiti, e quindi sono anche molto deboli. Insomma, la gente sceglie secondo i propri gusti, che per la maggior parte non sono sofisticati. In che senso allora, Lei può affermare che avere dei gusti tradizionali, non sofisticati, è una forma di sottomissione? 

Anche questo è un problema davvero complicato. Di fatto, è vero, constatiamo che praticamente in tutte le società le donne sono nella posizione di dominate e che la dominazione che esse subiscono è tipicamente illustrativa di quel che chiamo violenza simbolica. Ma una delle ragioni, mi pare, è connessa a quel che chiamo il mercato dei beni simbolici, vale a dire al mercato dove circola un genere di beni che hanno valore soltanto per persone che abbiano certe categorie di percezione per apprezzarli. 

Prendo l'esempio dell'opera d'arte: l'opera d'arte è un oggetto grezzo per chiunque non abbia categorie di percezione adeguate. Faccio un esempio semplicissimo. Un mio amico, Dario Gamboni, ha fatto una ricerca aneddotica, ma allo stesso tempo rivelatrice. Il fatto è avvenuto in una cittadina della Svizzera, la cui municipalità aveva avuto l'idea di esporre nei giardini pubblici degli oggetti d'arte moderna di avanguardia. Un giorno, degli spazzini hanno portato via un oggetto d'arte moderna prendendolo per un rifiuto, e l'hanno sbattuto nell'immondizia. Gamboni ha analizzato come le cose si sono svolte, ha cercato di individuare chi ha preso posizione pro, chi ha preso posizione contro ecc. Ebbene, questo è evidentemente un caso-limite, ma emblematico dello scarto tra l'oggetto in quanto costruito in un universo dove circolano degli agenti che hanno categorie di percezione capaci di costituire determinati oggetti come oggetti d'arte, e gli universi sociali ordinari, dove ci sono anche persone per le quali, in assenza di categorie di percezione adeguate, quell'oggetto ridiventa un oggetto grezzo, un oggetto qualsiasi.

 

 

La dominazione non è numerica: si può essere maggioritari numericamente e minoritari simbolicamente. Questo è il caso, precisamente, di tutti i campi dell'arte. Allora, questo relativismo che lei suggerisce, l'idea che dopo tutto le forme più popolari di arte hanno altrettanto valore perché sono plebiscitate, ebbene, questa forma di relativismo è relativizzabile. Infatti, vediamo molto bene che ci sono dei mercati importanti (il mercato scolastico, il mercato mondano ecc.) nei quali certe opere valgono e altre non valgono. 

Per dire le cose in maniera molto semplice, consideriamo il linguaggio, un campo nel quale la dominazione simbolica si esercita nella maniera più visibile: per esempio, le diseguaglianze di accento sono estremamente potenti nella maggior parte delle società. Parlare con un accento regionale non è certamente in sé e per sé un fatto di sottomissione o di inferiorità, ma è un indizio a partire dal quale il linguaggio viene sperimentato nella sottomissione, nella vergogna, nell'insicurezza linguistica. A livello generale, ci sono delle pronunce legittime e tacitamente riconosciute come tali dai locutori delle lingue o delle pronunce dominanti; in questo caso, uno degli indizi del riconoscimento della dominazione è il fatto che si tenda a correggere il proprio accento. Prendete un locutore con una certa pronuncia, che appartiene a una lingua dalla pronuncia dominata, ed esponetelo in una situazione ufficiale, formale: inconsciamente tenderà a correggere il proprio accento il meglio che potrà, il che rischia però di svalutarlo ancora di più, perché, una volta scomparso il tratto pittoresco del suo accento iniziale, si troverà nella situazione tipicamente piccolo-borghese della ricerca della distinzione, in una situazione di pretenziosità. La cosiddetta volgarità consiste spesso nel fatto che uno che non è naturalmente distinto, cioè non plasmato in modo da esserlo spontaneamente, assume gli atteggiamenti di chi è distinto. 

Veniamo ora a un altro esempio molto semplice. Un sociologo o linguista originario del Ghana ha scritto un articolo pubblicato in una rivista americana, a proposito della traduzione di un mio libro dedicato al tema del linguaggio e della dominazione simbolica. Qui egli dice che nel Ghana, dopo l'indipendenza, dopo l'autonomia, gli africani continuano a sforzarsi di adottare l'inglese standard. Egli descrive in maniera abbastanza raffinata come questi sforzi si segnalino con posture corporee: ci sono maniere di tenere la testa, di portare il corpo, di tenere la bocca ecc. che si impongono a chi vuol mimare la pronuncia nasale dell'accento britannico. Dunque, è evidente come in questo caso delle strutture di dominazione legate a un certo mercato linguistico nel quale la lingua inglese è dominante possano perpetuarsi: c'è, per così dire, una sorta di inerzia delle strutture. 

 

Dunque, per tornare all'esempio del relativismo, penso che le persone che possono avere pratiche culturali numericamente dominanti restano culturalmente e simbolicamente dominate, quindi sottoposte a una forma di violenza simbolica. Questo accade precisamente perché, in primo luogo, ci sono una quantità di situazioni nelle quali i loro gusti, preferenze, ecc. sono automaticamente svalutati; e queste situazioni sono, in generale, delle situazioni dominanti. Il sistema scolastico è una delle vie di accesso alle posizioni dominanti. D'altro canto le loro stesse pratiche manifestano questo, anche se possono fare i fanfaroni e dire "ma io preferisco le canzonette del mio paese!". Le loro stesse pratiche, nelle situazioni difficili, formali nel senso anglo-sassone del termine, ufficiali, mostrano che essi riconoscono la loro inferiorità, anche loro malgrado. E il loro corpo riconosce questa inferiorità, proprio come i cittadini del Ghana non possono evitare di sentire il loro brutto accento, di soffrirne, di sentirsi in una situazione di insicurezza quando si trovano con un locutore dominante, o in una situazione difficile, dominati dalla norma dominante.

 

In sintesi, la sua idea di "violenza simbolica" non coincide affatto con una idea economicista, marxista, più in generale con una idea che tende a identificare i dominati con i poveri, o con i più poveri di una società. In pratica, secondo lei, si può essere allo stesso tempo simbolicamente dominati e ricchi sul piano economico? 

Certo, assolutamente. Secondo me, una delle funzioni della nozione di violenza simbolica è stata quella di rendere intelligibili certe forme di dominazione che l'economismo della tradizione marxista, e tutte le teorie prima disponibili sul fenomeno della dominazione, lasciavano inesplicate. 

I due terreni su cui la violenza simbolica si evidenzia meglio che in altri sono la dominazione linguistica e la dominazione maschile. In questi due casi, l'economicismo brutale cerca di rendere conto degli effetti di dominio attraverso la logica della dominazione materiale, dicendo "i rapporti uomini/donne sono rapporti di sfruttamento e si possono misurare in tempi di lavoro, o nel rapporto tra il lavoro e i salari, ecc." Ma tutte le analisi di questo tipo sono fondamentalmente viziose, perché, credo, esse sono del tutto incapaci di rendere conto della pratica, del fatto che la dominazione maschile, per esempio, possa esercitarsi in assenza di qualsiasi costrizione economica. Un effetto di questo fenomeno, del resto, è che la liberazione economica, nella misura in cui viene realizzata, è lungi dall'essere compiuta nella maggior parte delle società sviluppate, in quanto le donne guadagnano sempre meno degli uomini. Ma al di là di questo, ciò che mi preme sottolineare è che la liberazione economica non comporta affatto la liberazione simbolica; in posizioni economicamente del tutto dominanti vi sono delle donne che continuano a subire la dominazione maschile. 

 

Facciamo un esempio. Abbiamo pubblicato da poco un libro collettivo dal titolo La misère du monde (Paris, Editions du Seuil, 1993), nel quale studiamo soprattutto forme non convenzionali di miseria. Studiamo, certo, le forme estreme, come la disoccupazione di lunga durata, ma studiamo anche delle forme di miseria piccolo-borghese. Qui, fino all'ultimo momento, sono stato tentato di pubblicare il colloquio che ho avuto con una donna dirigente – ma una dirigente di un livello molto alto – la quale mi ha detto delle cose molto interessanti. Il suo confrontarsi con situazioni di potere che doveva esercitare, in parte, su uomini le risultava talmente penoso che doveva farsi massaggiare tutte le mattine, e compiere tutto un lavoro corporeo, per poter sopportare qualcosa di molto più pesante di uno stress: una specie di tensione strutturale legata al fatto che era indotta a vivere un'inversione sociale della relazione di dominazione, un'inversione sociale che il suo corpo non seguiva. In altre parole, tutta la situazione le diceva "sei una dirigente, sei Presidentessa, stai nell'ufficio del Presidente, hai l'autorità del Presidente e la tua firma è quella del Presidente, hai tutti i titoli del Presidente, lo stato ti consacra come Presidente, ecc.", eppure il suo corpo diceva "sono donna e ho paura." 

 

Prendo un altro esempio: la timidezza. In un certo senso, più sono consacrato socialmente, più sono timido e più il mio corpo, come dire, si rifiuta di intendere quel che dice la situazione sociale. La situazione sociale dice "tu hai tutti i titoli per essere un'autorità, sei autorizzato a parlare con autorità", ma proprio in quel momento scatta la timidezza. È uno degli indizi di quella sorta di corto circuito tra una specie di conoscenza attraverso il corpo, di conoscenza corporea, e la conoscenza intellettuale. L’intellettualismo è comunque dominante, esso è la filosofia implicita di tutti gli intellettuali; purtroppo l'intellettualismo fa dimenticare che il corpo è là, con la sua logica, e che ci sono delle conoscenze che si fanno solo attraverso il corpo. Penso che le forme di conoscenza di cui sto parlando, che sono il fondamento dei rapporti tra i sessi ad esempio, oppure dei comportamenti sportivi, sono forme di conoscenza corporea: si conosce col proprio corpo, non necessariamente con la propria coscienza.

 

Sulla base della Sua teoria, si deve concludere che questa violenza simbolica si esercita molto presto, cioè sin dalla prima infanzia. Tutti gli esempi che ha portato sin qui dicono che anche se nella vita adulta si acquisisce una posizione dominante, le esperienze di acculturazione nella prima infanzia restano decisive. Dunque, si tratta di qualcosa che passa attraverso i genitori, o il quartiere o gli amici della prima infanzia? 

Penso che sia così. Ed è qui che va effettuata un'articolazione tra l'analisi sociologica e l'analisi psicoanalitica. Penso, cioè, che le prime esperienze del mondo sociale si facciano all'interno di quel microcosmo sociale che è la famiglia: in essa ci sono differenziazioni, c'è una divisione del lavoro e gerarchie politiche, ci sono rapporti di dominio, rapporti di dominazione simbolica, e c'è una polizia simbolica. In certi casi può essere la violenza fisica che gli uomini esercitano sulle donne, e può essere anche violenza simbolica, ad esempio il fatto che ci siano delle precedenze: uno si siederà prima dell'altro; ci sono degli sguardi, ci sono ingiunzioni. Dunque c'è tutto un sistema politico già all'interno della famiglia, un sistema politico sessuato e sessuale. Ma questo non significa che l'analisi psicoanalitica non vada effettuata. 

 

A proposito di Freud, mi piace citare sempre una frase di un grande storico della Vienna fin di secolo: "Freud dimentica che Edipo era un figlio di re." Il padre, cioè, è un padre socialmente costituito, e il rapporto con il padre è socialmente costituito, e tutto quel che si impara nel mondo, nel microcosmo familiare, è strutturante in modo molto potente perché, appunto, tutto è doppiamente codificato, nel senso che le relazioni sociali sono codificate sia sessualmente che socialmente. Per portare un esempio, altrimenti entreremmo in uno sviluppo interminabile: quando si dice sottomissione, con questo termine si vuol dire sotto-mettersi, mettersi sotto. Non molto tempo fa, ho svolto un lavoro su un popolo berbero dell'Africa del Nord che ha pochissime mitologie. Presso questo popolo, per esempio, uno dei rari discorsi che assomigli a un mito, a un discorso giustificatore dell'ordine sociale, dice pressappoco che in origine gli uomini e le donne erano eguali. Le donne andavano alla fontana – la fontana, nel mito, è il luogo femminile per eccellenza. Un giorno, la donna ha avuto l'idea di far l'amore con l'uomo (nella visione maschile è la donna a essere perversa, è lei l'iniziatrice della perversione sessuale) dicendo all'uomo: "Vieni, e vedrai, faremo qualcosa di veramente straordinario", e così lei ha fatto l'amore con lui, mettendosi sopra di lui, a cavalcioni. Poi l'uomo ha voluto ricominciare, ma ha detto: "Da ora in poi, la cosa non succederà più alla fontana – nel luogo femminile –, la cosa avverrà in casa, e sarò io a mettermi sopra di te." In altri termini, c'è un mito che giustifica questa opposizione sopra/sotto, la quale è fortemente strutturante. Alto/basso, sopra/sotto, ecc. sono princìpi di percezione del mondo sociale. Si dirà allora "una posizione elevata", "un discorso nobile, cioè elevato", mentre un accento volgare è "un accento basso", rozzo, ecc. Così, queste opposizioni fondamentali sono doppiamente connotate. 

 

Le si potrebbe obiettare che ciò che Lei chiama violenza simbolica è semplicemente il fatto che ci siano delle culture, che ciascuno vive in una data cultura. Ovvero, possiamo supporre che qualsiasi cultura, anche nel Borneo, tra i selvaggi come nelle società industriali, determini dei dominanti e dei dominati, dei superiori e degli inferiori. Infatti, ogni cultura prescrive leggi o regole, e in rapporto a queste leggi o regole ci sono alcuni che risultano più adatti o adattabili, e altri meno. Dunque, c'è in ogni caso una gerarchia che viene a formarsi, in qualsiasi cultura, anche nella più "comunista". Di conseguenza, il concetto stesso di cultura non implica che ogni cultura comporti comunque violenza? Ma se questa violenza è connaturata al fatto stesso della cultura, perché connotarla negativamente come violenza? 

Il fatto che la violenza sia universale non implica che non sia violenza. Inoltre, certo, la violenza simbolica è una forma universale di violenza. A questo riguardo credo anzi che la nozione di violenza simbolica serva a ricordarci un aspetto fondamentale della nozione di cultura. Si è soliti dire che la cultura è una specie di codice comune a due locutori, che fa sì che i due locutori associno lo stesso senso allo stesso segno, e lo stesso segno allo stesso senso; dunque la cultura è un medium di comunicazione, perché il linguaggio è un medium di comunicazione. Si può dire che a partire da una teoria della cultura o del linguaggio, o di qualsiasi altro strumento simbolico, si può elaborare una filosofia del consenso. Il consenso è il fatto di essere d'accordo sul codice di comunicazione. Ebbene, penso che la nozione di violenza simbolica sia molto importante per ricordarci che questo consenso sul codice rende possibile una comunicazione che a sua volta rende possibile la dominazione. In altri termini, la violenza simbolica è una dominazione che suppone un codice comune. E questo è importantissimo: la dominazione all'interno di una società si compie sulla base di un codice comune. È nella misura in cui, attraverso il sistema di insegnamento, i dominati acquistano un minimo di accesso al codice culturale comune, che una forma di dominazione può esercitarsi su di loro. In altre parole, avviene qualcosa di molto paradossale. A una visione semplice della cultura si sostituisce una definizione bifaccia: d'accordo, la cultura è uno strumento di comunicazione ma, allo stesso tempo, è uno strumento di dominazione che suppone la comunicazione. Dunque, non si può dire "è un bene, è un male." Usciamo dalle dicotomie ordinarie. 

A proposito del ruolo dello stato, inoltre, sulla scia di Weber sottoscrivo in pieno l’idea che lo stato detiene il monopolio della violenza legittima; ma io aggiungo che lo stato ha anche il monopolio della violenza simbolica legittima. Lo stato, cioè, è un grande produttore di codici comuni.

 

Lei pensa che le società o le culture che hanno un forte senso dello stato siano più violente, simbolicamente, delle società che ne hanno uno minore? 

Io credo che l'importante sia riconoscere che lo stato è una realtà profondamente ambigua proprio dal punto di vista del problema che stiamo ponendo. Insomma, lo stato impone delle categorie di percezione comuni all'insieme degli agenti di una società. Può essere il Pantheon dei filosofi di cui ho parlato all'inizio, possono essere le strutture dell'ortografia per le quali un certo numero di intellettuali francesi oggi si battono come se fosse in gioco il destino dell'umanità, possono essere le strutture della grammatica, può essere qualsiasi tipo di cosa. Ebbene, lo stato attraverso la potenza della scuola pubblica, può imporre tutte queste cose alla totalità di una popolazione. Ogni ragazzino o ragazzina di Francia conosce un certo numero di cose in materia di cultura. Allora questa universalità storica, all'interno dei limiti di una nazione, è estremamente importante perché essa fonda un consenso, dei riflessi comuni, ecc. Allo stesso tempo, essa è parzialmente fittizia, poiché il fatto che nessuno è autorizzato a ignorare la legge vuol dire che chiunque la ignori sarà punito; ma non siamo mai sicuri che tutti coloro che vengono puniti la conoscessero, perché non siamo sicuri di aver dato a tutti l'accesso a quella conoscenza. 

Forse è utile ricorrere a un esempio giuridico. Oggi sappiamo molto bene che nei processi legali l'ineguaglianza sociale si manifesta fondamentalmente nel fatto che gli agenti sociali più svantaggiati culturalmente non sanno costituire il loro caso come caso giuridico. Non sanno fare quel lavoro linguistico-politico richiesto dal sistema giuridico. Il sistema giudiziario richiede che un querelante sappia costituire un contenzioso tra vicini, che sappia costruire un caso suscettibile di essere raccontato, in modo calmo, in forma di querela, o di denuncia, di fronte a un tribunale. Occorre fare un lavoro di conversione. 

Un altro esempio: nelle inchieste per sondaggio, si chiede alla gente "Lei pensa che il governo Rocard sia stato migliore o peggiore del governo Mauroy? Lei pensa che Berlusconi porterà verso un regime neo-liberale o al contrario verso un regime neo-fascista?" ecc. Questo tipo di domande possono essere oggetto di risposte solo per soggetti sociali che conoscono la legge politica; e cioè, si suppone che occorra porre i problemi politici in termini politici, che si possano porre questo tipo di domande. In apparenza "si suppone che nessuno ignori la legge", e che qualsiasi persona interrogata in occasione di una elezione o in occasione di un sondaggio abbia gli strumenti per rispondere a una domanda di quel tipo; invece, di fatto questi strumenti sono ripartiti in modo molto diseguale. E questo lo si vede, per esempio, da chi si rifiuta di rispondere, da chi risponde "Non so" a domande del tipo di quelle che ho posto poco prima. Si sa già da prima che la percentuale delle donne che diranno "Non so, non posso rispondere" sarà molto più elevata della percentuale degli uomini. Si sa già che la percentuale delle persone che risponderanno crescerà in proporzione con l'elevarsi nella gerarchia sociale, crescerà in proporzione con l'elevarsi nella gerarchia del livello di istruzione, ecc. A fortiori, se si interroga la gente, si vedrà che la parte delle persone dotate degli strumenti che permettono loro di porre i problemi politici nei termini in cui sono loro posti dagli intervistatori, la quota, cioè, delle persone capaci di effettuare questo lavoro di trasformazione cresce in modo molto forte man mano che cresce l'accesso all'istruzione e al linguaggio che si impara a scuola.

Gli stessi partiti politici, in forme diverse, sono degli strumenti di esercizio della violenza simbolica, anche i partiti cosiddetti populisti. Il populismo, anzi, è particolarmente interessante, perché esso ha due modi di sfruttare la dominazione simbolica, ovvero gli effetti della dominazione simbolica. Si possono sfruttare questi effetti in modo innocente, come fanno i partiti comunisti, o socialisti, tradizionali; questi partiti richiedono che il loro portavoce si esprima nella lingua standard, in conformità alle norme linguistiche ufficiali, che parli politicamente di politica, gli chiedono, cioè, di "parlare politicamente" al posto di coloro che non hanno gli strumenti per parlare politicamente della politica, contrariamente a quel che ho detto poco fa. E certo questi portavoce esercitano una violenza proprio in quanto danno voce alla gente, quindi non si sa se usano le parole che pronuncerebbero quelle persone comuni se avessero la parola. In altri termini, nel migliore dei casi il delegato, chi si presenta come porta-parola della gente che non ha la parola, commette una usurpazione più o meno importante, approfittando del silenzio provocato dalla violenza simbolica sulla classe dominata. Si può parlare al posto di, sostituirsi a, sostituirsi al discorso di altri. La soluzione populista, invece, è terribilmente viziosa, perché essa consiste nel mimare la parola popolare, e dunque a dare una soddisfazione – ma una soddisfazione a mio parere del tutto illusoria – alla parola popolare. 

 

Lei pensa che il fatto di portare alla parola certe richieste ed esigenze della gente da parte dei partiti sia una soddisfazione solo illusoria? 

Sì, siamo di fronte a soddisfazioni illusorie, perché non poggiano su un ascolto reale della parola popolare, oppure poggiano su un ascolto superficiale. Per esempio, si sa molto bene che, oggi, tutti i libri che si occupano del variegato tema della miseria del mondo vertono su questo: che al giorno d'oggi ci sono delle miserie sociali molto profonde. In una società come la Francia – ma credo nella maggior parte delle società europee – esiste una miseria sociale che è legata, per esempio, alla coabitazione, nei quartieri multietnici e nelle scuole, tra persone che hanno visioni del mondo, abitudini molto diverse tra loro. E queste sofferenze non si accompagnano necessariamente a un discorso costituito, esse si esprimono con collere, violenze, razzismo, espressioni brutali, impulsi padroneggiati male. 

Allora, nella visione democratica tradizionale, ci sono dei portavoce che vogliono il bene del popolo, ma che vogliono la felicità del popolo a buon mercato. Costoro possono dire "bisogna assolutamente sradicare il razzismo da quella gente ecc.ecc.", e fanno una sorta di predicazione che non giunge mai alla comprensione delle cause reali: "che cosa è il razzismo? che cosa esso vuol dire?". D'altro canto, si possono sfruttare molto bene quelle pulsioni in un linguaggio che dia un'espressione in apparenza giustificata, in un linguaggio che sfrutti quelle sofferenze senza darsi minimamente i mezzi per investire le cause. 

Ma allora che cosa bisogna fare? I filosofi fanno sempre delle analogie con Socrate, ma per una volta sarà un sociologo a servirsi della analogia socratica. Infatti, penso che occorra una funzione tipicamente socratica – ed è quel che abbiamo cercato di fare in questo libro, Le miserie del mondo. Penso che nel mondo sociale, sotto l'effetto della violenza simbolica, molte persone sono spossessate di ogni mezzo di espressione. È così: sono spossessati degli strumenti simbolici di espressione delle proprie esperienze, delle proprie sofferenze; e uno dei grandi problemi oggi è quello di restituire loro questi strumenti di espressione. Allora, su scala globale è molto difficile. Sulla scala di una relazione di scambio, di dialogo, tra un sociologo o un ricercatore da una parte e una persona comune dall'altra, si può fare un lavoro di tipo socratico, vale a dire dare alla persona spossessata la possibilità di esprimersi. È il postulato di Socrate. Infatti, Lachete sa molto bene che cosa è il coraggio, ma non ha gli strumenti per dirlo. Eutifrone sa molto bene che cosa è la pietà religiosa, ma non ha gli strumenti per dirlo. Bisogna quindi aiutarli a partorire dalla loro sofferenza e, se è possibile, dalle strutture sociali che sono al principio della sua sofferenza, delle costrizioni, delle tensioni, delle violenze, e bisogna assisterlo con una specie di intervento a un tempo coercitivo e liberatorio. E questa, ovviamente, è una funzione che i politici oggi non assolvono affatto, e nemmeno i demagoghi che sfruttano i discorsi apparenti, di destra o di sinistra che siano.

 

Coerentemente col Suo pensiero, possiamo dire che in tutte le culture si esercitano forme di violenza simbolica e che quindi, direbbe qualcuno, tutte le culture sono fondamentalmente fasciste. Lei ora propone una specie di metodo socratico. Dunque, è possibile sognare una società dedita alla maieutica socratica, nella quale la violenza simbolica venga eliminata? 

In verità non mi piace molto l’affermazione per cui tutte le culture sarebbero fasciste. Rispetto molto la provocazione, che svolge delle funzioni estetiche, politiche, ecc. importanti, che riescono a svegliarci. Ma in certi casi l'eccesso di provocazione è pericoloso perché derealizza e credo che dire delle cose così eccessive sia proprio una maniera di occultare quel che chiamo la violenza simbolica. Il lavoro di tutta la mia vita è consistito nel prendere sul serio le forme dolci, impercettibili, insensibili di violenza, di andare a cercare la violenza là dove nessuno si aspetterebbe di vederla, nel rapporto pedagogico, ecc., dove essa è. La mia idea di fondo è che scovando la violenza simbolica, rendendola visibile, manifestandola, si può mettere in moto la ricerca dei mezzi per combatterla. 

Allora, per esempio, perché la violenza pedagogica, con la quale abbiamo iniziato, è particolarmente perversa? La violenza pedagogica consiste nell'imporre dei saperi, delle conoscenze che si pensano universali; l'esempio più tipico è quello della matematica. Ma tutte le culture si pretendono universali. Ogni professore che insegna filosofia oppure letteratura in Francia, in Italia, negli Stati Uniti, ecc., ha l'impressione di dare l'occasione ai suoi ascoltatori di avere accesso all'universale. Di fatto, penso che questa violenza attraverso l'universale sia particolarmente perversa e che sia importante dire alla gente che questo preteso universale ha in realtà una genealogia, ha avuto una genesi, cosa che non gli toglie nulla della sua importanza: solo così possiamo guardare a esso da una posizione libera. Persino la matematica non è caduta dal cielo, non è caduta dentro la nostra coscienza: essa è il prodotto della storia di un universo particolare. Per questo credo che, tra gli strumenti di liberazione dalla violenza simbolica, certi strumenti specifici degli intellettuali, e penso in particolare alla genealogia di Michel Foucault, siano molto utili. Relativamente a Foucault, penso che la sua storia sociale dei concetti, la storia sociale delle nozioni universali, vissute come universali, sia estremamente importante, non per relativizzare questi concetti, e quindi il concetto stesso di violenza simbolica, ma per mostrare come si sono sviluppate le condizioni sociali di possibilità di queste nozioni. 

Per concludere, vorrei sottolineare che si può certo imporre l'universale universalmente, si può dire "tutti i francesi devono sapere questo o quello", oppure "tutti i cittadini del mondo devono rispettare i diritti dell'uomo" ma solo a condizione di universalizzare le condizioni di accesso all'universale. Insomma, se da una parte si dice che "nessuno è autorizzato a ignorare la legge" e, dall’altra, si dà solo a una piccolissima parte l'accesso alla conoscenza della legge, l'universale diviene uno strumento di oppressione particolarmente perverso. In fondo, la forma per eccellenza della violenza simbolica – è terribile dirlo – è proprio un certo uso dei diritti dell'uomo.

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Gilbert Rouget e i fenomeni di possessione

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«Che cos’è infatti la possessione se non, in ultima analisi, l’invasione di campo della coscienza da parte dell’altro, cioè da parte di qualcuno venuto da “fuori”?», si domanda Gilbert Rouget ad un certo punto del suo Musica e trance. I rapporti fra musica e i fenomeni di possessione, la cui seconda versione francese – rivista e ampliata dall’autore nel 1990 – è stata recentemente pubblicata in italiano da Einaudi, dopo quasi quarant’anni dalla prima edizione dell’80, con una prefazione di Francesco Giannattasio che affianca quella “storica” di Michel Leiris. Pietra angolare degli studi etnomusicologici, il testo ha l’obiettivo di analizzare il rapporto tra musica e trance (ovvero quello stato transitorio, appunto, in cui il soggetto sperimenta un mutamento dell’ordinario stato di coscienza): un rapporto tutt’altro che semplice dato dalla natura eteroclita e proteiforme di tali fenomeni, descritti dall’autore come complessi sistemi di segni, che sembrano resistere e sottrarsi a qualsiasi forma di generalizzazione. Attraverso un approccio marcatamente strutturalista, Rouget costruisce una teoria generale che rende conto di questo caleidoscopico stato di cose grazie a una prospettiva transculturale che gli permette di mettere l’accento sulla diversità, sull’eccezione e varietà offerta dai casi particolari. E di certo gli esempi non mancano, visto che le società umane hanno fatto ricorso a questi stati di coscienza alterati (utilizzati per affrontare il problema dell’ignoto o, come dice Giannattasio, per sanare «una frattura più o meno profonda dell’esser-ci») fin dai tempi più remoti e a tutte le latitudini. 

 

È infatti prerogativa dell’essere umano, come scrive Leiris nell’introduzione, «non accontentarsi di essere quello che si è», di voler essere altro da sé, di «essere fuori da sé (cosa questa che comporta la trance)» e smettere, almeno temporaneamente, «di essere semplicemente l’uomo o la donna che si è nell’esistenza quotidiana». Una transizione possibile solo a patto che si rendano i propri confini porosi, cedevoli, permeabili all’altro, favorendone l’invasione (o intrusione, per dirla con Jean-Luc Nancy) nel campo della propria coscienza. In quanto cambiamento di identità, la possessione implica sempre una spossessione, una preliminare perdita del sé in cui l’individuo, come nel caso dello ndop senegalese riportato da Rouget, viene «”ucciso” dalla divinità» (ciò che Andras Zempléni descrive come l’«esito mortifero dell’incontro con il doppio») e attraversa una morte simbolica che consente la resurrezione nell’altro da sé.

 

Non si tratta solamente di imitazione o immedesimazione, la possessione è identificazione (termine chiave che rimanda inevitabilmente tanto alle teorie della costruzione dell’identità lacaniane – mai citate dall’autore –, quanto a quelle freudiane), un processo in cui vengono aboliti tutti i confini tra l’Io e l’altro perché, come scrive Giovanni Bottiroli, mentre «quando imito l’altro, io resto io […], identificandomi con un altro, ne assimilo in parte i suoi tratti, divento lui». Secondo Rouget, solo quando il rito è identificatorio e il «soggetto diventa dio» (ovvero quando mette letteralmente in atto quella che viene definita logica confusiva) si verifica la possessione vera e propria. Il rapporto con la divinità che si impossessa dell’individuo non è mai di conflitto ma di coalizione, non un’estraneità da scacciare ma da accogliere. Anche nei casi di esorcismo, come nel tarantismo, «non è la divinità responsabile della possessione stessa a venire esorcizzata», dice Rouget: si tratta sempre di espellere il veleno, non il ragno, perché la paura dell’altro si “esorcizza” solo grazie all’alleanza. 

 

Gilbert Rouget a Ouesso, Congo Francese, nel 1946 (foto di André Didier, CNRS-CREM, CC BY-NC-ND).


Dopo il lungo capitolo dedicato ai Greci e alle teorie formulate da Platone circa i rapporti tra musica e trance (le più antiche tra quelle conosciute), in cui riconosce al filosofo «l’enorme pregio di mostrare che la possessione è essenzialmente un processo di reintegrazione dell’individuo in un insieme che lo comprende», ovvero come l’invasione dell’altro non conduca a una frammentazione del soggetto ma, anzi, sia volta a «riconciliare l’individuo lacerato con se stesso», a sanare la frattura del soggetto con il mondo, con la società e a restituirgli l’unità perduta, Rouget si sofferma a lungo sulle teorie formulate nel corso del Rinascimento e, in particolare, sulla nascita dell’opera considerata anch’essa una forma di possessione. Un passaggio sorprendente la cui articolazione viene affidata (forse non a caso) alla voce di qualcun altro: l’autore riporta infatti per intero una lettera scritta da un etnomusicologo originario del Benin che racconta la sua prima esperienza all’opera. Oltre a offrire una lettura desueta in cui è la cultura europea ad apparire come cultura “altra” e a ricordarci come «l’essenziale, nella possessione, è l’identificazione con un altro, l’invasione del campo della coscienza da parte di un personaggio diverso da quello che si è di solito», qui viene posto l’accento sulla componente teatrale dei riti di possessione (già teorizzata da Leiris), dove la teatralizzazione equivale al rendersi pubblico del comportamento identificatorio.

 

In effetti il cambiamento di identità che implica la trance di possessione «non ha senso per il soggetto se la sua altra identità non è riconosciuta da tutti» perché, continua l’autore, è il pubblico a tendere «all’individuo lo specchio in cui leggere l’immagine della sua identità provvisoria». Si crea così un doppio movimento in cui si ha bisogno dell’invasione dell’altro per essere un Io (livello individuale) ma tale condizione può esistere solo grazie al “secondo grado” di alterità incarnata dal pubblico (livello collettivo): ovvero, all’alterità della divinità da cui il soggetto viene posseduto, si somma la necessità dell’alterità dello sguardo che permette l’essere della differenza e l’esser-ci dell’Io. Rendere pubblica la perdita di sé vuol dire soprattutto legittimarla, istituzionalizzarla, inserirla in un sistema codificato di segni che ne regoli l’articolazione spazio-temporale dove, grazie alla struttura del rito, si assiste al paradossale controllo della perdita di controllo, alla reintegrazione della sragione nell’insieme sociale.

È a questo livello che sembra intervenire la musica nei riti di possessione, definiti non a caso da Rouget come “architetture del tempo”, dove assurge tanto a una funzione temporale quanto spaziale: definendo e abitando lo spazio, la musica conferisce a quest’ultimo «una densità diversa da quella quotidiana» e indica «che qualcosa sta succedendo; che il tempo è occupato da un’azione in svolgimento». Eppure, osserva l’autore, la musica non opera mai da sola ma costituisce solo una delle funzioni (termine che usa in esplicito riferimento alla teoria del linguaggio di Roman Jakobson) all’interno del complesso sistema di segni che compone e disciplina ciascun rituale.

 

Anche se «di tutte le arti, la musica è senza dubbio quella che ha la massima capacità di commuovere, e persino di sconvolgere», essa non possiede delle qualità intrinseche ma agisce sempre come elemento dell’insieme: un insieme che non è mai lo stesso ma la cui logica interna cambia di caso in caso così come sempre diversa appare la funzione che vi svolge la musica. Così, con l’obiettivo di demistificare «l’idea che ci si fa fin troppo spesso del ruolo svolto dalla musica nella trance», ovvero che esista una musica della trance che possiede delle qualità fisiologiche universali e oggettive, Rouget demistifica lo stesso concetto di universalità ad essa attribuito. Se Jean-Jacques Rosseau (guida spirituale di Rouget e che a lungo si era occupato del potere esercitato dalla musica) sosteneva che ognuno «ha bisogno delle arie di una melodia che conosce e di frasi che capisce» perché «ognuno è sensibile unicamente agli accenti familiari»; a sua volta Platone, nello Ione, affermava che «gli agitati dal furore coribantico […] sono sensibili solo al canto […] di quel dio da cui sono posseduti». È qui la paradossale funzione della musica nella trance, quella di favorire l’accesso all’alterità grazie al suo non essere percepita come alterità, di permettere l’identificazione con l’altro attraverso l’identificazione del “proprio”, il suo essere codice riconoscibile che proprio grazie alla riconoscibilità permette alla trance di diventare fatto sociale mettendo tutte le alterità in comunicazione. A ognuno il suo linguaggio, a ognuno la sua musica, a ognuno il suo altro per essere un Io

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Il ’68 di Michel de Certeau

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“Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”, scrive Michel de Certeau nel vivo degli eventi del 1968. La liberazione della parola rappresenta la conquista che assume valore di fondamento, coincide con il “diritto di essere uomo e non più un cliente destinato al consumo o uno strumento utile all’organizzazione anonima della società”. Nelle assemblee studentesche il principio per cui “Qui tutti hanno il diritto di parlare” è riconosciuto soltanto a chi parla a nome proprio, mentre viene rifiutato a chi si fa portavoce di un gruppo o si identifica con una funzione. De Certeau, nato nel 1925 ed entrato nel ’50 nella Compagnia di Gesù, pur avendo scelto di non avere figli – sarà per scelta anche maestro senza discepoli –, appartiene alla generazione dei padri, quella che ha vissuto nell’adolescenza la vergogna della disfatta nel ’40 e il collaborazionismo. I giovani hanno buoni motivi per aderire allo slogan “ribellarsi è giusto”, per rifiutare le ipocrisie celate dietro la maschera dell’amor di patria; nella “presa della parola” si esprime anche la rivolta contro i silenzi di Stato sulle torture in Algeria e le miserie della grandeur colonizzatrice. 

   

“Tutto ciò che non parlava si è messo a parlare e, attraverso le barricate, i fumi, una grande festa si è dispiegata dentro Parigi”, scriveva Edgar Morin, un altro partecipe osservatore delle rivolte giovanili. Al di sotto della dimensione politica del maggio, egli scorgeva l’emergere di aspirazioni antropologiche profonde, del bisogno rimosso e represso di un’altra vita: nella prima settimana di maggio tutti si parlano per strada, si svuotano gli studi di medici e psicologi, le malattie psicosomatiche sembrano scomparse. Il carattere antico e nuovo del maggio ’68 “trova la sua radice nella rivolta arcaica – cioè primordiale fondamentale – che apre una breccia profonda nella diga che reprime e smorza le energie umane per trasformarle in lavoro e obbedienza” (La breccia, Raffaello Cortina, 2018). La “comune giovanile” rappresenta un’esplosione di fraternità comunicativa, è un modo per porre fine alla desolazione, al senso di abbandono all’interno di una società atomizzata. Una creatività selvaggia si esprime nella sfilata euforica per le vie di Parigi, scandita dal gioco-guerriglia sulle barricate, si traduce in musica e canti, in seminari autogestiti, in momenti di ricerca e dialogo. Mai si è ascoltato tanto, mai si è parlato tanto: “Non ho niente da dire, ma lo voglio dire”, recita una scritta murale. Stagione breve, presto si annunciano segnali di degenerazione: il terrorismo intellettuale dei cultori dell’ortodossia sbraita vecchie parole d’ordine, termini idolatrici della vulgata marxista diventano dogmi intimidatori.

 

Le analisi di De Certeau della rivolta studentesca, composte fra il maggio e il settembre, appaiono su Études, la rivista dei Gesuiti, e su Esprit, legata alla cultura cattolica più innovativa; saranno poi raccolte in La presa della parola nell’ottobre ’68 e ripubblicate, insieme a scritti successivi, nel ’94 da Luce Giard, collaboratrice di de Certeau e responsabile dell’edizione critica delle sue opere (la traduzione italiana risale al 2007, Meltemi). Dal 1969 l’attività del Gesuita esce dall’ambito delle ricerche di storia erudita, la sua lucida apertura verso il Maggio ne fa una presenza costante nei dibattiti con gli intellettuali della sinistra, ma gli costa irriducibili contrasti nella gerarchia cattolica. Nell’inquietudine di una generazione che rimetteva in discussione i lasciti dei padri, inclusa l’eredità cristiana, nelle richieste impazienti, confuse ma legittime, di giovani insoddisfatti di ridursi a funzionari del “sistema”, De Certeau aveva scorto i segni di una “rottura instauratrice” (come era stata quella del Vaticano II), lo schiudersi di un’avventura che spargeva semi di rinnovamento umano e spirituale. 

  

Appartiene alla formazione del gesuita De Certeau, e non solo al clima culturale dell’epoca dominato dalla semiotica e segnato dalla svolta linguistica del pensiero novecentesco, l’attenzione preminente alla “parola”. Degli Esercizi di sant’Ignazio di Loyola, Roland Barthes diceva che il loro oggetto era “l’invenzione di una lingua”, la ricerca di contenuti e modi con cui parlare a Dio, affinando la preghiera con le armi della retorica. De Certeau aveva esordito con ricerche erudite sui primi secoli della Compagnia di Gesù, a partire dalla pubblicazione documentata del Diario di Pierre Favre (1506-1546), membro della prima cerchia dei collaboratori di sant’Ignazio, e dell’opera dispersa del mistico Jean-Joseph Surin (1600-1665), l’esorcista che dalla vicenda delle possessioni di Loudun era uscito scivolando nella follia. Nel ’68 De Certeau comincia il suo insegnamento all’università di Parigi VIII, passa poi a Parigi VII negli anni Settanta, all’Ecole des Hautes Études e in California. Studioso di storia, antropologia e psicoanalisi, attratto dalle novità dell’Occidente modernizzato come dalle lacerazioni contraddittorie dell’America latina, De Certeau si è trovato ad attraversare le discipline senza pretendere di legittimare il suo discorso con l’appartenenza a un’istituzione. “Sono soltanto un viaggiatore”, ha scritto di sé: aver viaggiato fra letteratura mistica, studi storici e ricerche antropologiche lo ha reso modesto, gli ha insegnato che “in mezzo a tante voci, la mia poteva essere soltanto una fra le altre” nel tracciare gli itinerari dell’esperienza spirituale (Lo straniero o l’unione nella differenza, 1969, Vita e pensiero, 2010). 

  

Fin dall’apertura di Fabula mistica (1982, tradotto nel 1987 dal Mulino, che ha edito il secondo volume nel 2016), De Certeau non rivendica il prestigio di un discorso accreditato in quanto membro di un cenacolo mistico, “autorizzato a parlare perché ritenuto a conoscenza della sua essenza”: “ritenuto a conoscenza”, formula che rimanda alla posizione dell’analista, “soggetto presunto sapere”, secondo la lezione di Lacan. L’intento di De Certeau è porsi all’ascolto di quella musica di parole che, all’alba della modernità, ha dato voce al dolore dell’assenza dell’Unico, nel momento in cui si avverte che l’Altro con cui si insegue l’unione esistenziale è proprio colui che continua a mancare. A muovere il desiderio del mistico è un oggetto perduto per sempre, che non rientra più nel dicibile; da Meister Eckart a Teresa d’Avila, da Giovanni della Croce a Surin, per cercare un varco verso l’inaccessibile si forzano i limiti del linguaggio, si percorre lo spettro delle metafore, fino a toccare il silenzio. La scena religiosa si è intanto trasformata in scena erotica: il Verbo parla sempre di meno, si limita a lasciare tracce di impervia lettura su un corpo inciso dai dolori amorosi. Ma quel corpo scritto si fa scena muta di un paese perduto, e il mistico è costretto ad essere sempre in viaggio, a spingersi sempre più lontano, coltivando l’ebbrezza di ciò che non possiede. Alla metà del Seicento, Angelo Silesio ha ormai la sola consolazione di strofe musicali che ripetono una speranza mentre cullano un lutto. 

  

Se la mistica è “una maniera di parlare”, la parola dal XVI secolo, rileva De Certeau, diviene Fabula, a indicare nel medesimo tempo l’oralità e la finzione: il termine si riferisce ai racconti che hanno il compito di simboleggiare, ma per l’Illuminismo, se la fabula parla (fari), non sa però quel che dice, maschera il senso che custodisce e il sapere di quanto dice a sua insaputa dobbiamo attenderlo dall’interprete. Raccogliendo la sfida della parola, i mistici si fanno solidali con le lingue che ancora parlano – il bambino, la donna, il folle –, ma ormai il luogo del loro dire è quello dell’inautentico. “Non sono colui che parla in me”, “sono parlato da un altro”, dice il mistico, in forma simmetrica a quanto accade alle suore di Loudun, nelle quali è un altro a parlare in loro. Nelle fonti su cui De Certeau sviluppa l’indagine sulle Possedute di Loudun (1970, Clueb, 2012), la parola dell’indemoniata è doppiamente perduta: in lei è il diavolo a parlare e quel che dice viene “riformato” dai pareri dei teologi, dai consulti dei medici, dalle sentenze dei giudici. L’esorcista chiede “chi è là?” e risponde con i nomi propri dei demoni che hanno preso possesso dei diversi organi; il medico chiede “che cos’è?” e risponde con i nomi propri di una malattia (ipocondria, malinconia, isteria). Dalla confessione della posseduta, l’esorcista chiede una conferma alla verità che agisce in lei a sua insaputa, come poi lo psichiatra chiederà al malato di riconoscere la verità di quanto ha rilevato in lui. “La voce della posseduta incosciente e il corpo della malata muta sono là unicamente per dare un consenso al sapere che è il solo a parlare”. 

 

 

L’esperienza dei mistici, enunciare il desiderio di  un Altro che resta nascosto e tace e quindi elaborare la narrazione di una perdita, si rinnova nell’operazione storica: la sparizione di ciò di cui lo storico parla è la condizione di possibilità del suo discorso, spiega De Certeau in La scrittura della storia (1975, Jaca Book, 2006). L’altro è l’assente a cui il discorso storico conferisce visibilità, il revenant di cui la scrittura celebra il lutto. Certo, grazie alla storia le ombre tornano meno tristi alle tombe in cui il discorso le ha deposte, i morti che incombono sul presente sono placati dall’offerta di sepolcri scritturali. Ma comprendere l’Altro rischia di nascondere, con il senso che gli viene attribuito, l’alterità dell’estraneo; la scrittura della storia fa parlare il corpo che tace, ma questo presuppone uno scarto fra l’opacità silenziosa della realtà e il luogo da cui si produce il discorso che mira ad appropriarsi dell’altro nel nome del quale parla.

  

Anche la riflessione sui “selvaggi” si regge sulla spaziatura tra quanto dice il sapere e il corpo muto che ignora quel che dice. La scena inaugurale della colonizzazione vede il conquistatore portare con sé le armi europee del senso, con le quali scrive sul corpo dell’Altro, del continente ancora indifferenziato, le tracce della propria storia. La scrittura conquistatrice usa il Nuovo Mondo come una pagina bianca sulla quale comporre l’espansione del proprio potere (La scrittura dell’Altro, Cortina, 2004). Ogni impresa scientifica si traduce così in produzione di discorsi autonomi che, al pari dell’ordine del discorso di Foucault, trasformano i corpi dell’indagine. Nel XVI secolo l’organizzazione etnografica della scrittura si rapporta all’oralità selvaggia, nel XVII e XVIII si trasformano le scritture cristiane, sul finire del Settecento si avvia la lotta di una razionalità scritturale illuminata contro le fluttuazioni idiomatiche delle oralità dialettali, come De Certeau mostra in Une Politique de la Langue: La Révolution Française et les Patois del ’75 (in collaborazione con Dominique Julia e Jacques Revel). 

La cultura occidentale instaura la propria intelligibilità modificando ciò di cui fa il suo altro, passato, selvaggio, folle, popolo, infanzia, ecc. Le discipline che ne scrivono, le scienze che diciamo umane, sviluppano un saper-dire su ciò che l’altro tace. Anche Freud ha fondato un sapere con cui si è istituita una nuova forma di alterità assente, l’inconscio: anche se parla (ça parle), possiamo costruirne solo la narrazione che ne mette in scena gli effetti. È possibile dar voce all’altro senza compiere la violenza di ridurlo alla grana della propria voce, senza separare il sapere-potere che tiene il discorso e il corpo muto che lo sostiene? Si tratta per De Certeau di costruire una eterologia che non sia annullamento dell’Altro, di creare un pensiero dell’alterità in grado di essere rispettoso e ospitale nei confronti di ciò che fa segno verso l’indicibilità del desiderio. È il nodo con cui deve confrontarsi anche la cristianità che vive ormai l’esperienza di vedersi ridotta ad essere solo “il linguaggio particolare di una verità” un tempo universale. Al cuore della riflessione condotta in Lo straniero sta la scoperta compiuta dal missionario: fuggite le città cristiane dove la fede si regge sulla comodità delle tradizioni, partito per la terra straniera, egli lascia tutto per annunciare la Parola di Dio a coloro che la ignorano, viaggia nelle culture dove Dio parla una lingua non ancora decodificata. Ma è dagli stranieri che il missionario impara chi è e da dove viene, è la voce degli altri che gli spiega interiormente alcune delle parole sacre che ripeteva senza comprenderne il significato. “Fiori chiusi, da tempo presenti nel suo giardino cristiano, certe espressioni del Vangelo – quelle che dicono la fecondità della vita divina o la misteriosa connivenza dell’Altissimo con i poveri – si schiudono nel mattino di una fraternità nuova e gli mostrano un segreto che finora non aveva percepito. E mentre viene accolto dai suoi fratelli, nello stesso tempo viene introdotto nella sua ‘anima’, cioè nel paese del suo Dio”. Partito per far conoscere la sua verità, il missionario scopre infine, non solo la verità degli altri, ma che sono questi ultimi a rendergli comprensibile la verità della parola che lo aveva indotto a partire.  

   

È nella mistica che trovano il loro “correlativo storico” i progetti che, sul finire degli anni Sessanta, mirano a “dar parola” al rimosso, all’alienato e al represso, alla part maudite della storia. Nei giorni gioiosi e violenti del Maggio, ridotti al silenzio i discorsi a verità garantita, i giovani abbandonano la corazza metallica dell’automobile e la fascinazione solitaria della Tv. Scrive De Certeau: “Voci mai sentite ci hanno trasformato – originate in un luogo ignoto, riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore soffocato delle nostre solitudini. Perlomeno, avevamo questa sensazione. Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a parlare. Sembrava fosse la prima volta. Da ogni dove uscivano tesori, addormentati o silenziosi, di esperienze mai nominate”. Certo, la presa della parola si è espressa quasi solo in forma di protesta, come rifiuto delle istituzioni e delle autorità, ma è dalla scelta di parlare che si traggono le implicazioni conseguenti: “l’esperienza diretta della democrazia, la continuità della contestazione, la necessità di un pensiero critico, la legittimità di una partecipazione creatrice e responsabile di tutti, la rivendicazione dell’autonomia e dell’autogestione, e anche la festa della libertà – potere dell’immaginazione e festività poetica …”. 

  

Sembrava trovare conferma quel che il Marcuse di Eros e civiltà aveva annunciato nel ’55: l’avvento della civiltà del gioco e dell’Eros, il tempo di Orfeo e Narciso, dietro i quali aleggia l’ombra di Dioniso, poneva fine alla civiltà prometeica della prestazione, alla logica del profitto e del consumo. “La poesia d’ora in avanti è nella strada”, recitava una scritta sui muri nel maggio, ed un volantino alla Sorbona aggiungeva “Il poeta ha schiodato la parola”. De Certeau si dice testimone per avervi partecipato del fatto che la folla stessa è diventata poetica. “Finalmente ci si è messi a discutere di cose essenziali, della società, della felicità, del sapere, dell’arte, della politica”. Un chiacchiericcio permanente contagiava tutti i luoghi, “immensa terapia nutrita da ciò che liberava”; varcata la barriera degli specialismi gli spettatori si trasformavano in attori, l’apprendimento di “conoscenze” apriva discussioni appassionate riguardanti direttamente l’esistenza. Lo storico può interpretare il ’68 richiamandosi alle leggende delle rivoluzioni, alle barricate del 1848, all’esperienza dei soviet o all’utopia fourierista, ma agli occhi di De Certeau l’effettiva novità concerne “la relazione pedagogica” in senso lato; non solo quella scolastica, ma ogni situazione in cui la relazione con altri (allievi, dipendenti, governati, ecc.) si effettui nel campo di un linguaggio comune, ma in cui il senso è attribuito da chi si trova in posizione di forza. Non era tanto la concezione della cultura a cambiare, quanto l’esperienza che se ne aveva. “Il luogo del sapere passava nelle mani dei suoi ‘oggetti’; una coniugazione sacra scavalcava l’incomunicabilità tra universitari e lavoratori; il ‘blasfemo’ desacralizzava un certo patriottismo; il teatro (ogni società lo è in qualche modo) trasformava gli spettatori in attori e lo spettacolo in creazione collettiva”. Si trattò per De Certeau di una rivoluzione simbolica, che si traduceva nel prendere il sapere a rovescio, come attesta quanto accaduto nelle “scienze umane”, luogo originario della contestazione: un sapere che organizzava delle relazioni al servizio di una società del consumo si è visto “ripreso” secondo modalità differenti, “occupato” da coloro che volevano esprimersi per conto proprio. 

   

De Certeau, insieme ad altri due Gesuiti, vincendo il discredito del mondo cattolico verso la psicanalisi, fece parte della Società Freudiana dalla fondazione alla chiusura (1964-1980). Quando utilizza il termine “simbolico” ha ben presente la tripartizione di Lacan, non accosta dunque il ’68 al registro dell’immaginario, come suggeriva lo slogan di matrice surrealista “l’immaginazione al potere”, neppure al registro del reale, come voleva l’empirismo radicale di Deleuze. Ma l’accesso al simbolico impone un prezzo, la storia non obbedisce alla parola che le lancia una sfida; l’etica del soggetto parlante non ignora la formula lacaniana “Ti chiedo di rifiutare ciò che ti offro perché non si tratta di questo”, ricorda De Certeau nel saggio composto nel 1981 in occasione della morte del fondatore della Società Freudiana (Lacan: un’etica della parola, in Storia e psicanalisi. Tra scienza e finzione, Bollati Boringhieri, 2006). Per la richiesta travolgente di totale autenticità, di verità irriducibile alle norme e alle gerarchie sociali, indifferente persino alla sua concreta attuabilità politica, si è ricordata l’esigenza che trova espressione nella parrhesia, quella franchezza, quella corrispondenza fra dire e vivere, di cui Michel Foucault nel 1983 avrebbe rintracciato le premesse nel comportamento dei cinici greci (Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, 2005). Ma il dovere della verità significa per De Certeau anche riconoscere il potere che sorregge la parola ed è questa la lezione di Lacan: l’esercizio psicoanalitico si fonda su un duplice inganno, l’analista è ritenuto conoscere dai pazienti e questi chiedono quel che non desiderano sapere, cioè il segreto del loro male, auspicando piuttosto di trovare un orecchio che ascolti i loro sintomi. La verità a cui Lacan mira, sulla scia dello sconfinamento freudiano verso la narrazione, è quella della pratica letteraria, perché è la letteratura a esplorare il territorio entro il quale si svolge il viaggio umano, cioè il regno dell’inganno. L’analista deve accettare la finzione di rappresentare quel che non sa; il principio che fonda la sua parola è il ritrarsi, una retorica della sottrazione, una presa di distanza dal discorso stesso con cui i suoi discepoli credono di tenerlo. L’etica della parola equivale a riconoscere che non si dà autorità che garantisca la realtà del discorso, che l’oggetto a cui si volge il desiderio non è mai “questo”. La parola deve dar vita ad un corpo, il verbo deve farsi carne, cioè tradursi in un’istituzione, ma questa non mantiene mai la parola. La contestazione non poteva che essere tradita, non poteva trovare espressione nelle istituzioni, sia pur riformate; ma era questo il rischio che andava necessariamente corso per promuovere un altro modo di stare nel mondo.  

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17 maggio 1925 - 17 maggio 2019
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Pensare con il produrre

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Abbiamo ancora negli occhi le immagini tremende del rogo di Parigi, Nôtre-Dame avvolta dalle fiamme. Il fuoco consuma la foresta di travi che sosteneva il tetto, la guglia ottocentesca crolla, la forma della cattedrale viene stravolta davanti ai nostri occhi. Questo ci costringe a considerare l’edificio monumentale non più come un oggetto immutabile e compiuto, ma come una cosa, fatta di materiali la cui storia non si è mai in realtà arrestata in una forma definita. Il fuoco innesca il cambiamento della forma, lasciandoci di fronte allo scandalo di una Nôtre-Dame diversa, non più congruente con l’immagine in cui l’avevamo cristallizzata. 

 

“Le forme delle cose” ci ricorda Tim Ingold nel capitolo dedicato all’analisi della materialità degli oggetti del suo testo Making, sono “generate nei campi di forze e nelle circolazioni dei materiali, i quali trascendono ogni confine che potremmo tracciare tra artefici, materiali e ambiente circostante”. Così, il rogo sciagurato ha portato il nostro “flusso della coscienza”, come lo definisce Ingold, ovvero la nostra comprensione della forma della cattedrale come oggetto finito, a corrispondere forzatamente con il “flusso del materiale”, cioè la dinamica ecologica che ha una traiettoria sottoposta al campo di forze che lo attraversano. Con il fuoco, ci siamo accorti che anche una grande opera architettonica, uno dei modelli prototipici del genere “cattedrali”, è costituita da materiali e, come noi esseri umani, è soggetto e oggetto di un continuo movimento dal quale emerge senza posa una forma.

 

Se la cattedrale di Nôtre-Dame stava di fronte a noi come oggetto, durante il rogo essa è con noi, conducendoci a un pensiero costruito con il materiale di cui è fatta la cattedrale e non attraverso la sua materialità di oggetto dato. Proprio all’attività del pensiero attraverso la produzione e la dimensione materiale delle cose è dedicato il libro Making. Antropologia, archeologia, arte e architettura di Tim Ingold, tradotto da Gesualdo Busacca per l’editore Raffaello Cortina. Ingold è professore di antropologia sociale all’Università di Aberdeen e da tempo conduce un’idiosincratica e affascinante riflessione attorno all’edificazione di una “scienza senza nome” – come, in altri tempi e modi, Agamben definì l’impresa intellettuale di Aby Warburg. Ingold propone un pensiero “anti disciplinare” che attraversi le “quattro A” – antropologia, arte, architettura, archeologia – impegnandosi in una riflessione non tanto su queste discipline, ma con queste discipline, felicemente accomunate dall’allitterazione della lettera ‘a’. Il testo nasce da un corso che l’autore ha tenuto a partire dal 2003-2004 presso l’università di Aberdeen e attinge alle esperienze pratiche condotte durante le lezioni come scheggiare una pietra, “incorniciare” un paesaggio, costruire un tumulo, entrare in contatto con un materiale, per costruire – è il caso di usare questo termine – un pensiero attraverso il produrre, attività che accomuna per l’antropologo le “4A”. 

Non si tratta però di un manuale, di un libro di testo di supporto al corso, ma è una diretta esemplificazione di ciò che sostiene, un manifesto della sua “filosofia personale” come afferma Ingold nella premessa. La tesi fondamentale viene enunciata in modo chiaro: “produrre significa stabilire una corrispondenza tra l’artefice e il materiale”. Ovvero, la necessità di uscire dalla concezione ilomorfica, l’idea che produrre significhi imporre una forma sul mondo materiale, per ripensare il “fare cose” (making) come un “processo di crescita”, un processo morfogenetico nato dalla corrispondenza tra artefice e materiale.

 

“In assenza di un concetto a priori di forma, […] stabilire se una cosa sia finita o meno non solo è impossibile, ma è anche una domanda priva di senso”, sostiene Ingold. Quali sono, dunque, le “domande sensate” che si possono porre circa la produzione di cose e circa il “pensare attraverso le cose”? 

 

 

Innanzitutto, occorre “imparare ad imparare”, un processo di deuteroapprendimento, come lo definirebbe Gregory Bateson, che non deve prendere le mosse dalla descrizione a posteriori di qualche pratica, ma dall’applicazione del metodo di ricerca principe dell’antropologia, l’osservazione partecipante, in un coinvolgimento diretto con il mondo. Lungi dall’essere un paradosso, l’osservazione partecipante non è, per Ingold, una tecnica di raccolta dati su qualcosa, ma un “impegno ontologico” con qualcosa.  Come l’apprendista artigiano si reca a bottega dal maestro per imparare da lui e non su di lui, l’antropologo apprende dalle situazioni in cui si trova, invece di guardare retrospettivamente a una conoscenza su qualcosa. Nella controversa proposta di Ingold, l’antropologia è contrapposta all’etnografia intesa come studio documentario, uno sforzo descrittivo finalizzato alla produzione di resoconti su qualche fenomeno. L’antropologia è vista come un processo vitale orientato verso un desiderio trasformativo, un movimento dinamico di apprendimento dai contesti attraverso un impegno pratico con il mondo per condurre ad un cambiamento. Il suo fine non è quello di proporre generalizzazioni teoriche, ma di “aprire spazi per un’indagine generosa, aperta, comparativa eppure critica sulle condizioni e sulle possibilità della vita” finalizzata a “costruirci il nostro futuro”. 

 

Nel testo si attraversano diverse pratiche, diversi modi in cui l’artefice “corrisponde” con i materiali. Teoria e pratica, in Ingold, non sono momenti differenti: l’atto di pensare avviene nel coinvolgimento diretto con le pratiche situate nel proprio contesto ecologico fatto di materiali, di natura, di flussi, di forze. Dalla constatazione del carattere fluido dei materiali, opposto alla solidità della materialità, si passa all’intreccio di cesti di vimini conficcati sulla spiaggia di Aberdeen, in cui l’intenzionalità dell’artefice si amalgama con la resistenza del materiale e la forza del vento che imprimono una direzione differente alla forma del cesto “seguendo e assecondando le forze e i flussi che porteranno il lavoro a compimento”. La stabilità nei millenni e in luoghi disparati della forma delle “asce di pietra paleolitiche”, le amigdale acheuleane, solleva interrogativi ancora irrisolti definitivamente. Per Ingold, nelle riflessioni attorno alla produzione di questi oggetti si riscontra la fallacia del prodotto finito, ovvero la concezione che l’oggetto ritrovato sia corrispondente a un preesistente schema mentale. Entrando nel processo costruttivo, invece, la forma ottenuta emerge nell’itinerario portato avanti dalla complessa interazione tra la struttura della pietra, la configurazione anatomica dei palmi delle mani e i ritmi della percussione che creano, come già segnalava André Leroi-Gourhan, quella peculiare forma. 

 

La costruzione di case o di cattedrali e il design di oggetti, nella prospettiva di Ingold, lasciano la dimensione del progetto a priori e diventano processi creativi di risoluzione di problemi pratici, condotti attraverso tecniche concrete, nel costante e artigianale far fronte alle questioni poste dall’interazione tra il materiale, gli strumenti, l’ambiente e l’artefice. L’edificazione di una cattedrale, osservata attraverso la serie di procedure condotte usando corde e pali, evidenzia la geometria concreta messa in opera dagli artigiani, scartando l’idea dell’applicazione pedissequa di un disegno architettonico. La cristallina langue saussuriana del design lascia il passo alla materialità di una competenza pratica fatta dell’attualizzazione di una serie di pratiche tradizionali imparate attraverso la produzione stessa. 

 

Il concetto di agency, della capacità di azione individuale, esce malconcio dall’antropologia di Ingold. Il dibattito sull’attribuzione di un certo grado di agency agli artefatti può essere fatto risalire al seminale lavoro di Alfred Gell, Art and Agency che sottolineava come negli oggetti d’arte si cristallizzino le intenzioni di coloro che si trovano imbricati nelle reti di relazioni attorno ad essi. Per l’antropologia contemporanea è centrale la consapevolezza che oggetto dell’analisi non siano collettivi fatti solo di individui, ma collettivi ibridi composti da persone, cose, animali, enti non umani a cui sono attribuite proprietà differenti. Nella visione di Philippe Descola si propongono differenti proprietà ontologiche attribuite in modo contrastivo a umani e non umani. Per Eduardo Viveiros de Castro, è la molteplicità dei punti di vista, delle prospettive, a creare mondi plurali nei quali gli enti hanno proprietà e possibilità differenti. Ingold risolve il dibattito non già attribuendo agency o differenti ontologie agli oggetti, ma privandone gli esseri umani stessi. Per esempio, nel volo di un aquilone, prodotto dall’interazione di forma, aria e azione umana, si vede chiaramente come non si tratta di un’agency del conduttore imposta all’artefatto, ma di un’animacy, un’animazione, dalla quale nasce la forma del volo, una danza dell’animacy che comprende allo stesso modo l’aquilone e il suo pilota. 

 

Ingold riporta al centro della pratica antropologica la consapevolezza che gli esseri umani vivono immersi in un ambiente caratterizzato da forze e movimenti nei quali sono presi ineluttabilmente, e l’unico modo che abbiamo per conoscere questo mondo è impegnarsi direttamente con esso, facendo crescere il nostro apprendimento dall’interno delle pratiche. Ciò che rimane, parafrasando Bateson, è come questo tentativo di Ingold appaia una “metafora per qualcos’altro”, di cui ancora non intuiamo che le fondamenta – o, per non contraddirlo, il flusso. 

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La rivoluzione silenziosa dell’Imperatore

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La successione imperiale davanti al popolo narcotizzato dall’euforia consumistica

 

In mezzo a un lunghissimo ponte storico durato 10 giorni di seguito, davvero inimmaginabile per un popolo di stacanovisti, il 30 aprile 2019 l’Imperatore Akihito ha abdicato e il giorno dopo il suo primogenito Naruhito è salito al trono. Con la successione degli Imperatori è cambiato dopo 30 anni anche il nome dell’era, da Heisei (平成) a Reiwa (令和). Ma cosa ha significato questa successione per il popolo giapponese? L’atmosfera nella società nipponica in quei giorni appariva più che euforica, non tanto per l’evento storico in sé, quanto piuttosto per gli innumerevoli annunci di saldi ed eventi commerciali ovunque si andasse, spinti dal capitalismo sfrenato, concentrato a sfruttare voracemente qualsiasi pretesto. E tutto questo mood festante sembrava francamente servisse solo a narcotizzare ancora una volta la coscienza del popolo giapponese che non si è mai domandato seriamente, da oltre 70 anni, sullo status problematico del loro Imperatore, definito dalla Costituzione “simbolo della nazione e dell’unità del popolo giapponese”. In cosa consiste questo status simbolico dell’Imperatore giapponese? Iniziata tre anni fa con un discorso alla rete televisiva nazionale, la faccenda dell’abdicazione in vita di Akihito, molto discussa tra gli specialisti, ma soprattutto aspramente criticata dai conservatori, ha dimostrato una volta di più quanto sia importante la rivoluzione silenziosa portata avanti da Akihito sul suo essere simbolico, ma anche la perfetta inettitudine del popolo giapponese a seguire questa sua innovazione storica.

 

Un momento della cerimonia di abdicazione dell’Imperatore Akihito.


Imperatore simbolico

 

Per comprendere la portata della rivoluzione di Akihito, proviamo a rivedere insieme cosa si intende esattamente con “Imperatore simbolico” secondo la Costituzione giapponese. 

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli USA, temendo che l’URSS potesse invadere il Giappone, decisero di mantenere in carica l’allora Imperatore Hirohito, occultando le testimonianze che potessero rivelare le sue responsabilità sul conflitto, per agevolare l’occupazione degli Alleati senza sconvolgere ulteriormente una popolazione già duramente colpita e insieme sfruttare a loro vantaggio la sua autorità carismatica. 

 

Così nasce “l’Imperatore simbolico”, uno status prescritto dai primi otto articoli della nostra Costituzione. È davvero una pura anomalia che i primi articoli della costituzione di un paese democratico moderno non parlino del popolo in cui risiederebbe la sovranità, ma dello status e degli obblighi dell’Imperatore. Questi articoli vennero introdotti dagli americani allo scopo di preservare una certa sacralità dello status imperiale ereditario e allo stesso tempo di privarlo di ogni possibilità di agire ed esprimersi politicamente. Tutto per impedire il riarmo del Giappone (anche se in realtà anche noi abbiamo un esercito vero e proprio che si chiama Ji-ei-tai, letteralmente “Forza per l’autodifesa”, che in teoria non dovrebbe mai attuare la sua forza).

 

Così, a partire dal 1946, il Giappone ha un Imperatore che esiste, sostanzialmente, solo come “funzione istituzionale” e non come un vero essere umano a cui siano riconosciuti i diritti civili fondamentali alla pari di ogni altro cittadino. L’Imperatore giapponese non è iscritto all’anagrafe, in questo senso dunque non fa parte della popolazione giapponese ufficiale. Non ha libertà di scegliersi un mestiere, dunque non può fare altro che l’imperatore né può smettere di essere Imperatore. Non può sposarsi senza l’approvazione del governo. Ha il compito di ratificare il governo, nominare i ministri, convocare le Camere, sciogliere la Camera bassa, ecc., ma senza alcuna possibilità di obiettare o di opporsi. In sostanza è un puro esecutore di compiti statali, un “timbratore”, non è considerato come un vero e proprio soggetto pensante che possa agire con la propria testa e il proprio corpo. Per gli americani, all’epoca, come confidò il brigadiere generale Bonner Fellers che in Giappone aveva il compito di proteggere Hirohito da un’eventuale incriminazione per il ruolo svolto durante la guerra, non importava niente di come sarebbe stato il futuro del sistema imperiale giapponese: agli USA bastava superare quel momento delicato, anche se la soluzione adottata avesse lasciato un’eredità molto problematica. In uno stato moderno e democratico non dovrebbe esserci una persona del tutto priva di diritti fondamentali. Invece da noi lo sancisce addirittura la Costituzione.

 

In realtà, lo sfruttamento politico dell’Imperatore come “funzione istituzionale” non è un’invenzione americana dell’ultimo dopoguerra. Sin dall’avvento del Giappone moderno, cioè quando, alla fine dell’era dei samurai nella seconda metà dell’Ottocento i nuovi leader politici riesumarono il giovane Imperatore Meiji (Imperatore dal 1867 al 1912) e lo imposero come capo carismatico, la strumentalizzazione politica del suo status ammantato di sacralità era iniziata. 

Pochi sanno però che l’aura sacra dell’Imperatore, che sembra oggi risalire a un’epoca antichissima, è invece un prodotto di fine Ottocento a cui contribuì in modo significativo anche Edoardo Chiossone, pittore e incisore genovese all’epoca ingaggiato dalla zecca giapponese: fu lui infatti a disegnare il ritratto dell’Imperatore Meiji che poi venne riprodotto fotograficamente e diffuso in tutto il paese spacciandolo per fotoritratto. Questa finta fotografia, passata alla storia come go-shin-ei (御真影:letteralmente “figura vera”) eserciterà un’enorme influenza quasi magica sulla psiche dei giapponesi.

 

Go-shin-ei dell’Imperatore Meiji disegnata da Edoardo Chiossone.


Per tornare all’ultimo dopoguerra, possiamo dire che gli americani hanno solo sfruttato appieno un aspetto del sistema imperiale giapponese preesistente. Ed è questa l’essenza dell’Imperatore simbolico che esiste solo come funzione istituzionale. La sua “persona” non è umanamente considerata dalla Costituzione. Se il sistema è durato fino a oggi, si deve unicamente al fatto che nessuno dei quattro Imperatori moderni (Meiji, Taisho, Showa e Heisei) ha mai protestato (anche se probabilmente non avrebbero potuto). In altre parole, sono “ostaggi” o meglio “prigionieri” istituzionali pubblicamente accettati. L’effetto narcotizzante del loro status carismatico (seppure ormai sensibilmente ridotto) occulta indubbiamente tutto questo agli occhi della gente, ma si può capire perché l’Imperatrice Masako, consorte del nuovo Imperatore Naruhito, una ex diplomatica di carriera, appaia sempre così triste. Non è difficile immaginare come una persona che entri adulta in quell’ambiente possa trovare insopportabile viverci. La cosa ancora più assurda, però, è che da sempre e ancora oggi, quando la famiglia imperiale si presenta al pubblico, la folla esclami “Viva l’Imperatore!” senza che la sorda sofferenza di quelle persone prive di diritti e di dignità passi mai per la mente di chi le osanna.

 

L’8 agosto del 2016 l’Imperatore Akihito pronuncia in televisione “il discorso imperiale sul suo ruolo simbolico”.


Il discorso imperiale

 

Torniamo al controverso discorso di Akihito. Tutta la faccenda ha avuto inizio quasi tre anni fa, quando l’8 agosto 2016, sul canale della televisione statale NHK, Akihito ha pronunciato l’ormai celebre “discorso imperiale sul suo ruolo simbolico”, che molti media hanno sbrigativamente presentato come “annuncio dell’abdicazione”. In realtà “il discorso” non conteneva alcuna dichiarazione chiara dell’intento di abdicare, anche se la volontà di compiere quel passo era ampiamente allusa. Se Akihito avesse apertamente annunciato l’abdicazione, il “discorso” sarebbe sicuramente stato giudicato incostituzionale. La Costituzione prescrive infatti che la successione imperiale avvenga alla morte dell’Imperatore, e la possibilità per l’Imperatore in carica di fare commenti o obiezioni sul suo status non è prevista (ovvero è proibita) dalla Costituzione. 

 

Questo “discorso” sfiorava abilmente il limite per non incorrere nel rischio di incostituzionalità, ma non ha mancato di scatenare molte polemiche. Al di là dell’incostituzionalità o meno dell’intervento televisivo di Akihito, ci sono state molte discussioni sulla questione dell’eventuale abdicazione in vita, non prevista dalla Costituzione (dimenticando che nella lunga storia del Giappone pre-moderno si contano addirittura 57 precedenti tra i 124 Imperatori nipponici prima di lui). I principali motivi di obiezione all’abdicazione in vita erano tre: 1. Dopo l’abdicazione, l’Imperatore abdicatario potrebbe esercitare influenze dannose sul suo successore. 2. Potrebbe verificarsi la situazione in cui l’Imperatore possa essere costretto ad abdicare contro la sua volontà. 3. Se l’Imperatore potesse liberamente abdicare, lo stesso atto di annunciare l’abdicazione potrebbe in futuro assumere significati politici importanti, eventualità non ammessa dalla Costituzione. Vale a dire: un futuro Imperatore potrebbe usare l’abdicazione per esprimere il suo dissenso contro la politica del governo. 

Le stesse obiezioni erano già state sollevate oltre trent’anni fa, ma sono piene di contraddizioni. Quanto al punto 1, la Costituzione giapponese prevede in casi particolari la reggenza, e un eventuale Reggente non potrebbe forse esercitare “influenze dannose”? Il punto 2 paventa una situazione che vada contro la volontà dell’Imperatore, ma dimentica che attualmente la volontà dell’Imperatore non è affatto contemplata dalla Costituzione. Il punto 3 rivela proprio l'intrinseca contraddizione della carta costituzionale: che la Costituzione stessa costringa un individuo (l’Imperatore) a non esprimere mai la sua opinione. 

Alla fine, si è deciso di istituire una “commissione di saggi” per elaborare una legge speciale (poi promulgata il 16 giugno del 2017) valida solo in questa circostanza, senza andare a modificare il Kōshitsu Tempan, il Codice della famiglia imperiale.

 

In realtà, il focus del “discorso” di Akihito non era posto sulla questione dell’abdicazione, ma su un altro argomento: la sua ricerca sul ruolo dell’Imperatore simbolico. Akihito sottolineava nel “discorso” quanto egli “abbia riflettuto quotidianamente sul suo ruolo da simbolo definito dalla Costituzione” e abbia sempre cercato di attuarlo nel migliore dei modi per “partecipare attivamente alla società” e “rispondere alle aspettative del popolo”, oltre al “suo dovere di salvaguardare la tradizione”. E in effetti Akihito da quando è salito al trono ha sempre fatto molto più di quanto prescriva per lui la Costituzione, ma facendo in modo che nemmeno gli ultraconservatori potessero criticarlo (anche se inizialmente non sono mancate critiche). Questo suo attivismo è stato davvero inedito, un passo davvero storico, mai mostrato dai suoi predecessori. 

 

Imperatore attivista

 

Nel “discorso”, Akihito sottolinea “l’importanza di stare accanto alle persone, di ascoltare le loro voci e di accogliere i loro pensieri in caso di necessità”. Sta alludendo alle sue azioni più importanti intraprese in occasione delle numerose calamità (terremoti, tsunami, esplosioni vulcaniche, tifoni, ecc.) che hanno colpito il Giappone nei trent’anni in cui è rimasto in carica. A partire dal giugno 1991, da quando violenti flussi pirocrastici del vulcano Fugen-dake hanno colpito Shimabara, nella prefettura di Nagasaki, Akihito e la moglie Michiko si sono sempre recati sui luoghi funestati da grandi calamità per confortare le persone sfollate.  

 

Inizialmente fu molto forte la critica da parte dei conservatori, nazionalisti e nostalgici, che avevano ancora in mente una figura imperiale del passato, intrisa di sacralità. Perché va ricordato: l’imperatore del Giappone è stato fino al 1945 per i suoi sudditi una sorta di dio in terra, misterioso e inafferrabile, e soprattutto infallibile. Un monarca assoluto cui obbedire con fede cieca e al quale essere pronti a dare la vita. Non potevano accettare che l’Imperatore Akihito s’inginocchiasse sul pavimento del rifugio per sfollati per parlare con persone comuni ponendosi al loro stesso livello. Effettivamente fu un’immagine molto forte per i giapponesi. Ma negli anni questo suo gesto gentile è diventato un’icona molto popolare e quando, l’11 marzo 2011, la regione nordest di Tōhoku è stata colpita da un fortissimo terremoto (M9.0) e da uno tsunami devastante, nessuno ha più osato criticare questo suo gesto. In quell’occasione l’Imperatore, nonostante le sue precarie condizioni di salute, ha ripetuto la visita (sempre a/r in giornata, sempre a una distanza considerevole) per sette settimane consecutive in varie località dell’ampia regione colpita. 

       

Akihito e Michiko con gli sfollati a Unzen (1991).


Akihito con gli sfollati del terremoto a Kobe.

 

L’Imperatore Akihito con gli sfollati del terremoto a Tōhoku (2011).  


Akihito e Michiko pregano in mezzo alle macerie dello tsunami Tōhoku (2011).

                                                            

Inoltre, nel 2005, Akihito ha voluto recarsi all’Isola di Saipan, la maggiore delle isole Marianne Settentrionali che fu teatro di una tremenda battaglia della Guerra del Pacifico costata la morte di 55.000 soldati giapponesi, 3.500 soldati americani e 900 abitanti locali, per pregare per le vittime della guerra. Nonostante le accese polemiche sulla presunta incostituzionalità della sua azione, Akihito l’ha voluta fortemente e l’ha realizzata.

 

Imperatore Akihito e Imperatrice Michiko pregano a Saipan per le vittime della guerra.


Niente di tutto questo è scritto nel Kōshitsu Tempan, il codice normativo che secondo la Costituzione definisce tra le altre cose anche le azioni dell’Imperatore. Akihito non aveva l’obbligo di fare niente di tutto questo, ma l’ha voluto e l’ha fatto, dimostrando che, a differenza dei suoi predecessori moderni, il suo status di “simbolo” non è una presenza passiva, ma si realizza solo compiendo azioni reali di grande umanità tra la gente, soprattutto tra chi è in difficoltà. L’Imperatore, nella concezione che ne ha dato Akihito, si reca in luoghi anche lontani per incontrare le persone, le conforta e prega per la ricostruzione, per il futuro e per la pace. Poiché realizzare tutto questo può essere faticoso considerando che l’imperatore ha già tantissimi obblighi statali, quelli sì già prescritti da eseguire, la sua volontà di abdicare (anche se ricordiamo che nel “discorso” non è menzionata) viene proprio da questo punto. Se le sue condizioni fisiche non gli consentivano più di fare tutto questo, allora non avrebbe più potuto esercitare il suo ruolo di Imperatore simbolico, perché per Akihito quel ruolo doveva necessariamente includere tutte quelle azioni faticose da compiere con grande umanità in mezzo alle persone. 

Si dirà: cosa c’è di tanto strano o di così rivoluzionario nel comportamento di Akihito? In fondo tutto ciò rientra tra i compiti del rappresentante di una nazione, indipendentemente dall’istituzione che incarna, monarchia o repubblica che sia. E questo è senz’altro vero in Occidente: il capo di stato che non mostrasse di sentire e condividere il lutto per un evento funesto abbattutosi sulla nazione che rappresenta, o anche la gioia e l’orgoglio per i successi da essa conseguiti, verrebbe probabilmente criticato dai suoi concittadini. Ma fino a Hirohito e anche dopo la guerra, all’Imperatore giapponese non si chiedeva un comportamento così attivo. Invece possiamo dire che, in maniera molto silenziosa ma decisa, e senza trasgredire in alcun modo alle norme dello status simbolico, Akihito ha voluto allontanarsi il più possibile dal modello dei suoi predecessori.

 

Sicuramente, prima di decidere di annunciare “il discorso”, l’Imperatore e il suo entourage hanno calcolato accuratamente il suo effetto ed erano sicuri di una favorevole accoglienza da parte della popolazione. E hanno avuto ragione. Difatti, con l’80% dell’opinione pubblica che sostiene la volontà dell’Imperatore, nemmeno il governo ultraconservatore di Abe ha potuto opporsi più di tanto.

 

Umanità allo status imperiale

 

Ryuta Imafuku, un noto antropologo e saggista giapponese, ipotizza anche un altro fattore dietro la decisione di Akihito: i pesanti ricordi del periodo prima e dopo la morte del padre Hirohito. Dal ricovero di Hirohito in ospedale fino alla sua morte, a cavallo tra il 1988 e il 1989, c’è stato un lungo periodo di quasi quattro mesi molto particolare, durante il quale tutto il popolo giapponese sembrava trattenere il fiato di fronte al loro dio che si stava spegnendo. Senza che ci fosse una proibizione vera e propria, tutti si trattenevano dal fare qualcosa di festoso, o fastoso, o rumoroso. No emperor, no party. Nessuno si aspettava che potesse accadere un fenomeno sociale del genere nel Giappone moderno. A ripensarci ora, credo che si fosse creata quell’atmosfera perché il lutto per Hirohito, in realtà, non era un lutto per una persona reale, era il lutto per lo stesso sistema dell’Imperatore simbolico, e ciò rendeva molto complesso e oppressivo il clima nel Giappone di allora che sembrava non finire mai. Si dice che durante quei mesi abbiano tenuto artificialmente e inutilmente in vita Hirohito solo per far iniziare la nuova era nell’anno nuovo (ufficialmente è morto il 7 gennaio 1989). 

Dopo la sua morte è iniziato il periodo di mogari, una specie di veglia funebre religiosa molto lunga, che è durato due mesi. Poi una serie di cerimonie funebri che si sono protratte per circa un anno. E nel frattempo bisognava procedere contemporaneamente con le cerimonie di insediamento al trono del nuovo Imperatore. Imafuku fa notare l’assurdità disumana delle esperienze davvero pesanti e dolorose che lo Stato imponeva ai familiari dell’Imperatore. Quell’occasione, più di altre, metteva in evidenza come l’Imperatore esistesse solo come istituzione nonostante egli fosse un essere umano vivente (o defunto). È facile ipotizzare che Akihito abbia sviluppato forti dubbi al riguardo e abbia voluto evitare ai suoi un’altra esperienza simile. 

 

Strumentalizzazione del kaigen (il cambio di era) da parte del governo di Abe

 

L’opinione pubblica che ha sostenuto la decisione di Akihito è stata mossa più emotivamente che razionalmente, e purtroppo temo che i cittadini non abbiano riflettuto a sufficienza sul messaggio che Akihito ha voluto lanciare con il suo “discorso”. I giapponesi si sono tuffati nell’euforia consumistica senza rispondere all’invito di Akihito di riflettere insieme. Invece i politici conservatori che hanno un’idea reazionaria dell’istituzione imperiale, come il premier Abe, hanno cercato di arginare questo Imperatore troppo liberale per i loro gusti cercando di intervenire in qualche modo sul testo del “discorso” e di strumentalizzare l’occasione del kaigen (改元, il cambio di era) solo per aumentare il loro prestigio.

 

Il premier Abe presenta alla stampa il nuovo gengō.


La nuova era si chiama Reiwa (令和). Rei (令) significa “bella”, “raffinata”, ma nel senso di “in ordine”, “senza sbavatura”. Wa (和) significa “armonia”, “concordia”, “pace”. Il significato in sé sembra anche bello. La commissione che aveva il compito di proporre il nome della nuova era ha scelto tra le varie proposte queste due parole prese da una poesia del Man'yōshū, la più antica antologia di poesie giapponesi risalente alla seconda metà dell’VIII secolo, che racchiude oltre 4000 componimenti di autori appartenenti a tutte le categorie sociali, a cominciare da vari imperatori e nobili ma anche contadini, soldati, artigiani e monaci. Ma citare un classico giapponese per il nuovo gengō (元号: il nome dell’era) è una novità assoluta nella storia del Giappone. Fino all’era precedente Heisei (平成), tutti i gengō del passato hanno avuto origine nei classici cinesi. Quindi è una chiara discontinuità rispetto alla tradizione, una direzione voluta dal governo. Il sociologo Shinji Miyadai ci legge un meschino tentativo sovranista del governo attuale che vuole diminuire dal nostro vocabolario le tracce della Cina, un vicino diventato troppo scomodo. Peccato che storicamente la nostra civiltà sia così strettamente fusa e connessa con quella cinese, a cominciare dagli ideogrammi – come gli stessi Rei (令) e Wa (和) – che non è pensabile immaginare una civiltà giapponese senza radici cinesi. 

 

Nella faccenda del kaigen, il governo di Abe ha fatto di tutto per dimostrare di essere lui il suo autore. Anche alla sua presentazione (1° aprile 2019) Abe ha continuato a comportarsi come se il gengō fosse una sua proprietà, presentandosi personalmente davanti alla nazione per spiegarne origine e significato secondo quanto illustrato qui sopra. È stato un gesto molto arrogante e una chiara invasione di campo rispetto all’Imperatore che con il gengō avrebbe un legame più forte. Abe ha esercitato il suo protagonismo anche alla cerimonia dell’insediamento al trono di Naruhito (1° maggio), rivolgendosi all’Imperatore in nome del popolo. 

 

Sotto la superficie

 

Sotto la superficie dell’acqua della Storia, si stavano consumando invisibili battaglie tra la famiglia imperiale e il governo conservatore. Detto così può sembrare contraddittorio, ma è la realtà. Il pomo della discordia è il nono articolo della Costituzione che “bandisce la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali che coinvolgono lo Stato”. Akihito, come dimostrano tutte le sue azioni, vuole assolutamente salvaguardare quest’articolo, mentre Abe non vede l’ora di cancellarlo. Forse Akihito ha ritenuto che la sua abdicazione e la salita al trono di Naruhito potessero offrire una grande occasione, davanti all’intera nazione, dove il nuovo l’Imperatore giura di “pregare per la pace”. Il che avrebbe, se pur momentaneamente, allontanato il disegno della riforma costituzionale sperata da Abe. Anche questo può essere stato uno dei motivi della scelta di Akihito. 

Ora staremo a vedere quale sarà la statura del nuovo Imperatore, se riuscirà a proseguire le orme del padre oppure sarà costretto a fare marcia indietro. Pur essendo solo un “simbolo” privo di possibilità di esprimersi politicamente, l’atteggiamento che assumerà Naruhito avrà un peso non indifferente sulla sorte della nostra nazione. Perché la società nipponica dovrà prima o poi fare i conti con forti contraddizioni rimaste intorno al suo status simbolico.

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Artisti e antropologia: far parlare la realtà

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Negli ultimi vent’anni c’è stato un avvicinamento impressionante tra due discipline che non hanno mai avuto uno statuto comune: l’arte e l’antropologia. Da qualche settimana uno degli antropologi più brillanti e antiaccademici come Michael Taussig (di lui è in uscita la riedizione di Il mio museo della cocaina per Fieldwork-Milieu) tiene un corso a Cà Foscari a Venezia il cui titolo è “Fieldwork as art”. La tesi di Taussig è che il lavoro di ricerca sul campo che consiste in un’osservazione partecipata, cioè nella condivisione della vita quotidiana della gente che “si studia”, ha tutte le caratteristiche della ricerca artistica. In un testo rivelatore e pieno dei suoi “schizzi”, disegni, mappe, aforismi e osservazioni immediate, “I swear I saw this”, Giuro di aver visto questo, Taussig pone le basi per una nuova teoria del fieldwork. Catturare, annotare, disegnare, scrivere note è un processo artistico, una presa sul mondo che consenta di farlo passare come un’impronta nei propri carnets di viaggio. Ciò richiede un’arte, si tratta cioè di una lunga formazione che educhi la sensibilità a intuire cosa accade là fuori. Un altro antropologo contemporaneo, Tim Ingold, nel suo bellissimo Making, Arte, Archeologia, Architettura (Raffaello Cortina ed.) definisce il fieldwork come l’apprendimento per contiguità delle pratiche altrui. Un apprendimento fisico prima ancora che intellettuale, fatto di gesti, tecniche del corpo, maniere di fare, di trasformare la materia intorno. All’antropologo, secondo Ingold, è richiesto di avere quel particolare tipo di “apprensione” della realtà che sta più nel campo dell’intuizione (altri parlano di abduzione) e che compete alla creazione artistica. La cosa impressionante è che nel campo degli artisti avviene un fenomeno analogo. L’idea che la pratica artistica sia un “fieldwork” è talmente diffusa che si sprecano i convegni, le monografie e i reader sull’argomento e gli artisti che si definiscono antropologi sono oggi numerosissimi.

 

Si pensi al lavoro di Jimmy E. Durham, l’artista Cherokee amico di Taussig, che è stato insignito del premio alla carriera dalla Biennale di Venezia quest’anno, ma anche alle opere del sudafricano William Kentridge, che sconfinano tra denuncia, documentazione storica, sensibilità antropologica, ricerca dettagliata sul campo. Anche all’ultima biennale i lavori di documentazione sul campo erano numerosissimi, tra tutti quelli sulla danza nelle favelas di Rio per il padiglione Brasile, ma lo stesso padiglione Lituano con la performance sulla spiaggia aveva i caratteri di una messa in scena molto etnografica. Gli artisti hanno con piacere attraversato i confini disciplinari e si può dire che gli scambi sono molto fruttuosi e arricchiscono le pratiche di entrambe le discipline e soprattutto le mettono in una crisi produttiva. Ci sono casi di “imbrogli” poco piacevoli, dove artisti un po’ superficiali si appropriano degli strumenti dell’antropologia senza avere la pazienza e la competenza per adoperarli e se ne servono come giustificazione al proprio lavoro, ma sono eccezioni. 

 

 

Occorre anche notare che questa vicinanza dei campi era stata posta in altri periodi. All’origine dell’antropologia francese, intorno ai surrealisti e al “Collegio di Sociologia” si riunivano personaggi come Bataille, Caillois, Leiris, consci del valore fondamentale dell’altrove nella mossa del cavallo che era necessaria a un’arte contemporanea. Lévi-Strauss stesso, per quanto abbia soffocato in un sorgente strutturalismo questa attenzione, non ne era del tutto al riparo. E per andare oltre-oceano, c’è un esempio che nella New York degli anni ’50 stupisce per la sua intuizione anticipatrice. È il caso di Maya Deren, artista e videoartista, vicina al mondo di Andy Warhol, ma soprattutto a Man Ray e allo stesso tempo assidua frequentarice di Joseph Campbell, l’autore del libro di mitologia più venduto al mondo L’eroe dai mille volti e alla coppia Gregory Bateson e Margaret Mead. È proprio trattando con questi ultimi che la Deren decide di andare a passare un lungo periodo ad Haiti per studiare il Vudù. Una volta giunta sull’isola l’artista newyorkese si immerge nei rituali di possessione, entra nel mondo delle divinità africane e fa parte delle séances di possessione. Ad Haiti però accade qualcosa di inaspettato: la Deren rinuncia a fare l’artista, decide che la realtà dentro cui si trova è troppo complessa per essere trasformata in “arte” e si trasforma in antropologa. Non produrrà alcun video, ma un testo che è ancor oggi di riferimento per chi voglia occuparsi di vudù haitiano. Lo ha ripubblicato in Italia il Saggiatore, I cavalieri divini del Vudù, l’originale è del 1953, la traduzione italiana di Cristina Brambilla.

 

Per chi conosce il percorso della Deren e la sua maniera di lavorare, il passaggio all’antropologia sembra uno sviluppo naturale della sua maniera sperimentale di procedere. La stessa artista che filma Duchamp a New York durante la partita a scacchi concepisce se stessa come una ricercatrice, un’artista che cerca di evocare la presenza ineffabile della realtà. Da poco sono stati pubblicati degli estratti del suo diario di campo ad Haiti. E per comprenderne la portata, anche scientifica, occorre confrontarli con la conclusione dei Cavalieri, laddove la Deren racconta la sua possessione, inaspettata, come un calarsi nell’abisso, una possessione che lei non ha cercato, anzi che ha evitato accuratamente durante tutto il lungo periodo, tre anni di ritorni e permanenze sul campo (anche questa una caratteristica che l’accomuna all’antropologia, il non accontentarsi di un mordi e fuggi, ma un calarsi completamente nella realtà da studiare). Viene alla mente il coinvolgimento di cui Michael Taussig parla in Il mio museo della cocaina, quel non potere mai restare indifferente alle circostanze, l’essere implicato nella vita delle comunità povere e minacciate dei neri della Colombia. Se l’antropologia si richiama al “metodo”, all’importanza della sospensione tra oggettività e soggettività, della capacità dello sguardo da lontano, ma coinvolto, per gli artisti il capitombolo avviene al contrario. Il salto mortale è quello dalla soggettività estrema alla capacità di far parlare la realtà senza caricarla solo del proprio sguardo.

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«Ogni grande narratore è anche un etnologo, e tale qualità, che in alcuni può risultare accessoria o implicita, in Primo Levi divenne via via centrale». Sono parole di Daniele Del Giudice (Introduzione, in Primo Levi, Opere, Einaudi 1997), delle quali va sottolineato l’aggettivo “grande”. Perché non tutti i narratori sanno, dopo aver analizzato, sviscerato, metabolizzato le categorie del vissuto, restituire non una semplice descrizione della realtà, ma anche e soprattutto una nuova visione di quei fatti, elaborata alla luce della storia e del comportamento umano. Una narrazione che non si limiti al descrivere, ma che proponga una nuova teoria attraverso cui guardare il mondo.

 

È nel campo di Auschwitz prima e lungo le strade di mezza Europa poi che Primo Levi getta le basi della sua antropologia. È là che inizia il suo lavoro di etnologo, per poi tradurre tutte le sue riflessioni nella sua opera più profonda e drammatica che sarà I sommersi e i salvati. Perché il campo è involontariamente un laboratorio dove si sta compiendo un esperimento terribile, che finisce per mettere in luce cosa faccia parte della natura umana e cosa sia invece il prodotto della cultura.

Sopravvissuto al campo di sterminio, Levi attraversa un’Europa segnata da una umanità rimescolata, travolta da una guerra che è iniziata con una rivendicazione identitaria fortissima ed è finita con lo sbriciolare ogni appartenenza. Perché per appartenere a qualcosa bisogna prima di tutto essere qualcuno, essere un uomo. Il dubbio che Levi nutre fin dal suo primo scritto. Come una valanga, la guerra aveva travolto il continente, nessuno era più al suo posto, in quello che credeva essere il suo posto. Babele era ritornata: «Chiamavano nomi, pregavano, imprecavano, implorarono aiuto in tutte le lingue d’Europa». È questa l’umanità di cui Levi si fa etnologo ne La tregua, un’accozzaglia di sradicati, strappati a tutto e da tutto, fin quasi persino all’umanità. In questo caleidoscopio umano le parole di Levi tracciano sempre, tranne nel caso dei tedeschi, confini a matita, dal tratto leggero, che lascia spazio alla comprensione e al cambiamento, perché “una guerra spacca come una sassata” e frantuma ogni ordine.

 

Tutti possono o vogliono diventare qualcos’altro, fingersi diversi ed è in questo mare in continuo movimento che Levi traccia la sua etnologia, che è fatta più di individui, che di popoli, tranne che nel caso dei tedeschi e dei russi. Nei confronti di questi ultimi, che Levi chiama sempre russi e mai sovietici, come se ne volesse cogliere più l’anima antica, popolare, che non la condizione storica del momento, esprime una sorte di spontanea simpatia e ammirazione e a un tempo una certa mancanza di fiducia, che non diventa però mai disprezzo. Sembra quasi che Levi accetti con bonarietà quel tanto di inefficienza che li accomuna ai mediterranei. Come quando descrive la distribuzione del cibo nel treno del ritorno, dove un giorno le razioni erano quasi a zero e il giorno dopo smisuratamente abbondanti, senza alcuna ragione: «si trattava ancora una volta della benefica secolare incuria russa, della negligenza oblomoviana, che affiorava a tutti i livelli in quel momento felice della loro storia» (ibidem). Una inefficienza che forse diventa persino liberatoria dopo la delirante precisione dei nazisti nel mettere in atto crudeltà di ogni tipo. Levi ammira il patriottismo dei russi che incontra, sincero, profondo, mai fanatico, persino ingenuo. 

 

 

Poi i tedeschi, appunto, dopo averne subito la violenza nel lager, Levi li rivede nel breve passaggio in Germania lungo la via del ritorno. Qui Levi abbandona “lo sguardo da lontano” dell’etnologo e la sua presunta oggettività. Punta il dito e chiede risposta. Il male fatto è troppo grande perché possa essere spiegato in termini che risuonino di umanità. E forse qui Levi propone una inversione di ruoli: chi è un uomo? E il soggetto non è più il deportato a cui si è tentato di portare via la cifra umana, è colui che ha cercato di strappargliela e neppure ritrova quel gesto, questo sì umano, del chiedere scusa. Lui è rimasto impantanato nella sua inumanità, non Levi e i suoi compagni di sventura, che nonostante tutto non riescono a gioire del disastro altrui.  

 

Il panorama etnologico di Primo Levi è fatto però soprattutto di individui appena accennati, che popolano l’universo disgregato di Auschwitz. Da questa disumanità emergono figure che non appartengono più alla categoria della storia, ma a quella del dolore, della paura, della volontà di sopravvivere. Individui persi a tutto e da tutto persi. Figure come Hurbinek. Un bambino e i bambini, scrive Levi, «erano a Birkenau come uccelli di passo» (ibidem). Hurbinek è la non creatura, è paralizzato alle gambe, non sa parlare perché è cresciuto nel campo e nessuno glielo ha insegnato. È un punto interrogativo, una domanda senza risposta, se non nell’infinitezza della tragedia e della crudeltà umana. Dopo il lager Levi inizia a disegnare ritratti umani, come dice ancora Del Giudice, «a figura intera», perché dopo la liberazione il tempo riprende a scorrere, ci si muove, qualcosa accade, l’inaspettato attende e lascia sperare, anche se la novità non sempre è piacevole.

 

Tra questi individui scompaginati spiccano Mordo Nahun, il Greco, uomo dall’etica piratesca e cinica, ma rigorosa, per cui Primo Levi prova una sorta di ammirazione e rispetto. Lo sente vicino perché mediterraneo come lui e questa mediterraneità diventa un modo per uscire da quell’insidioso grigiore che attira verso gli abissi dell’indifferenza, per rimanere attaccati a qualche brandello di storia forse per sopravvivere o per morire un po’ di meno. Così, come emerge da molti racconti di ex deportati, si costruiscono dei “noi” fragili, ma buoni a sopportare un po’ meglio il nulla voluto dai carnefici.

Difficile costruire un qualsiasi senso di appartenenza quando si è internati in un lager, dove tutto viene azzerato. Ci sono individui di nazionalità diverse, rumeni, austriaci, polacchi, italiani, tutti accomunati da un destino feroce, ma anche, per la maggior parte di loro, dall’ebraismo. Un dato identitario fondamentale questo, peraltro mai eccessivamente enfatizzato dal laico Levi, che nella sua antropologia viene però messo in crisi dai Sonderkommandos, quegli ebrei che hanno accettato di collaborare con i nazisti, che accompagnano i loro fratelli alle camere a gas, che ne portano via i vestiti, tranne poi finire anche loro nudi e strozzati dallo stesso gas. È questa la tristemente celebre “zona grigia”, una delle metafore più pregnanti di Primo Levi, quella che forse spiega meglio di ogni altra la “banalità del male” e la complessità della realtà umana, in cui il male non sta sempre da solo, dalla parte sbagliata, ma si intreccia in un abbraccio opaco con molte esistenze condotte all’ombra di una presunta normalità.

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David Efron, Gesto, razza e cultura

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C’è un intero continente di saggi scomparsi che gli editori italiani non ristampano più. Eppure in mezzo a loro ci sono delle vere perle, libri che possono aiutarci a capire il mondo intorno a noi, anche se sono stati pubblicati quaranta o cinquanta anni fa; con questa serie di articoli proviamo a rileggere questi libri, a raccontarli e indicare l’aspetto paradigmatico che contengono per il nostro presente.

 

Copertina arancione, titolo: Gesto, razza e cultura. È il primo volume della collana Studi Bompiani, sezione “Campo semiotico”, diretta da Umberto Eco. L’autore si chiama David Efron. Il libro è uno studio pionieristico condotta sotto la guida dell’antropologo Franz Boas, pubblicato per la prima volta nel 1941 e ristampato nel 1971. Si tratta del saggio inaugurale di una disciplina, la cinesica, che studia i gesti umani e più in generale il linguaggio del corpo. Efron, un giovane ricercatore, aveva letto i teorici del razzismo nazista e le loro aberranti tesi sulla razza. Era convinto che la gestualità seguisse precise regole di significazione. Aveva scoperto il libro di un canonico italiano, Andrea De Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano (1832), che partendo dalle immagini dipinte sui vasi greci aveva tracciato la genealogia dei gesti dei napoletani. Perciò si era messo per strada, sotto i grattacieli di New York, come se fosse nella foresta amazzonica, per osservare due comunità d’immigrati: gli ebrei arrivati dai ghetti centroeuropei e gli italiani meridionali immigrati; quindi a studiare gli appartenenti ai due gruppi che avevano cambiato contesto sociale e culturale, essendo arrivati in America da più tempo. L’idea di fondo dello studio è che i gesti sono appresi dai contesti ambientali in cui si vive. Come spiega nella sua introduzione del 1972, Paul Ekman – diventato successivamente famoso per aver individuato i “fondamentali” delle espressioni facciali legate ai sentimenti –, il giovane antropologo mette a punto un vero e proprio dizionario dei gesti realizzando con l’aiuto di un disegnatore, van Veen, una sorta di stenografia dei movimenti; nel libro ci sono oltre 150 schizzi.

 

Secondo Hans Günrher, antropologo del Terzo Reich, esistono quattro razze distinte: la nordica, l’occidentale, l’orientale e la dinarchica, con conformazioni psicosomatiche specifiche, come la lunghezza del cranio. Altri teorici delle razze parlano di “archetipi spirituali” in numero di quattro: l’Uomo Sferico, gioviale e instabile; l’uomo Parabolico, flemmatico; l’uomo Piramidale, iperteso e teatrale; l’uomo Poligonale, mutevole e caotico. Scandagliando testi dell’Ottocento, Efron mette in luce come si attribuiscano caratteri gestuali alle varie razze, che presenterebbero comportamenti umani legati all’aspetto biologico. Mentre scende per strada a studiare i gesti di ebrei e italiani immigrati, va anche in biblioteca a consultare libri del passato che parlano dei movimenti espressivi di mani e braccia nei vari paesi ed epoche. Scopre politici inglesi che gesticolano ampiamente come gli italiani, e altri, come Disraeli, ebreo inglese, che mostra una assoluta sobrietà gestuale. Una delle più diffuse abitudini tra gli ebrei, sarebbe quella di toccare l’interlocutore mentre si parla. C’è la storiella del “maghid”, predicatore ebreo lituano, che a causa di un attacco reumatico non è in grado di parlare chiaro: “Il mio braccio oggi è molto rauco”. E la affianca al resoconto dei gesti degli inglesi nei caffè all’inizio del Settecento: nel discutere toccano e torcono i bottoni degli interlocutori fino a strapparli. Guarda le tavole di W. Hogarth, che mostrano la gesticolazione dei londinesi della sua epoca.

 

 

Le note del libro sono una miniera di osservazioni per una storia dei gesti in Occidente. Solo un cenno: l’invenzione della “sensibilità” nella cultura francese pre-rivoluzionaria che produce gestualità altamente nervose e accentuate in opposizione al costume precedente fondato sui gesti controllati dei cortigiani, come indicava Baldesar Castiglione. Efron frequenta ebrei d’origine polacca e lituana nell’East Side di Manhattan, e poi italiani provenienti da Napoli e dalla Sicilia a Little Italy, per strada, in casa, negli incontri sportivi, nei locali. Il raggio dei gesti degli ebrei dei ghetti è più limitato di quello degli italiani del Sud; questi, poi, fanno sfoggio di un grado piuttosto alto di sinergia nell’uso di braccio, avambraccio e mano, come se fosse un unico movimento concertato a partire dalla spalla. Gli ebrei tengono la mano in una posizione angolata rispetto all’avambraccio, mentre l’italiano la mantiene in linea retta con tutto il braccio; anche la velocità dei gesti è diversa: l’italiano fa movimenti più fluidi, l’ebreo va in crescendo o diminuendo, o viceversa. Mentre gli immigrati del Sud Italia toccano più il proprio corpo che quello dell’interlocutore, gli ebrei dei ghetti fanno il contrario.

 

Sono 271 pagine di descrizioni, disegni, schemi, analisi davvero interessanti che spaziano in molte direzioni, con considerazioni sul rapporto dei gesti degli oratori romani e quelli dei monaci anglosassoni che utilizzano il “linguaggio dei segni” per comunicare. La quinta parte del libro è dedicata ai gesti degli ebrei e degli italiani assimilati a New York. Efron mostra come passando da un ambiente culturale e sociale all’altro, i gesti si modificano. Va a osservare gli “assimilati” alla Columbia University e presso il City College. Verifica cosa si perde e cosa si acquisisce. Una conoscente gli manda il disegno di alcuni gesti di un uomo, racconta, e lo sfida a capire a quale cultura e origine appartiene. Grazie alla sua grammatica e sintassi dei gesti è in grado di vedere gli influssi di gruppi etnici e sociali diversi. Va a seguire le lezioni di Meyer Shapiro, eminente storico dell’arte che ancora leggiamo, ebreo semi-americanizzato che ha gesti poco espressivi – parla tenendo una mano in tasca – e segue la cadenza dei pensieri com’è caratteristico nell’ebreo tradizionale, ma a volte fa sfoggio di gesti molto ampi. Bellissime le pagine con i gesti degli italiani per esprimere riflessione, angoscia, fatica, sorpresa, costernazione, eccetera. L’assimilazione porta alla diminuzione dei gesti appresi nel proprio contesto culturale; molti si americanizzano, anche se non sempre i gesti d’origine scompaiono.

 

Si attenuano e somigliano a quelli degli altri americani. Conclusione: alla faccia dei teorici razzisti dell’Ottocento e degli antropologi nazisti il comportamento gestuale è altamente condizionato da fattori di natura socio-psicologica. Naturalmente Efron lascia aperto il problema su cosa abbia contribuito a modellare i gesti nelle varie culture, una ricerca che esula dal suo compito dice, e che reputa assai ardua. Nato nel 1904, il giovane antropologo d’origine argentina, dopo la tesi ha operato nella International Labor Organization per 22 anni, e lavorato con ONU, UNESCO e FAO. Ha promesso un altro studio dopo questo, ma non credo sia mai uscito. Andato in pensione è morto nel 1981 a Ginevra. Gesto, razza e cultura non è più ristampato dal 1974. Davanti al risorgente razzismo sarebbe bene ripubblicarlo.  

 

Leggi anche:

George Boas, Il culto della fanciullezza

Morris Mitchell Waldrop, Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos

Ferdinand Deligny, Una zattera sui monti

Paul Roazen, Fratello animale

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano "La Repubblica" che ringraziamo.

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Robert Eisler: Anatomia della licantropia

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L’eccedenza è sempre problematica, anche se è di cultura, intelligenza, capacità interpretative, tanto più per le istituzioni che su tali disposizioni dovrebbero fondarsi. È noto il commento di Erich Rothacker alla bocciatura di Walter Benjamin all’abilitazione alla libera docenza, “Geist kann man nicht habilitieren”, non si può concedere l’abilitazione allo Spirito. Robert Eisler, di cui vengo a presentare la nuova edizione di Man into wolf  (Uomo diventa lupo, Adelphi, 2019) è un’iperbole di tale travalicazione continua e sistematica di ogni steccato disciplinare accademico, nella sua vita e nella sua ricerca, è coerentemente pervicace nel negarsi alla collocazione rassicurante in un luogo definito, inscrivendosi nella categoria perturbante del troppo. A fronte di una statura intellettuale impressionante, della frequentazione delle menti più brillanti del suo tempo, di un’erudizione oggi impensabile, Eisler ha scontato fino alle estreme conseguenze la marginalità a cui è stato costretto dalle istituzioni intellettuali del tempo.

Prima di affrontare il personaggio, due parole sulle vicende editoriali del testo, bizzarre a loro volta. Pubblicato per la prima volta nel 1951, Man into wolfè una conferenza tenuta presso la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine di Londra nel 1948, ciò che rende assolutamente particolare il volume, è che è corredato di un apparato di note, 261 nell’edizione Adelphi (36 pagine la conferenza, 230 le note), che approfondiscono in modo specialistico ogni punto dell’argomentazione, lasciando trasparire un’erudizione e una vastità di dedizioni incredibile. Per sessant’anni il libro non è stato tradotto, fino all’apparizione di Uomo lupo, edito nel 2011 da Medusa con ottima traduzione, cura e introduzione di Martino Doni, e con una introduzione ulteriore di Enrico Giannetto. La recentissima edizione Adelphi, Uomo diventa lupo, con traduzione di Raul Montanari, perde le due introduzioni, ma propone un testo decisamente interessante, di cui Giannetto, nel suo intervento, lamentava la mancanza, ovvero uno studio bio-bibliografico organico su Robert Eisler realizzato da Brian Collins, Un pezzo troppo quadrato: La vita e l’opera di Robert Eisler.

Detesto il biografismo, la riduzione dell’opera alla vita dell’autore, non di meno, in questo caso è abbastanza essenziale approfondire le circostanze che hanno portato alla genesi del libro, seguendo alcune tracce, in primo luogo le più note, ovvero quelle lasciate dall’“amico” Gershom Scholem. Il ritratto che ne traccia in Da Berlino a Gerusalemme e in Walter Benjamin: Storia di un’amiciziaè a tratti macchiettistico, lo fa apparire uno “svitato”, sostiene Collins, non di meno ci aiuta ad approssimarci all’autore.

 

Nell’introdurne la figura, Scholem raccoglie puntualmente i giudizi ricorrenti su Eisler, brillante, spaventosamente erudito, carente in rigore ed eccedente in fantasia, e così riepiloga quella che definisce “una delle relazioni più assurde della mia vita”, iniziata per mediazione di Martin Buber e legata alla comune dedizione alla qabbalah, quantunque con intenti divergenti. “Eisler era figlio di un milionario ebreo di Vienna e, come diceva lui stesso, venne educato a disprezzare l’ebraismo, tanto che fu spinto a convertirsi all’età di circa vent’anni. Era una personalità poliedrica di un certo talento, brillante, sveglio e molto ambizioso. I suoi interessi scientifici comprendevano molteplici discipline, ed era dotato di notevoli capacità espressive e descrittive. Nel 1909, quando ancora non aveva trent’anni, aveva pubblicato un’opera in due volumi dal titolo attraente Weltenmantel und Himmelszelt (Mantello dei mondi e tenda del cielo), un libro audace nelle sue congetture azzardate e stracolmo di un’incredibile erudizione, che accreditò il suo autore come uno storico delle religioni assai originale. La sua fertile fantasia gli era però d’ostacolo, e impediva la formulazione di un ragionamento solido”, ne rimarca la marginalità e l’esclusione da ogni posizione accademica, per la vastità degli interessi, per l’eccesso di originalità delle posizioni, per la metodologia di ricerca eterodossa, e non ultimo per la difficoltà creata dall’apostasia, che lo rendeva sospetto ai cristiani e tanto più agli ebrei. Tutto il racconto di Scholem del rapporto con Eisler si gioca sulla sconcertante contrapposizione tra risorse intellettuali ed espressive straordinarie e la bizzarria di fondo del personaggio, che ne ha compromesso ogni possibilità di affermazione. “L’eloquenza di Eisler non era meno affascinante della sua cultura.

 

Entrambe erano impressionanti ma non del tutto serie. Io, in ogni caso, non avevo mai visto un fenomeno simile: uno studioso di genialità accattivante e allo stesso tempo arguta in modo sospetto”. Scholem si sofferma sull’“arte combinatoria” attraverso cui raccorda i più arcani frammenti del simbolico, con dedizione specialistica a saperi tanto diversi quali “le iscrizioni protosemitiche del Sinai, i misteri greci, l’origine degli zingari, [la storia del denaro] o l’origine del cristianesimo, che lo impegnò per molti anni. Tutti questi argomenti avevano un elemento in comune: erano pieni di problemi irrisolti, che lasciavano ampio spazio al genio combinatorio. A sentirlo parlare in pubblico si restava travolti dal suo talento di oratore. A leggerne gli scritti si restava interdetti davanti alla ricchezza delle citazioni, basate sulle fonti più incredibili e astruse”. Racconta poi dei rapporti di Eisler con il circolo di Aby Warburg, con Buber, di quelli, disastrosi per la continua revisione-integrazione dei testi, con gli editori, e infine dell’epilogo infelice dei loro rapporti, quando dopo la guerra Eisler, espatriato a Londra dopo un internamento di più di un anno tra Dachau e Buchenwald, gli propone un testo di duecento pagine con la sua soluzione, decisamente originale, alla questione sionista. La risposta di Scholem fu sintetica e definitiva, “Genug”, basta.

 

 

Ancora due parole sull’autore, per andare oltre la rappresentazione, evidentemente non esattamente agiografica, offerta da Scholem. Viene qui in aiuto la biografia di Brian Collins che chiude il volume Adelphi, esito di un’accurata ricerca d’archivio. La formazione di Eisler è sulle orme della figura egemone della filosofia austriaca della seconda metà dell’Ottocento, Franz Brentano, e dei suoi geniali allevi Alexius Meinong e Christian von Ehrenfels, in seguito consegue due dottorati, di cui uno in economia, e la teoria della moneta resterà una delle sue dedizioni costanti durante tutta la vita, e uno in teoria dell’arte, sotto la direzione di Alois Riegl e Franz Wickhoff.

Un evento segnò la vita del giovane studioso, e rimase come marchio a discredito futuro, quando a Udine, nel 1907, fu protagonista del furto di un codice miniato. Venne riconosciuto colpevole, ma a testimoniare in sua difesa e sul suo genio, instabilità di carattere e fervida immaginazione, si offrirono Benedetto Croce e Hugo von Hofmannsthal. In carcere tentò due volte, pare senza particolare determinazione, il suicidio.

Nel 1910 comincia la sua carriera di saggista eclettico con il testo in due volumi di cui parlava Scholem, Weltmantel und Himmelzelt, (Manto del mondo e Padiglione celeste: Ricerche storico-religiose sull’antica visione del mondo), “una smisurata storia della cosmologia religiosa”, a seguire pubblica in inglese Orpheus the Fisher: Comparative Studies in Orphic and Early Christian Symbolism (Orfeo il pescatore: Studi comparativi sul simbolismo orfico e paleocristiano).

 

Tenne conferenze alla Scuola di Amburgo di Warburg, Cassirer, Panofsky e Saxl, intrattenendo col gruppo, ancora una volta, rapporti ambivalenti. All’inizio degli anni Trenta pubblicò uno dei suoi testi più controversi, Iesous basileus ou basileusas (Gesù, il re che non regnò: Il movimento di indipendenza messianico dall’apparizione di Giovanni il Battista alla caduta di Giacobbe il Giusto alla luce della “Conquista di Gerusalemme” di Flavio Giuseppe, recentemente scoperta, e delle fonti cristiane), apparso in inglese col titolo The Messiah Jesus and John the Baptist According to Flavius Josephus' Recently Rediscovered 'Capture of Jerusalem' and the Other Jewish and Christian Sources, tra le altre tesi teologicamente perturbanti, interpreta così l’immagine di Cristo, attraverso la lettura di Giuseppe: “aspetto semplice, età matura, pelle scura, bassa statura, alto tre cubiti, gobbo, con una faccia lunga, il naso lungo, sopracciglia unite sopra il naso, tale da mettere paura a chi lo vedeva, con pochi capelli ma con una linea in mezzo alla testa secondo il costume dei nazirei, e con una barba poco sviluppata”. Non esattamente corrispondente alla sua rappresentazione nella storia dell’iconografia cristiana, cosa che gli valse pertanto attacchi furibondi.

La grande depressione conseguente al crollo delle borse del 1929 lo spinse a promuovere una teoria della moneta, scrivendo vari volumi a tema. I suoi studi teologici procedono quindi con la dedizione al Quarto Vangelo, e nel 1935 venne invitato a parlarne alla conferenza di Eranos, dove conobbe Carl Gustav Jung e Károly Kerényi.

 

Nel 1938 venne internato nel campo di concentramento di Dachau, quindi inviato a Buchenwald. Dopo tredici mesi di prigionia riuscì a uscirne e a trasferirsi a Londra, dove rimase fino alla morte nel 1949.

Questa breve ricognizione biografica, utile a illustrare lo straordinario percorso di ricerca dell’autore, nel suo epilogo tocca due punti centrali all’elaborazione della conferenza a monte di Man into Wolf, Jung e la teoria degli archetipi e la violenza umana, vissuta in prima persona subendo la barbarie nazista.

La scelta di muovere il discorso dai temi del sadismo e del masochismo può essere legata al luogo in cui si è tenuta la prolusione, come detto, la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine, e serve come causa occasionale per introdurre il discorso antropologico sulla violenza. Il masochismo, termine coniato da Richard von Krafft-Ebing, anziché “perversione”, è una forma particolarmente accentuata, per cui Eisler vanta il conio del termine “algobulia”, della naturale tendenza a mantenere attiva la sensibilità al dolore, di cui è evidente la funzione nella regolazione della condotta. A differenziare l’algobulia dall’“algolagnia”, è che la seconda, corrispondente propriamente al masochismo, è la ricerca del dolore come forma di soddisfazione sessuale. Ciò che non torna, in questa teoria generale, è come possa darsi nella forma opposta, il sadismo, la compossibilità della violenza e dell’amore, che in sé è ricerca del bene. Né torna, rispetto al masochismo, l’oggetto del desiderio, esemplificato compiutamente, per Leopold von Sacher-Masoch, dalla Venere in pelliccia. I tentativi di spiegare il sadismo in termini di “regressione”, in particolare dall’antropologia criminale di Lombroso, si negano al confronto con quanto possiamo sapere del “selvaggio” originario, che possiamo supporre, in omologia con i primati maggiori, frugivoro e non violento, il bon sauvage di Rousseau e delle tradizioni che rimandano a un’Età dell’oro. Secondo Eisler, “deve essersi verificato, in un certo stadio dell’evoluzione un cambiamento radicale nella sua dieta e nel suo modus vivendi, una mutazione […] quale quella ricordata nei miti, così diffusi fra tutte le popolazioni, che parlano di una “Caduta” o di un “peccato originale” dalle conseguenze disastrose e permanenti” (p. 31). L’innocuo abitatore delle selve, che gli fornivano in abbondanza frutta e vegetali commestibili, era comunitario e sessualmente non esclusivo. “Il carattere atavico o, per usare una terminologia junghiana “archetipico” di queste idee è particolarmente manifesto là dove il principio del libero amore è connesso all’etica di un severo vegetarianismo “paradisiaco” e all’assoluta proibizione di uccidere esseri viventi” (p. 35, il tema del vegetarianismo originario, nella sua dimensione etica, è approfondito da Enrico Giannetto nella sua introduzione a Uomo lupo).

 

 

Ciò che si tratta di considerare con la massima attenzione è il passaggio alla dieta carnivora/onnivora dell’uomo storico, e la soluzione proposta da Eisler è che sotto la pressione dell’ambiente, non più favorevole, e per imitazione, caratteristica fondamentale determinante della specie umana, degli animali da preda, il selvaggio imparò a cacciare e divorare le altre specie animali. La matrice imitativa si ritrova nella pratica ricorrente in molte culture di coprirsi di pelli in riti sacrificali cruenti. L’esempio cardine di Eisler è la confraternita mistica berbero-marocchina legata al sufismo degli Isawiyya (Aissawa), dedita a cerimonie in cui gli adepti vestono pelli di animali e giungono a sventrare e mangiare crude, in un’orgia sanguinaria, le bestie immolate.

Il lupo, animale simbolicamente surdeterminato, bestia da muta feroce per eccellenza, viene eletto a modello della trasformazione dell’uomo da pacifico primate frugivoro a cacciatore prevaricatore e violento, il termine che segna questo passaggio viene mutuato dalla psicopatologia, ed è licantropia, trasformazione dell’uomo in lupo, benché altre specie si siano prestate di volta in volta al ruolo, come per il berserker, l’uomo orso nordico.

Questa l’argomentazione della conferenza di Eisler, che nel seguito articola il pensiero in relazione a moltissime tracce culturali, dando sfogo alla sua strabiliante erudizione, che ulteriormente, come detto, saturerà di proliferazioni colte a margine l’imponente apparato di note.

In conclusione, Eisler si domanda se la violenza introiettata per imitazione dalla specie umana giungerà alle sue estreme conseguenze, come lascerebbe supporre la crudeltà istituzionale nazista, sperimentata in prima persona, oppure se si dia la possibilità eventuale di una regressione, di un ritorno allo stato edenico precedente al divenire lupo, e vede nella sua congettura una speranza, se c’è stata caduta, esiste la possibilità di “domare la belva ‘archetipica’ che è in noi e riportare l’umanità alla sua condizione primordiale di ahimsa o ‘in-nocenza’, realizzando la pace in terra fra gli uomini di buona volontà” (p. 57).

Conclusa la lettura, frastornati dall’impressionante mole dell’apparato di note esplicative e dalla loro ricchezza, si prova un confronto con l’argomentazione. 

 

Sarebbe da augurarsi che l’uomo avesse preso a modello da imitare il lupo, animale nella cui organizzazione sociale gli elementi differenziano la propria disposizione e le proprie capacità per massimizzare l’efficacia del gruppo. Non a caso Deleuze e Guattari scelgono quel modello, la muta di lupi, per contrapporlo in modo positivo al branco, la massa di individui indifferenziati, sempre più evidentemente modello presente dell’umanità. Poi il lupo non uccide per divertimento, e solo eccezionalmente i propri simili. L’uomo si è spinto oltre l’imitazione, la sua violenza non trova limiti razionali, e la sua potenza è giunta ormai da decenni a rendere la sterilizzazione nucleare del mondo una possibilità concreta. Eisler esclude poi a priori l’eventualità dell’ipotesi regressiva lombrosiana, barrata logicamente anche in senso virtuoso, per cui la sua aspirazione al ritorno all’aimsha trova la strada preclusa. Tocca rimanere lupi, e forse volersi più lupi, nel senso della dedizione al comune secondo le proprie capacità, nello spirito della muta. E confidare forse nell’ambivalenza dell’archetipo, nella speranza di divenire Loopy De Loop (da vero erudito, Eisler non disdegna del resto riferimenti pop, da Tarzan a John Barleycorn).

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Edward T. Hall Il linguaggio silenzioso

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C’è un intero continente di saggi scomparsi che gli editori italiani non ristampano più. Eppure in mezzo a loro ci sono delle vere perle, libri che possono aiutarci a capire il mondo intorno a noi, anche se sono stati pubblicati quaranta o cinquanta anni fa; con questa serie di articoli proviamo a rileggere questi libri, a raccontarli e indicare l’aspetto paradigmatico che contengono per il nostro presente.

 

Chissà perché in tempi di conflitto interculturale e di multiculturalismo non si ristampa il libro di Edward T. Hall Il linguaggio silenzioso? Pubblicato alla fine degli anni Cinquanta, è stato tradotto in italiano per la prima volta nel 1969 da Gianni Celati per Bompiani e, dopo qualche ristampa nell’economica Garzanti, è scomparso. Eppure, per quanto siano passati sessant’anni, l’opera dell’antropologo americano ha ancora molte cose da dire per aiutarci a capire l’altro, e anche noi stessi, cosa ben più difficile. Hall era nato nel 1914 ed è morto dieci anni fa; dopo gli studi universitari, si era trasferito negli anni Trenta del XX presso le popolazioni indiane Navajo e Hopi. Durante il secondo conflitto mondiale l’esercito lo aveva mandato a occuparsi di giapponesi e a conoscere culture diverse dalla propria, come la filippina. Meno di dieci anni dopo pubblica un libro per cui è conosciuto La dimensione nascosta, con cui ha dato un contributo fondamentale alla prossemica, all’influenza che le distanze esercitano nelle varie culture umane. Hall è un pragmatico, intelligente e sottile. In Il linguaggio silenzioso ha il pregio di essere semplice, e al tempo stesso denso. Si occupa di quello che la gente fa, che, come ricorda nella seconda pagina del libro, “è più importante di quel che dice”. Per fare questo ha è creato un sistema interpretativo. Parte dall’analisi delle differenti concezioni del tempo e dello spazio, che hanno le varie culture. Noi occidentali, ad esempio, tendiamo a considerare il tempo come qualcosa di stabile in natura, qualcosa che è intorno a noi e cui non si può sfuggire. Non è così. Attraverso una serie di esempi, alcuni dei quali tratti dall’esperienza con i nativi americani, Hall mostra come il tempo sia elastico, dilatabile e restringibile, e come abbia consistenze diverse secondo i popoli.

 

 

Per i Pueblos del Rio Grande gli eventi cominciano sempre quando il tempo è maturo. E quando matura il tempo? Difficile da dire. Altri, come i Navajo, il tempo è come lo spazio: “solo qui ed ora è davvero reale”. Il futuro non esiste. Hall scrive cose che non siamo abituati a considerare presi come siamo dalla apparente complicazione delle nostre vite. Ad esempio, la maggior parte delle nostre difficoltà sorge proprio dalla nostra ignoranza; si fa fatica a comprendere come la cultura controlli in modo profondo e persistente i comportamenti, sovente di là della nostra stessa consapevolezza e della sfera d’influenza dei singoli individui. Ci sono tre aspetti che agiscono nelle diverse culture che per Hall sono fondamentali: il formale, l’informale e il tecnico. Quasi nessuno è consapevole i quanto siano informali molti dei nostri comportamenti. Basta però passare in un’altra cultura – ad esempio quella giapponese – e subito ci si accorge come sia difficile distinguere tra aspetti formali e informali presenti. Quelli tecnici, poi, nella nostra società sono legati all’autorità e alla legge. Per farsi capire Hall racconta una storia.

 

In una cittadina americana del West a popolazione in prevalenza spagnola c’è un limite di velocità di quindici miglia (24 km) esteso a due strade nazionali. Un poliziotto di origine spagnola, Sancho, fa multe a tutti quelli che lo superano anche di poco. Arresta chi passa a 16 miglia all’ora; la multa è piuttosto rilevante. Gli americanos della zona fermati per così poco, davanti al giudice finiscono spesso condannati: la giuria è composta di persone d’origine spagnola; al contrario, i residenti spagnoli ottengono la comprensione di giudici e giurati. Gli americanos mostrano un aspetto di tolleranza informale – è solo un miglio in più pensano – e divengono invece molto formali e rigidi davanti alle giurie; duri e tecnici, scrive Hall, perché questo è il loro modo di vedere le cose della Legge, e pertanto finiscono condannati. Gli spagnoli s’appellano invece in modo informale alla comprensione di persone simili a loro, ricorrendo anche ai legami famigliari con chi li giudica: sono assolti. Il libro è pieno di storie ed esempi che aiutano a capire come funzionano le culture. Spesso, poi, il compito più difficile non è capire la cultura straniera, bensì, ripete Hall, la propria; a questo serve Il linguaggio silenzioso. Ma cos’è la cultura? Hall risponde: comunicazione. Per spiegarlo aggiunge che la cultura non è esperienza. L’esperienza “è qualcosa che l’uomo proietta sul mondo esterno quando se ne impadronisce nella sua forma culturalmente determinata”.

 

La cultura è quella serie di schemi, per lo più inconsapevoli, che orientano i nostri sensi e i pensieri. A chi obietta che ci sono esperienze comuni a tutti, come la vita e la morte, Hall risponde che queste presunte esperienze obiettive che dovrebbero essere le stesse in ogni cultura, in realtà non lo sono. Si fonda sui geniali studi di Benjamin Whorf che aveva nei primi decenni del XX secolo analizzato come il linguaggio che parliamo influenzi le esperienze e i comportamenti. Poiché viviamo in un mondo multiculturale il libro di Hall è di grande ausilio per capire come pensano gli altri popoli. Nell’Europa delle diverse lingue e culture l’opera di Hall resta fondamentale per decifrare quelli che l’antropologo chiama i “Sistemi di Messaggio Primari”, a partire dall’idea stessa di spazio o quella di tempo, per arrivare agli aspetti formali informali presenti nelle diverse società. Verso la fine del suo studio, che si legge come un romanzo, Hall cita una frase del critico letterario Lionel Trilling, anche lui un americano oggi purtroppo dimenticato: “la cultura è una prigione”. Com’è vero! Ci si accorge di questo solo quando si entra in un’altra cultura, diversa dalla nostra. Subito si prova un senso di vera liberazione, per poi rendersi conto che le culture umane mentre legano gli esseri umani tra loro, nel contempo mettono in atto delle limitazioni terribili. Non è forse un caso che questa lezione sia stata ben presente nell’opera narrativa del bravo traduttore di questo volume, Gianni Celati. Come scrive Celati nel suo libro più noto, Narratori delle pianure, la vita è “una trama di rapporti cerimoniali per tenere insieme qualcosa d’inconsistente”. Hall ci parla di questi cerimoniali, e li spiega molto bene. 

 

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Questo articolo è apparso sul quotidiano "La Repubblica" che ringraziamo.

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Gustav René Hocke, Il mondo come labirinto

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C’è un intero continente di saggi scomparsi che gli editori italiani non ristampano più. Eppure in mezzo a loro ci sono delle vere perle, libri che possono aiutarci a capire il mondo intorno a noi, anche se sono stati pubblicati quaranta o cinquanta anni fa; con questa serie di articoli proviamo a rileggere questi libri, a raccontarli e indicare l’aspetto paradigmatico che contengono per il nostro presente.

 

Quando è cominciata a diffondersi l’immagine del labirinto come metafora della condizione moderna? Nel corso dell’età barocca o prima? E perché a partire dalla metà degli anni Sessanta del XX secolo il labirinto è diventato una delle metafore del vincolo postmoderno? Gustav René Hocke, singolare scrittore e studioso di origine tedesca, pubblicava nel 1959 un libro intitolato Il mondo come labirinto; il sottotitolo recita: Maniera e mania nell’arte europea dal 1520 al 1650 e oggi. Tradotto in italiano solo nel 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino, dall’editore Theoria, passò quasi inosservato, cosa che non era capitata a un altro libro, stampato in originale nel 1959, tradotto da il Saggiatore nel 1965, Il manierismo nella letteratura, poi ristampato da Garzanti. Hocke è scomparso nel 1985 a Genzano nei pressi di Roma, dove ha vissuto gran parte della sua vita e dove ha scritto le sue multiformi opere. Nato a Bruxelles, aveva studiato negli anni Trenta a Bonn con Ernst Robert Curtius, grandissimo studioso della letteratura europea; poi si era trasferito in Italia durante il nazismo e vi aveva svolto il mestiere di corrispondente per giornali e riviste tedesche. Alla fine della guerra era stato internato in un campo di prigionia americano; liberato s’era dedicato ai suoi studi solitari. Cosa racconta Il mondo come labirinto? Che a metà del Cinquecento nasce una tendenza artistica, che segna di sé tutta l’arte europea per cinque secoli: il manierismo. Manierismo dal latino manus, prodotto della mano, e in senso traslato, scrive Hocke, dell’uomo che per mezzo dell’arte esprime la propria “calligrafia personale, per così dire”. Lo studioso tedesco si occupa di Parmigianino, Pontormo, Rosso Fiorentino, Nicolò dell’Abate, ma anche di Dalì, Magritte, Max Ernst, Fabrizio Clerici, Alberto Martini e di molti altri autori del passato e del suo presente. La categoria “manierismo” non è quindi intesa solo in termini storico-artistici, ma diventa una categoria omnicomprensiva che nelle quasi 400 pagine del saggio Hocke estende ben oltre le sue date canoniche sino a farla diventare una categoria dello spirito improntata al fantastico, al grottesco, all’arabesco, all’artificio.

 

Uno dei primi oggetti “manieristi” che appare nel suo libro è Castel Sant’Angelo, vero e proprio “oggetto magico”, surrealista ante litteram, seguito poi dal “bosco sacro” di Bomarzo, percorso abitato da mostri. Il labirinto è una delle molte manifestazioni di questo spirito che preferisce le vie traverse a quelle dirette: “Solo la via traversa conduce alla perfezione”. Si passa da Rodolfo II, personaggio mitico, a Kafka, dal libro di Comenio sul labirinto dell’anima all’occhio presente nelle opere di Man Ray. Il manierismo è poi una condizione psichica, la mania, esplorata dallo psichiatra e fenomenologo Ludwig Binswanger nei suoi casi clinici. Catalogo affascinante di eccentricità, bizzarrie, mostruosità e opere perturbanti, Il mondo come labirinto non è solo un’opera colta e inclassificabile, ma riesce a scandagliare un tema che merita ancora la nostra attenzione. Hocke ha attraversato il nazismo, pur sfuggendolo attraverso l’esilio italiano, e ha riflettuto su quello che era accaduto tra il 1933 e il 1945: dodici anni della fine del Mondo. Il suo fantasioso e originale catalogo di opere appartiene di diritto a quella che i nazisti avevano classificato come “arte degenerata”, e pur costeggiando temi che possiamo attribuire all’aspetto irrazionale, lo studioso tedesco cerca di recuperare il periodo che va dal Simbolismo alle avanguardie storiche, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Tutte le dittature del XX secolo, dal fascismo al nazionalsocialismo, per arrivare al bolscevismo, hanno cercato la propria dignità rappresentativa “in classicismi terribilmente scontati”. Hocke è convinto che la classicità sia stata nel XX secolo il simbolo stesso della grandezza e del potere, mentre il manierismo “un luogo comune per indicare impotenza, persino nichilismo antifatalistico e infernale”.

 

 

L’estetica idealistica del XIX secolo ha equiparato Classicismo a ordine, dignità e potere; il Manierismo è stato invece classificato come disordine, mancanza di dignità, decadenza. Il libro appare in Europa alla vigilia dell’esplosione della Pop art, che non è inclusa in questa mastodontica rassegna, come l’espressionismo astratto americano. Frutto del periodo bellico, questo volume pone delle questioni che ci riguardano circa l’attualità culturale e artistica in cui viviamo. Ci sono molti tratti in comune tra elementi del manierismo spirituale e astorico raccontato da Hocke e il postmodernismo esploso in USA e in Europa negli anni Ottanta del XX secolo. Sono legami di carattere psichico, oltre che formale, e che suggeriscono una domanda: come definire l’arte attuale? Non solo quella degli ultimi decenni, ma anche l’arte che si sta facendo nel periodo della presidenza Trump, del dominio di Putin, dell’esplosione del gigante Cina e dell’ascesa dei populismi europei. Hocke, che pure è un uomo del XX secolo, si pone domande sull’assenza di speranza che sembra a suo avviso connotare il secondo periodo postbellico: grave peccato del nostro tempo, scrive. Non sarà che la metafora del labirinto è quella più adatta a descrivere non solo l’arte, ma anche la condizione attuale. E la Rete, che si è affermata come “forma” del contemporaneo, non è forse nient’altro che una declinazione del labirinto stesso? Il labirinto ha una lunga storia, da quello cretese abitato dal Minotauro al labirinto di rami dipinto da Leonardo nel Castello Sforzesco di Milano, dal labirinto descritto da Kafka nei suoi romanzi al labirinto visitato da Borges nelle sue poesie e racconti. Non viviamo forse immersi in un groviglio indistricabile di connessioni e nodi, di strade sbarrate e a senso unico? Nel suo modo fantasioso e insieme terribilmente serio l’introvabile libro di Hocke ci introduce in un mondo complesso e misterioso che può aiutarci a capire l’epoca in cui viviamo. Siamo o no ancora manieristi?

 

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Edward T. Hall, Il linguaggio silenzioso

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano "La Repubblica" che ringraziamo.

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Il testimone, il chimico, lo scrittore, il narratore fantastico, l'etologo, l'antropologo, l'alpinista, il linguista, l'enigmista, e altro ancora. Primo Levi è un autore poliedrico la cui conoscenza è una scoperta continua. Nel centenario della sua nascita (31 luglio 1919) abbiamo pensato di costruire un Dizionario Levi con l'apporto dei nostri collaboratori per approfondire in una serie di brevi voci molti degli aspetti di questo fondamentale autore la cui opera è ancora da scoprire.

 

Leggiamo dal racconto Ranocchi sulla luna: “Lungo la sponda sinistra brulicavano i girini, a centinaia. Perché solo a sinistra? Dopo molto ragionare osservammo che lì correva un sentiero frequentato alla domenica dai cacciatori; le trote se ne erano accorte, e stavano alla larga, lungo la sponda destra. A loro volta i girini si erano stabiliti sulla sinistra per stare alla larga dalle trote”. Se Primo Levi, come sappiamo grazie alle indicazioni di Marco Belpoliti e Mario Barenghi, nel suo essere chimico e scrittore era anche antropologo ed etologo, ecco un bell’esempio di come tutti questi sguardi, e questi discorsi, si incrociano in un’unica enunciazione narrativa: cacciatori, trote e girini fanno parte di un’unica forma sociale.

Ma come si coniugano antropologia e etologia in Levi? Generalmente si pensa che l’etologia sia una scienza della natura e l’antropologia della cultura. Ma Levi non ha mai condiviso una distinzione così radicale. Dal suo punto di vista occorre inventare un’etologia degli uomini (cos’altro sono le pagine sul lager?) e un’antropologia degli animali (i racconti, le poesie, gli scritti ‘naturali’). Come dire che, a rileggerlo con attenzione, Levi ha anticipato i tempi: per lui vige una specie di grande catena dell’essere, una gradualità infinita fra entità viventi che si esplicita – per esempio – nelle celebri pagine sulla zona grigia, dove si parla delle sfumature intermedie fra carnefice e vittima, ma anche delle forme di somiglianza fra le due figure – per le quali va sospeso il giudizio. 

 

Prendiamo la grande distinzione fra animale e bestia. Da una parte l’animale come soggetto, specie o individuo dotato di caratteristiche proprie, che Levi discute spesso e approfonditamente; dunque il singolo animale, il ragno, il coleottero, l’ape, la formica, il verme tenia, ma anche quelli inventati come il centauro e tutta la zoologia fantastica di Borges. Dall’altra la bestialità come oscurità non umana, violenza, crudeltà, istinto cieco, lotta di tutti contro tutti; o anche per alcuni versi stupidità, amoralità, mancanza di raziocinio. Da questo secondo punto di vista, Levi ripete ossessivamente che gli animali si mangiano fra di loro, si uccidono con somma crudeltà. Per esempio le femmine di molti insetti uccidono il maschio dopo aver fatto l’amore ed esser state fecondate: “è noto come molti ragni divorino il maschio, immediatamente dopo o addirittura durante l’atto sessuale; così del resto fanno le mantidi o le api […], l’uxoricidio fra i ragni è pressoché normale”; sempre in Ranocchi sulla luna i girini si divorano fra loro, o il gatto uccide l’uccello per giocarci. Tutte forme di comportamento che Levi descrive accuratamente, insistendo sul fatto che l’animale non è mai un pet, e che l’idea di uno stato di natura positivo, da buon selvaggio, è quanto meno approssimativa.

 

Da cui, in Contro il dolore una presa di posizione molto rigida – questa totalmente inattuale – contro la difesa degli animali perché supposte “creature di dio”: “come ignorare i pazienti e crudeli agguati dei ragni, la raffinata chirurgia con cui (altro che vivisezione!) certe vespe paralizzano i bruchi, vi depositano dentro un singolo uovo, e vanno altrove a morire, lasciando che la larva divori a poco a poco l’ospite ancora vivo? […] che dire dei felini, splendide macchine per uccidere? E dell’astuzia perfida del cuculo, assassino dei suoi fratellastri appena schiuso nell’uovo?”

Più che di bestialità, occorre allora parlare di animalità, o meglio di specifici animali (cani, cavalli, corvi, delfini, rane, grilli, tenia, api, ragni, formiche), come pure di precisi tipi umani, divisi per grandi categorie sociali o caratteriali (le vittime, i carnefici, gli invidiosi…), se non considerati nella loro individualità (il generale x, il tenente y, il kapò z, l’operaio di Livorno, il professore della Sorbona…). In questo senso, le relazioni fra uomini e animali si pongono in due diversi modi. 

Il primo è in senso traduttivo, illustrando il modo in cui un certo preciso animale può essere rivisto o ripensato sotto forma di un preciso uomo. È la nascita dell’ibrido (si pensi al centauro che ama la donna che amoreggia col narratore, impazzendo), e dunque dell’ambiguo, o meglio dell’ambivalente: il girino che è una chimera perché è solo testa e coda. 

 

Il secondo modo è in senso trasformativo, e cioè narrando come un preciso animale assuma caratteristiche umane, o viceversa. Uno dei termini e dei temi che mi sembra ricorra più spesso nei testi di Levi sugli animali è muta, il momento cioè in cui, entro una precisa specie, c’è la nascita di un individuo nuovo a partire da un individuo vecchio, con altre caratteristiche sia esteriori che interiori; c’è la muta dei girini in ranocchi, della pulce e della farfalla “che non sta più nella pelle”; c’è “la grande mutazione” dove agli umani crescono le ali. In Angelica farfalla c’è l’idea che la muta non porti sempre al meglio, da cui il neotenia, che si riproduce quando è ancora allo stato di larva; ma “questa condizione non [è] così eccezionale: […] altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiamo qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto si trovino allo stato di abbozzi, di bruttecopie, e possano diventare ‘altri’, e non lo diventino solo perché la morte interviene prima”.

 

 

Ma come avviene tecnicamente questa serie di passaggi metamorfici? La risposta di Levi è molto precisa, e abbastanza frequente per poter essere considerata come pertinente per il suo lavoro, e pensiero, in generale: avviene per passaggi retorici, per figure retoriche, per elocutio poetica. Nel testo sui Romanzi dettati dai grilli la questione è del tutto esplicita. Per Levi l’etologia moderna insegna che non è più bene, come si è fatto a lungo, “attribuire agli animali meccanismi mentali umani” o “descrivere l’uomo in termini zoologici”. La cosa migliore è invece “entrare in comunicazione” con gli animali, “non in vista di un traguardo scientifico”, ma “per simpatia”; e anche in testi pieni di errori e menzogne sugli animali (come quello di Plinio) ci sono sempre cose interessanti da riprendere. Così, se “negli animali si trovano tutti gli estremi” (enormi o minuscoli, audaci e fuggitivi, astuti e sciocchi etc.), “lo scrittore non ha che da scegliere, non ha da curarsi delle verità degli scienziati, gli basta attingere a piene mani in questo universo di metafore”. “Proprio uscendo dall’isola umana, troverà ogni qualità moltiplicata per cento, una selva di iperboli prefabbricate”. E se molte di queste figure retoriche sono ormai usurate (la forza del leone, la furbizia della volpe), i resoconti dei naturalisti sono una miniera d’oro di casi da trasformare, retoricamente, in storie. Che è quello che, come sappiamo, Levi ha sempre fatto.

 

Così i rituali di corteggiamenti dei grilli (dove “corteggiamento” è già una metafora), con complicatissimi richiami vocali, sembra dipendano anche dall’ambiente: “se si riscalda la femmina (o il maschio) anche solo di due gradi, il suo canto sale di un semitono, e il partner non risponde più: non ravvisa più in lui (o in lei) un possibile compagno sessuale”. Ed ecco la conclusione di Levi: “non c’è il germe di un romanzo?”. Per non parlare dei ragni in delirio, chissà in quale esperimento scientifico, per aver assunto LSD: cambiano il modo di tessere la loro tela, la fanno “non più geometricamente perfetta ma mostruosa, storta, deformata, come le visioni dei drogati umani”. Anche le cellule della tenia formano un mosaico che dal metaforico deve divenire poetico, ed assumere perciò un significato. Ancora: quando i ragni oppongono resistenza alle femmine che vorrebbero ucciderli dopo l‘accoppiamento, “si entra in un mondo che trova il suo analogo umano solo nelle grandi criminali o psicopatiche della nostra società”. 

La ricerca di parallelismi fra comportamenti di specifici animali e di specifici tipi sociali è costante (“esiste un parallelo comportamento umano?”), dove quel che importa è proprio il parallelismo, uno dei procedimenti poetici più noti che ci siano. Leggiamo: “c’è un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri”; “anche sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di un’insospettata ricchezza; ‘nero come…’, ‘amaro come…’; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, infiammabile: sono tutte proprietà che il chimico conosce bene…”. Nelle osservazioni di Levi sulla lingua la questione retorica ovviamente ritorna: le innovazioni di pensiero passano per “i procedimenti linguistici più spregiudicati: analogie, metafore, onomatopee”, ma anche giochi del significante e del significato come parole-baule, etimologie popolari e simili.

 

Gli animali sono fonti di ispirazione, griglie d’azione o diagrammi emotivi a partire da cui poter inventare, non l’animale in sé, alla Borges, ma l’uomo-animale: “mi piacerebbe inventare e descrivere un personaggio-coccinella, riconoscibile forse in certe pagine di Gogol': ipocondriaco, malcontento di sé, del suo prossimo e del mondo, increscioso e lamentoso, che inalbera una livrea riconoscibile da lontano (o un intercalare, o un difetto di pronuncia) affinché il suo prossimo, che egli detesta, si accorga in tempo della sua presenza e non gli venga fra i piedi”. 

Se nei testi, diciamo così, teorici predominano i paragoni – si pensi alla ricorrenza del termine come– in quelli narrativi regnano le metafore, di modo che il secondo termine di paragone resta implicito. Fra le metafore: la “versamina” nel racconto omonimo, è una sostanza che trasforma il dolore in piacere, al punto da creare un vero e proprio, implicito, lager degli animali (c’è un cane che diventa un contro-cane), dove anche il suo inventore resterà recluso; ma si pensi anche allo scoiattolo in gabbia, prigioniero in un laboratorio. Tra i paragoni: i ranocchi “gente come noi”, al punto da esser “nuotatori umani”; l’istinto dei girini a lasciare lo stagno “simile allo spirito che ci ha portato sulla luna”; il volo della coccinella simile a quando facciamo il check in e aspettiamo di volare; il canto degli uccelli che sembra la sirena dell’allarme di una macchina. Anche nei testi teorici ci sono metafore: si pensi ai monatti di Manzoni che ricordano le squadre speciali del lager: fanno il lavoro sporco, assumendo perciò una autorità sociale. 

 

Alla luce di tutto ciò sembra proprio che, per usare la terminologia dell’antropologo Philippe Descola, in Levi domini una concezione del mondo di tipo analogista: discontinuità sia interiori che fisiche, da cui forme locali di analogia. Dove tutto è diverso da tutto, in termini superficiali, ma dove, alla fine, grazie a comparazioni strategiche, si scoprono analogie che rimettono in ordine l’universo come, lo abbiamo già detto, una grande catena dell’essere. Si pensi al testo sul linguaggio degli odori, dove c’è una gradualità fra sensazioni del cane e quella degli uomini. In Levi non c’è alcun naturalismo, nessuno scientismo o volontà di far prevalere il domino della natura su quello dell’uomo, in modo da ridurre il secondo al primo. E non c’è alcun animismo, altra forma ontologica che è tipica del nostro mondo mediatico, dove i non-umani vengono regolarmente, al modo degli Achuar amazzonici, dotati di anima, spiritualità, perfino morale: è l’esoterismo per tutti della nostra contemporaneità. Per Levi il problema non è che gli animali possano avere un’anima, o che l’uomo, alla fin fine, è un animale. Dal suo punto di vista fra le due sfere ci sono forme di analogia locali, misurabili volta per volta, sulla base non solo di intuizioni momentanee ma di strategie discorsive, creative, letterarie o meno, che li mettono in evidenza. In altri termini, le analogie non sono nelle cose ma nella loro comparazione, nel discorso che le pone. Dove, come si sa, la strategia fondamentale di Levi è quella di un’analogia direi radicale, lui dice “paradossale”, fra vittime e carnefici, dove solo a prima vista si tengono fuori gli animali, reintegrati nella loro valenza bestiale. 

Leggiamo da I sommersi e i salvati: “qui ci troviamo di fronte a una paradossale analogia tra vittima e oppressore, e ci preme esser chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra […]. L’oppressore resta tale, e così la vittima: non sono intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi, davanti all’indecenza del fatto che è stato irrevocabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e di difesa, e ne vanno istintivamente in cerca”. Tutto il capitolo sulla zona grigia è leggibile come una grande lezione di analogismo antropologico.

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Vico e Leopardi. Immaginazione e linguaggio

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Chi può, vada alla mostra Il corpo dell'idea. Immaginazione e linguaggio in Vico e Leopardi, allestita a Napoli nella Sala Dorica di Palazzo Reale. Il fascino avvolgente della scenografia multimediale che accoglie il visitatore, immergendolo tra gli autografi di due pensatori sommi come Vico e Leopardi, vale una visita ad hoc. Tra gli autografi, la Scienza Nuova, lo Zibaldone di pensieri, le Operette Morali, alcuni Canti come Alla Primavera e soprattutto il primo autografo dell'Infinito (1819), tutti provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, che possiede il lascito più consistente di entrambi i pensatori.

 

L’esposizione, ideata e curata da Fabiana Cacciapuoti, nota studiosa dell'opera leopardiana e curatrice di altre significative mostre recanatesi, è inserita tra le celebrazioni del Bicentenario de L'Infinito di Giacomo Leopardi ed è incentrata sul dialogo tra i due grandi esponenti del pensiero moderno europeo, ricostruito soprattutto attraverso l’incontro di due scritti che segnano la modernità: la terza edizione della Scienza Nuova (1735-43), pubblicata postuma pochi mesi dopo la morte di Vico dal figlio Gennaro nel 1744, e le 4526 pagine dello Zibaldone (1817-1832), pubblicato per la prima volta in sette volumi, nel 1898-1900, a cura di una commissione di studiosi presieduta da Giosuè Carducci con il titolo Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura. L’itinerario sul mito è arricchito dall’esposizione di statue provenienti dal Museo di Palazzo Reale e dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Si aggiungono alcuni volumi rari, cinquecentine e libri del Seicento e Settecento, riconosciuti come fonti comuni ai due autori, dai Dialoghi di Luciano in un'edizione veneziana del 1551 alle Quaestiones naturales di Seneca in un'edizione veneziana del 1643, a un'Iliade padovana del 1732.

 

Se non potete andare a Napoli, godetevi l'omonimo catalogo, anch'esso curato da Cacciapuoti e pubblicato da Donzelli. Nella mostra, e poi soprattutto nei diciotto saggi del catalogo, introdotto da una sapiente riflessione della curatrice dal titolo Il corpo dell'idea. Il senso del mito e la forza dell'illusione, si intrecciano riflessioni sul rapporto tra mito e poesia, indagini sul nesso tra lingua, geografia e storia, e tre saggi sull'Infinito, rispettivamente di Jürgen Trabant, Bruno Pinchard e Gilberto Lonardi. I temi sono prevalentemente poetici e antropologici: le origini dell’uomo e del mondo; il rapporto tra mito, immaginazione e parola poetica; la visione della decadenza e della corruzione dell'umanità nello spazio della modernità. Un itinerario antropologico che tocca il mito biblico delle origini, i poemi omerici, il farsi del linguaggio e la costruzione delle civiltà, che porta con sé un eccesso di razionalità e di scienza, foriero della decadenza in una nuova barbarie.

 

 

Immaginazione e linguaggio sono le parole chiave che consentono di avvicinare questi due giganti italiani del pensiero, espressione somma di quella «via italiana alla filosofia» che Roberto Esposito in Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (2010) ha individuato in un «pensiero del fuori», del «non-filosofico», che arriva fino al Novecento, con pensatori anche politicamente distanti, come Croce, Gentile e Gramsci, ma tutti volti «a calarsi nel mondo della vita, fin quasi a coincidere con esso, costituendo una sorta di pensiero vivente». Questa filosofia che condivide gli interessi posti dalla storia, dalla politica, dalla letteratura ed «emergenti dal magma in movimento della vita», viene definita da Esposito, con una categoria attuale, «biopolitica». La filosofia italiana, anche a partire da Vico e Leopardi, esporta nel mondo da un lato l’interesse per la storia, la politica e la vita, dall’altro una costellazione semantica che permette di affrontare i grandi temi odierni della globalizzazione e della biopolitica dal punto di vista della «differenza italiana».

 

Sul rilievo della riflessione antropologica in Leopardi c'è ormai un'ampia convergenza tra gli studiosi, almento a partire dal XII Convegno internazionale di studi leopardiani tenutosi a Recanati il 23- 26 settembre 2008 (La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, a cura di Chiara Gaiardoni. Prefazione di Fabio Corvatta, 2010).

L'antropologia è, in Leopardi, punto di connessione tra la filosofia della natura e la filosofia della natura umana. Lungo un itinerario di riflessione che conduce ad affrontare la grande e grave questione della condizione umana, che dall’utopia, esemplificata nel mito dei Californi, conduce al disincanto, rilevabile in alcune Operette e tra tutte nella Scommessa di Prometeo. Si può parlare al proposito di antropologia, e più propriamente di «antropologia negativa». Il termine «antropologia» in Leopardi va inteso in senso filosofico: uno spazio di riflessione sulla natura umana, a partire dalle diffuse documentazioni su popoli e culture antiche, primitive o selvagge che costituirono la ricca base materiale delle sue osservazioni. Un’antropologia «negativa», in quanto la visione leopardiana della natura umana, nel suo svolgimento, conduce a rilevare la costitutiva infelicità umana, connessa non soltanto allo sviluppo della civilizzazione, ma intrinsecamente alla natura propria dell’uomo. La genesi della concezione antropologica negativa avviene in Leopardi attraverso un processo di letture e di pensiero che muove da una visione utopica di un’umanità primitiva felice e di una cultura greco-latina eroicamente naturale, per pervenire a riconoscere la negatività della condizione umana in ogni tempo e in ogni luogo rispondendo negativamente alla domanda retorica posta nelle ultime parole del Dialogo della Natura e di un Islandese: «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?».

 

Su questi temi torna ora a riflettere Beatrice Cristalli con un libro che tocca specificamente la dimensione «religiosa» del pensiero leopardiano, o meglio la sua riflessione «biblica» – L'«invenzione» della colpa. L'antropologia negativa leopardiana tra «Zibaldone» e «Operette morali». Come scrive Cristalli, «La versione “naturalizzata” leopardiana del dogma cristiano, il cui senso viene ribaltato nella lunga teorizzazione dello Zibaldone, si configura allora come il punto di partenza di una personale ricerca antropologica, volta a recuperare il senso – ammesso che ci sia – di quella estraneità costitutiva dell'uomo, l'essere gettato nel mondo e, allo stesso tempo, non essere del mondo».

 

Alla pagina 49 dello Zibaldone Leopardi richiama «La favola del pavone vergognoso delle sue zampe», ritenendola inverosimile «giacchè non ci può esser parte naturale e comune in verun genere d'animale, che a quello stesso genere non paia conveniente, e quando sia nel suo genere ben conformata non paia bella». E conclude: «Quello che ho detto nel principio di questo pensiero me ne porge un altro, cioè che infatti quella fav. non pecca d'inverisimile non essendo scritta per li pavoni ma per noi, i quali naturalmente siamo portati a credere che quelle zampe bruttissime agli occhi nostri sieno tali anche agli occhi dei pavoni. E quantunque il filosofo facilm. conosca il contrario, tuttavia scrive il poeta pel volgo, al quale non è inverisimile il dir p. e. che le stelle cadano, anzi lo dice Virgilio e si dice da' villani e da' poeti tuttogiorno, benchè a qualunque non ignorante sia cosa impossibile.». Immaginazione e linguaggio, verità della ragione e mito si intrecciano in questa riflessione, che conserva tutta la sua radicale attualità.

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Somiglianze. Una via per la convivenza

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La sua battaglia contro l’identità Francesco Remotti l’aveva iniziata nel 1996 con un titolo quanto mai significativo, appunto: Contro l’identità (Laterza), dove metteva in luce l’artificiosità delle costruzioni identitarie, per poi proseguire con la denuncia de L’ossessione identitaria (Laterza) in cui ampliava il discorso e metteva in guardia dalle pratiche, spesso manichee, fondate su questo principio. Tutti e due questi lavori erano fondati più su analisi tese a denunciarne i rischi; con quest’ultima fatica, dal titolo Somiglianze. Una via per la convivenza, Remotti compie un importante passo avanti, scavando fino alle radici del nostro essere. Ed è proprio da questa operazione di scavo, che l’autore ci conduce con un lungo e documentato percorso nei meandri dei bisogni su cui si fondano le identità, mali forse necessari per riuscire a pensarci come gruppo coerente, ma che molto spesso da entità fluide e soggette a cambiamento, si trasformano in fortezze quasi sempre finalizzate a tenere fuori gli altri, a escluderli. Molto spesso, infatti, molte delle identità proposte come “naturali” sono più il prodotto di una avversione comune verso gli altri, che di un reale legame all’interno del gruppo. Un caso a noi vicino, per esempio, come lo slogan “Prima gli italiani”, che si fonda su una presunta spiccata identità italiana, esprime solo la volontà di escludere chi italiano non è, ma non produce nessun rafforzamento delle relazioni interne.

Una chiusura progressiva verso un’identità essenziale, reificata, inamovibile finisce per provocare un forte impoverimento culturale e soprattutto una sempre più ridotta capacità di convivere. Ed è proprio da questa parola “convivenza”, che Remotti parte per lanciare la sua proposta: se l’identità si fonda essenzialmente sulle differenze, perché non provare, invece, a pensare in termini di “somiglianze”? Se riflettiamo, infatti, in natura non esiste identità, nel senso che non esistono due cose identiche, semmai sono simili.

 

L’antropologia ha sempre dedicato particolare attenzione alla nozione di persona e di come essa possa cambiare nelle diverse società umane. In fondo ogni cultura rappresenta se stessa e i suoi componenti nel modo che le è più consono e Remotti mette in luce come la società occidentale abbia dato vita nel tempo (e non da oggi) a una concezione individuale della persona, considerando ogni umano un’entità a sé, atomica, unica e indivisibile. Attingendo dal repertorio etnografico però, scopriamo che non per tutti è così: altre società hanno pensato all’uomo come creatura “composta” da parti diverse. 

Qui Remotti afferra la barra del timone e inizia a sconfinare nei mari della scienza e in particolare della biologia, scoprendo con piacere che le sue intuizioni in campo antropologico sono confermate dalla ricerca scientifica. La biologia, infatti, ha approfondito le relazioni tra l’individuo e il suo ambiente, mettendo in luce come i confini tra i vari organismi siano alquanto porosi e pertanto esista uno scambio costante tra “noi” e ciò che starebbe al di fuori, ma che in realtà sta anche dentro di noi. Scopriamo così che conviviamo con oltre duemila batteri e altri organismi di vario tipo. La pelle, ultimo confine tra noi e il mondo, non è un muro invalicabile. Come forse non lo è nessun altro muro. 

 

 

«Nessun uomo è un’isola» ci ammoniva John Donne e infatti, alla luce di queste riflessioni, dovremmo pensarlo più come un arcipelago. Quell’arcipelago che per Edouard Glissant: «È un grande circolo, che si oppone alla pretesa linearità delle passate forme di conoscenza. Il Mediterraneo è un mare che tende a concentrare. Le forze al suo interno tendono allo stesso ideale, all'esaltazione dell'Uno. Non è un caso se le tre maggiori religioni monoteistiche, cristianesimo, ebraismo e islam, sono nate proprio nell'ambito mediterraneo. Al contrario l’arcipelago è un mondo che divide, il regno della diversità. L'arcipelago disgrega, non concentra». 

Le barriere della diversità sono, secondo Glissant, una delle tante eredità della cultura occidentale e della sua tendenza all'unitarismo a cui contrappone l’indefinitezza come matrice originaria. 

Non più individuo quindi, ma dividuo, divisibile e soggetto a mutazione. Di qui si parte per un nuovo attacco all’identità. Nessuno di noi, infatti, è identico al se stesso di dieci, venti o trent’anni fa. Certo siamo simili a ciò che eravamo, non uguali. “Simili”, ecco la parola chiave, che spiega la coerenza di ogni persona, senza cadere nella trappola identitaria. Ci sono elementi di continuità ed elementi di discontinuità in ciascuno di noi e tra di loro c’è, a tenerli insieme, quella “somiglianza di famiglia” cara a Wittgenstein. Non siamo fatti di identità, ma di somiglianze e somiglianza significa anche di differenza, si porta dietro questo carico, che troppo spesso tendiamo a cancellare. 

 

Non solo, ma se la biologia ci ha dimostrato che in fondo, senza saperlo, conviviamo con migliaia di altre forme di vita, significa che non siamo solo dividui, ma condividui. Questo termine sottolinea l’esigenza della continuità non nell’identità, ma in qualcosa che in qualche modo sta insieme. Ecco la proposta di Remotti per una nuova convivenza, ancora più importante in tempi come i nostri, in cui questa capacità viene sempre meno. Accade perché noi umani, a differenza degli organismi che ospitiamo (o sono loro a ospitarci e a consentirci di vivere?), siamo vittime delle rappresentazioni che noi stessi abbiamo costruito. Impigliati nella ragnatela di simboli che noi stessi abbiamo costruito, come dice Max Weber, finiamo per non vedere ciò che Walt Withman aveva forse intuito quando scriveva: «Sono grande, contengo moltitudini».

Viene da pensare che forse eravamo più saggi quando, per indicare gli altri, usavamo un’espressione purtroppo uscita dal lessico contemporaneo: “i nostri simili”.

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Margaret Mead. America allo specchio

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Chi sono gli americani? A porsi la domanda, alla vigilia dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, è Margaret Mead. Siamo nel 1942 e un “inventario preciso” del carattere nazionale le appare necessario e urgente quanto la conta delle forze materiali in campo. Il risultato è America allo specchioLo sguardo di un’antropologa (pp. 264, trad. Lina Franchetti e Ada Arduini), uno dei suoi testi più noti appena riproposto da il Saggiatore, dove, spaziando dalla famiglia al mito del successo, s’inoltra nell’identità e nella cultura degli Stati Uniti per ritrarne i punti di forza e le debolezze. 

Scritto nell’arco di poche settimane, il libro nasce dall’esperienza maturata nelle ricerche in Oceania ed è figlio di un’urgenza politica che si dichiara a ogni pagina. Vincere la guerra contro i totalitarismi è fondamentale, ripete Mead, al tempo impegnata nello sforzo bellico per conto di diverse agenzie governative. E nulla meglio del “carattere americano”, con il suo “miscuglio di praticità e di fede nel potere di Dio”, può riuscire in quest’impresa che è “preludio a un compito più grande – la ricostruzione della civiltà del mondo”. 

 

And Keep your Powder Dry, come più bellicosamente il libro s’intitola in inglese dalla celebre esortazione di Cromwell “Abbiate fede in Dio, ragazzi miei, e tenete asciutte le polveri”, indica come si possa “combattere e vincere alla maniera americana”. Per dirla con Mead, è ciò “che l’antropologia come scienza può offrire per aiutare questa guerra, per dire a ogni americano: ‘Ecco uno strumento che potete usare, per sentirvi forti, non deboli, per sentirvi sicuri e orgogliosi del futuro’”. 

È uno spostamento di prospettiva che conquista il pubblico. Scritto in un linguaggio semplice e diretto, America allo specchio sfonda i confini specialistici e diventa subito un classico che entra come libro di testo nelle università. Se alla luce di quel ritratto sia ancora possibile ottant’anni dopo leggere il Paese, è però un altro discorso. 

Da quando vivo negli Stati Uniti, l’interrogativo di Mead mi tormenta ogni giorno. Chi sono gli americani? Perché fanno, pensano, ridono così? Sarà perché abito nel Deep South, lontana da New York o San Francisco che mi sembrano più familiari, ma la percezione di uno stacco fra me e loro non mi lascia e ogni tanto finisco a sbatterci la faccia. 

È un mondo altro, ha le sue regole e i suoi codici. Ho smesso di chiedermi se è meglio o peggio. È così. È un’altra lingua da imparare. Ho dunque letto America allo specchio con la curiosità pressante di chi ha bisogno di capire. Più che impadronirmi di un pugno di risposte, mi sono ritrovata però a moltiplicare le domande. 

 

Lo strumento messo a punto da Mead risente del mutare dei tempi, come lei stessa nota nell’introduzione all’edizione del 1965. La vibrante fiducia nel futuro che ha accompagnato l’uscita del libro lascia qui il posto a un disincanto alimentato da temi ancora di stringente attualità: la disparità crescente fra ricchi e poveri, le tentazioni isolazioniste e la reviviscenza dell’estremismo di destra. “Non è che gli americani siano cambiati poi molto”, conclude. “Ciò che è cambiato è il mondo e la nostra capacità di comprendere e agire in base alla nostra comprensione di questo mondo diverso”. 

Da allora il mondo non ha smesso di cambiare e così l’America. Non solo i 130 milioni di americani di cui parla Mead sono diventati quasi 330, ma il loro profilo demografico si sta rovesciando come allora non si poteva immaginare. Entro il 2050, dicono le proiezioni, negli Stati Uniti i bianchi sono destinati a diventare minoranza e avviarsi a un lento declino. Le minoranze continueranno invece la loro rincorsa – al primo posto gli ispanici, seguiti dagli afroamericani, dagli asiatici e dalle sempre più numerose famiglie multietniche.

 

 

L’America di Mead è un’altra cosa. “Tutti siamo della terza generazione”, s’intitola il capitolo che celebra il mito fondativo del melting pot. E questa generazione, “sempre occupata a spostarsi, sempre occupata a sistemarsi”, abbandona le enclave dove i nonni e i padri si erano stretti ai conterranei (“le Piccole Italie”, “il Quartiere ceco”, la “Chiesa polacca”), cerca altre opportunità e lungo la via costruisce una nuova società, con nuove norme e nuovi rituali. “Ogni americano ha seguito una via lunga e tortuosa: se le vie sono cominciate nello stesso posto in Europa, meglio dimenticarlo – questo legame conduce addietro nel passato che è meglio lasciarsi alle spalle”. 

Il paese che si riflette in questo specchio è bianco. E quel bianco si sfoca ad accomunare in una medesima identità tedeschi e irlandesi, polacchi e italiani. Come se la whiteness non si fosse articolata nel tempo in una gerarchia razzista portatrice di odio e discriminazioni – basti ricordare com’erano considerati allora gli italiani del Meridione, per non parlare degli ebrei. Quanto agli afroamericani, sono evocati ma non si vedono come le altre minoranze. Per la cronaca, nel 1940 le statistiche registrano come Non Hispanic White l’88.3 per cento della popolazione e Mead comunque esclude dalla sua analisi il Sud, dove la popolazione afroamericana si concentra. 

La sua descrizione finisce così per prescindere dal colore, il genere o la classe, ignorando il retaggio di violenza razziale e sociale con cui peraltro l’antropologa si confronterà in altri scritti. È un ritratto d’epoca che, forse per l’imminenza della guerra, forse per la volontà di parlare a un ampio pubblico, tende a sfumare nell’idealità del mito. È un filtro che va aggiustato con cura per guardare all’America di oggi.

 

Se gli Stati Uniti non sono più quelli, il sistema di valori che Mead delinea in pagine memorabili resiste nel discorso pubblico e nell’intenzione dei buoni propositi. Non per caso il titolo inglese, perfetto per il tempo di guerra, rimanda a Cromwell. Nel motto puritano Mead rintraccia la formula che ha fatto grande l’America – quel misto di fede, buon senso e duro lavoro che crea e alimenta il successo perché in esso riconosce il favore di Dio e il premio alla virtù. 

Non per caso al tempo del New Deal, ricorda Mead, la drammatica catena di fallimenti e il programma di sussidi pubblici hanno fatto vacillare “l’edificio morale dell’universo” agli occhi degli americani. Se non erano più il lavoro e il timor di Dio a portare con sé la loro ricompensa, il fondamento puritano su cui il Paese poggiava finiva per sgretolarsi. 

Pur in uno scenario economico e sociale radicalmente mutato, quell’edificio per quanto traballante è ancora in piedi. Il successo rimane valore e desta ammirazione, come la ricchezza che ne deriva (basti pensare alla trionfale mitologia che circonda gli eroi della Silicon Valley o alla traiettoria del presidente Trump). 

 

La competizione per riuscire non conosce sosta o reti di salvataggio. Si comincia da piccoli e si va avanti fino all’ultimo respiro. “L’orgoglio è possibile nei termini della distanza da cui [siamo] venuti”, scrive Mead. In altre parole, per riuscire si deve fare meglio dei nostri genitori e un giorno i figli dovranno fare meglio di noi. Ogni estate il rituale isterico della corsa al college più prestigioso ci rammenta questa verità. Chi non migliora, si vergogna. Fermarsi è un’alternativa da perdenti.

È il volto buio dell’American dream, la condanna morale di chi resta indietro. L’insuccesso è colpa di chi fallisce, spiega Mead. Il povero è tale perché non s’impegna. Ridotta a una questione di buona volontà del singolo, svincolata da ogni determinante storico-sociale, la povertà finisce per essere associata alla colpa. Non ce la fai perché non vuoi, è il leit motiv che ancora segna il discorso pubblico e affossa i tentativi di migliorare il sistema di supporto sociale o avviare un sistema sanitario universale. 

È un tessuto morale che ogni giorno la realtà s’incarica di smentire. La fluidità sociale immaginata da Mead si spegne nel divario sempre più profondo fra ricchi e poveri, nel razzismo pervasivo, nella violenza delle armi da fuoco, nell’epidemia di overdose, nella crisi della classe media, nelle crudeltà della stretta sull’immigrazione. E i millennial che accorrono al richiamo di Bernie Sanders sono la testimonianza vivente del fatto che il sogno ha eluso perfino loro, la generazione più istruita di tutti i tempi. 

Le pagine di America allo specchio non forniscono facili ricette per decifrare questa realtà così complessa e in costante evoluzione, ma senz’altro indicano la strada. Non per caso l’epigrafe del libro rimanda a Archibald Mac Leish – “Abbiamo imparato le risposte, tutte le risposte: è la domanda che non conosciamo”.

 

Spiega Margaret Mead, “Soltanto di recente abbiamo smesso di formulare risposte e abbiamo cominciato a fare domande; fare domande accurate, utili e adeguatamente elaborate, ponendoci dei problemi invece che sottometterci al disastro o trovare nuovi modi di sottometterci ai vecchi disastri”. Ottant’anni dopo, servono nuove domande. I disastri ormai li conosciamo bene.

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Lo sguardo di un’antropologa
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Daniele Del Giudice, Taccuino di Ginevra

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“1984: Orwell ha sbagliato”. Così recitava una pubblicità dell’Olivetti M20, inneggiando alla nuova rivoluzione “dell'informazione distribuita, dei piccoli strumenti dalle grandi capacità: dei "Grandi Fratelli" che si rimpiccioliscono sino a diventare "amici personali", personal friends, personal computer.” 

Dall’altra parte dell’oceano, nello stesso anno, Steve Jobs inaugurava il lancio del nuovo Macintosh con un famoso keynote address e un altrettanto rinomato spot pubblicitario che sfidava apertamente il “grande fratello” IBM. “Sarà il Grande Blue (IBM) a dominare l’intera industria dei computer? L’intera era informatica?” chiedeva Steve Jobs a una folla in adorazione. “Aveva ragione George Orwell sul 1984?”

Ovviamente, Orwell non si sbagliava perché la sua critica non era rivolta alla “cattiva maestra televisione” (o ai computer in questo caso), ma al pericolo di un regime totalitario capace di controllare le masse attraverso la tecnologia. Trentacinque anni di distanza dal quel fatidico 1984 hanno dimostrato che la lungimiranza degli scrittori spesso supera la perspicacia degli innovatori – persino dei più brillanti come Olivetti e Jobs. 

 

È forse anche per questo che la casa editrice Einaudi ha deciso quest’anno di pubblicare una nuova edizione di Atlante occidentale di Daniele Del Giudice con l’aggiunta del Taccuino di Ginevra– 59 pagine finora inedite che documentano la visita dell’autore presso il CERN di Ginevra dal 7 al 12 Maggio 1984. 

In quel libro, Del Giudice aveva letto la rivoluzione tecnologica degli anni ‘80 estraniandosi dal confronto che divideva pseudo luddisti e progressisti. Negli stessi anni in cui Donna Haraway rivendicava la sua identità cyborg – "I'd rather be a cyborg than a goddess” – e il dibattito sulla tecnologia nelle pagine della letteratura vedeva nella progressiva “artificializzazione” del reale un nemico da combattere attraverso l’autenticità della parola poetica, Del Giudice aveva deciso di prendere una strada completamente diversa.

Dato per assodato che la tecnologia avrebbe avuto un ruolo preponderante nella vita di tutti i giorni, l’autore si interrogava sui nuovi “modi di essere” che la rivoluzione tecnologica avrebbe fatto emergere. Come spiegava in un’intervista di quegli anni: “piuttosto che rendere questo cambiamento attraverso una storia mimetica che lo cogliesse in modo superficiale, cioè la televisione, l'effimero, lo smarrimento urbano eccetera, volevo mettere mano proprio a questo nucleo, andare a vedere che cosa era cambiato nella natura delle cose” (“Il tempo del visibile nell’Atlante di Daniele Del Giudice”, in "Palomar. Quaderni di Porto Venere" 1,1986).

 

La scelta del CERN a questo proposito sembra decisamente insolita. Nel maggio del 1984, quando Del Giudice vi si reca in visita, il CERN non era ancora il laboratorio fantascientifico immortalato da Dan Brown in Angeli e demoni. Il LEP (acceleratore di elettroni e positroni), e il grande anello sotterraneo che lo ospitava (predecessore del più famoso LHC) era in via di costruzione. Carlo Rubbia avrebbe vinto il Nobel per la scoperta dei bosoni W e Z solo nel dicembre di quell’anno.

La grande intuizione di Del Giudice è stata quella di capire che il CERN rappresentava già all’epoca un ecosistema ideale dove studiare le conseguenze antropologiche di una nuova “ontologia” tecnologica. Un micro-mondo dove la nascita di nuovi oggetti – “oggetti di luce” come li chiama l’autore – avrebbe prefigurato la scomparsa della “materialità” e l’avvento delle non-cose.  “Lei disse che gli oggetti stavano sparendo, ed è vero” diceva il fisico Brahe al vecchio scrittore Epstein: “Ho riflettuto in questi mesi, e ho cercato di capire che cosa voleva dire.  Un tavolo ha le sue leggi, da quelle per cui sta in piedi a quelle di come si sta a tavola, che sono perfettamente valide, tuttora. Solo che, come dire? Le parti di cui è fatto il tavolo sotto una certa soglia, hanno leggi del tutto diverse da quelle del tavolo stesso. Gli oggetti che già ci sono, che ci saranno, saranno fatti direttamente di quelle parti lì” (Atlante, 135).

Con rigore scientifico, l’autore annota nel Taccuino ogni singolo dettaglio della sua visita: dal modo in cui i fisici parlano (estendendo al linguaggio comune le forme del linguaggio scientifico), al modo in cui interagiscono tra di loro. Dal “rumore di fondo” dei condizionatori d’aria presenti nelle sale a quello che i fisici chiamano il “rumore di fondo” di una collisione.

 

La scelta di studiare il mondo della fisica sperimentale invece di quella teorica è indicativa del tipo di esperimento che Del Giudice conduce al CERN: quello di raccontare “quali pensieri o sentimenti o modi di stare insieme erano stati vissuti lì dentro in una ventina d’anni”. Anticipando di almeno dieci anni le intuizioni di studi seminali nella storia della scienza come Epistemic Cultures: How the Sciences Make Knowledge (Harvard University Press, 1999) di Knorr-Cetina e Image and Logic: a Material Culture of Microphysics (University of Chicago Press, 1997) di Peter Galison, Del Giudice dimostra una comprensione profonda delle contraddizioni che animano il grande laboratorio di fisica delle alte energie. 

 

Il CRN è un mondo al contempo astratto – dove la comprensione delle componenti fondamentali dell’universo avviene attraverso la manipolazione di segni, simboli e teorie – e assolutamente concreto, dove la capacità di vedere è direttamente proporzionale all’energia ottenuta negli acceleratori. Un mondo che insieme alla conoscenza scientifica, costruisce – dirà Knorr-Cetina – dei “super-organismi”: “collettività di fisici, appaiati a collettività di strumenti, che si avvicinano moltissimo a quello che si potrebbe definire come un regime comunitario post-romantico” (Epistemic Cultures). 

All’interno di questa comunità “tribale”, Del Giudice identifica il ruolo centrale dei rivelatori come punto di intersezione tra il micro-mondo della fisica e la macro-scala della percezione umana. I rivelatori e i computer che rielaborano le informazioni ottenute durante le collisioni, diventano una specie di “protesi” organica che permette di ristabilire il senso della vista in un mondo altrimenti irraggiungibile, dove la conoscenza è una ricostruzione continua di energie mancanti e di tracce lasciate dal decadimento di particelle subatomiche. Una delle prime cose che Del Giudice nota al CERN è proprio questo strano rapporto di continua co-determinazione che lega fisici, esperimenti e macchinari; un rapporto dove il soggetto, lo spazio e gli oggetti si ridefiniscono reciprocamente, come dirà poi Brahe in Atlante occidentale, in una “strana e assoluta relazione in cui tutto era simultaneamente determinato e determinante, compreso lui.”

 

 

Il Taccuino non è “soltanto una testimonianza di viaggio, un diario di bordo”, ribadisce Enzo Rammairone, curatore della nuova edizione, “ma un vero e proprio scritto di natura narrativa”. In queste pagine Del Giudice continua la ricerca letteraria di una scrittura che si avvicina alle cose, come sosteneva nello Stadio di Wimbledon,“misurando sempre quanto se ne è lontani”. L’autore descrive la sua esperienza a Ginevra con quella diplopia tipica del suo stile narrativo capace di catturare in un solo sguardo l’oggetto, la sua rappresentazione e la rete di complesse relazioni che legano il modello mentale alla realtà. Nel Taccuino leggiamo:

 

Ginevra 7.5.84. Il lungo viaggio in treno, di giorno: […] Subito dopo il confine avevo cominciato a guardare la ferrovia cercando di riconoscere il materiale – soprattutto i pali della linea aerea, ma anche i ponti, e nelle stazioni le carrozze e i locomotori – per vedere se assomigliavano ancora al ricordo che avevo dei treni elettrici Märklin con cui giocavo da bambino. Ho cercato anche di immaginare quale dovrebbe essere il giusto rapporto tra spazio, dimensione e velocità affinché un modellino elettrico possa riprodurre realisticamente il movimento del treno.

 

Non è un caso che l’immagine iniziale del Taccuino sia quella di un treno: il mezzo di trasporto meno innocente della letteratura italiana moderna e contemporanea, carico di “innumeri relazioni”, come ricordava Gadda nella Meditazione milanese.

Il treno come nodo relazionale – colto nel rapporto immaginario con il suo modello – stabilisce una continuità tra questi appunti di viaggio e la narrativa dei “treni di carta” che l’hanno preceduto e crea al contempo un ponte tra mondo scritto e mondo non scritto. In Atlante occidentale lo stesso treno finirà in copertina, come un nume tutelare della soglia del romanzo.

 

Per Del Giudice, conoscere significa “sentire la differenza”, una differenza che vive in una continua relazione con l’identità. “Il narratore lavora nel piccolo spazio di modificazione di sentimenti sempre uguali ma anche sempre diversi”, dichiarava in un articolo-intervista di Antonella Fiori. I sentimenti sono sempre gli stessi, ma ciò che davvero cambia sono i modelli di rappresentazione e le coordinate culturali che li producono. Del Giudice individua una simmetria fondamentale del “sentire” attraverso la storia umana, una simmetria che ci consente di capire “Madame Bovary anche se da allora, fuori di noi, è cambiato tutto” (Intervista di Antonella Fiori “Zen, aerei e termodinamica: ecco la formula della letteratura”, in L’Unità, sabato 15 marzo, 1997). Il sentimento insomma, è un’invariante nella trasformazione del sistema di coordinate culturali.

Similmente, è proprio il concetto di simmetria e invarianza che informa il Modello Standard su cui si basa la fisica delle alte energie al CERN: “una simmetria così radicale e sorprendente per cui ciò che prima appariva come manifestazione di forze diverse e separate poteva essere considerato nell’unificazione di una grande legge, una sola e la più semplice, una legge simultanea della differenza e dell’identità”. Lo studio dell’invarianza è importante perché indica sempre una relazione rispetto ad altro, una relazione definita in senso operativo e non normativo.  Come scriveva Giuliano Toraldo di Francia nel saggio Lo statuto ontologico degli oggetti nella fisica moderna: “È specialmente nel dominio della microfisica che la nozione del senso comune di oggetto fisico crolla. In quel campo i fisici hanno cominciato a basarsi sempre più su entità astratte, come simmetrie e invarianti, piuttosto che su oggetti del senso comune. Gli invarianti sembrano aver preso, in certa misura, il posto del vecchio concetto di sostanza. La fisica moderna è in buona parte la ricerca di invarianti” (Livelli di realtà, a cura di Massimo Piattelli Palmarini, Feltrinelli, Milano, 1987, 300).

 

L’invarianza permette così di catturare la realtà attraverso la sua trasformazione, lontano da qualsiasi imposizione dogmatica, stabilendo una priorità epistemologica rispetto a quella ontologica. L’oggetto non è più descritto attraverso la nozione ambigua di “sostanza” o “essenza”, ma tramite il suo comportamento in relazione all’altro da sé. Per dirla con Gaston Bachelard: “dimmi come ti trasformi e ti dirò chi sei” (Il nuovo spirito scientifico).

La visita di Del Giudice a Ginevra si colloca all’interno di questo sistema di idee: alla ricerca della possibilità di un sentimento nuovo eppure antico – uguale nella diversità – un sentimento di continuo stupore, condiviso dal fisico e dal letterato, per cui, come dichiarò Del Giudice stesso nell’intervista di cui sopra, “attraverso una narrazione o una grande macchina si riesca a vedere e a far vedere qualcosa di ciò che convenzionalmente devo chiamare «reale»” (“Il tempo del visibile nell’Atlante di Daniele Del Giudice”, cit.).

È in questa ricerca che si definisce l’originalità del pensiero dell’autore e la sua lungimiranza nel raccontare il cambiamento di matrice delle coordinate culturali del mondo occidentale attraverso l’invarianza del sentimento.

 

“«E adesso?» chiedeva Brahe ad Epstein alla fine del romanzo: «Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova». «E questa?» «Questa è finita». «Finita finita?» «Finita finita». «La scriverà qualcuno?» «Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento».”

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La differenza animale

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Jean-Luc Nancy

“Che animale!” è l’imprecazione più dura che si possa scagliare contro uno o più individui che si macchino di azioni disumane, al di fuori di ogni regola civile, prive di ogni senso della pietà, di ogni rispetto. L’animale è altro dall’umano, è il confine della sua umanità. Macchiarsi di comportamenti “bestiali” significa porsi al di fuori del consorzio umano, aprire lo spazio di un mondo senza misura, in cui la vita singolare, la vita dell’individuo, non ha più tutele, né diritti: ci si espone alla violenza senza più alcuna protezione, al di fuori di ogni diritto, di ogni Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (che, come sottolineano le sue maiuscole, riguarda solo gli uomini e non gli animali). Ed è ben curioso che nel nostro linguaggio sopravvivano simili significati ancestrali, proprio oggi che l’animale è inserito nel cliché domestico, in cui i gattini e i cagnolini che imperversano su Instagram e Facebook, facendo il pieno di like, sono l’emblema stesso di una tenerezza commovente, di una bontà più umana di quella dell’uomo. Oppure, quando non ci troviamo di fronte a questa instagrammazione umanista, l’animale è segregato in campi di sterminio e di non vita, in attesa di macello. Nella contemporaneità, della ferocia animale non vi è traccia. L’animale è, anzi, il vivente che più di ogni altro risulta inoffensivo, se non addirittura sottomesso a una violenza di cui la sua stessa esistenza, da recluso in lager e gabbie, è testimone silenziosa. L’animale è il vivente in cui, oggi più che mai, a manifestarsi non è la violenza sregolata, ma l’alienazione e la sofferenza.

 

Ed è proprio su questa sofferenza che i due curatori di un volume di Jean-Luc Nancy, appena apparso in italiano, hanno voluto concentrarsi, scegliendo per titolo La sofferenza è animale (Jean-Luc Nancy, La sofferenza è animale, a cura di Massimo Filippi e Antonio Volpe, Mimesis, 2019 pp. 53). Filippi e Volpe, dando così seguito a un altrettanto riuscito libro uscito l’anno scorso (Alessandro Dal Lago, Massimo Filippi, Antonio Volpe, Genocidi animali, Mimesis, 2018, pp. 72), vogliono attrarre l’attenzione sugli immani genocidi che la nostra civiltà sta mettendo in atto nei confronti delle altre specie; vogliono invitarci a riflettere, interrogando ora Nancy in un’affascinante e lunga intervista, sulle contraddizioni di una civiltà, la nostra, fondata su un ingiustificabile sfruttamento della biodiversità faunistica e sulla messa a morte degli animali, considerati come beni di consumo, come merci. Ne nascono, ovviamente, una serie di questioni etiche e politiche che mostrano, quanto meno, l’urgenza di un pensiero che si ponga all’altezza di pensare la complessità della questione animale, al di fuori o al di là delle categorie classiche che – salvo molte e significative eccezioni (dal vegetarianesimo pitagorico, passando per San Francesco e Montaigne fino a Derrida) – riducono l’animale ad automa, privo di anima; pura forza lavoro da sfruttare; carne da macello.

 

Opera di Bacon.


Ma è proprio Nancy che, sovvertendo gli stereotipi del pensiero dominante e ponendo la questione di un’animalità animata, sottolinea come, in realtà, l’“animalità” denoti esattamente la qualità “di ciò che possiede un’anima o, più esattamente, di ciò che è animato da un’anima, cioè da un soffio, il soffio della vita” e di come, quindi, il “concetto” di animalità sia un modo per pensare proprio ciò che vi è di comune (la vita, il soffio di vita) tra tutti i viventi. L’animalità non è dunque prerogativa dell’animale ma è presente in noi come nell’animale; è la condivisione e il differenziarsi, il partage direbbe Nancy, di un’esperienza della vita che ci lega gli uni agli altri, uomini e animali (ma anche uomini e vegetali, uomini e minerali), in un sistema di rimandi e di rinvii senza fine, al fondo del quale, più che trovare ognuno la propria identità, si è rinviati a un soffio che rende instabile ogni certezza, ogni concrezione, ogni fissità. L’animalità è, in un certo senso, l’apertura a una dimensione di con-essere, in cui l’identità del sé viene definita solo dal differenziarsi della vita, delle forme di vita: la vita che si dà forma in un processo metamorfico senza fine.

 

Non si dà, cioè, alcuna identità originaria, nemmeno un’identità di specie “naturale” che possa definire l’uomo e l’animale. Si dà solo l’animazione, il movimento spaziatore della vita: una moltitudine di anime incarnate. D’altronde, cos’altro è l’anima, fin da Aristotele, se non la forma di un corpo? L’animale non è quindi privo di anima, come nessun vivente lo è. E nessun animale è quindi privo di quel sentire o sentimento primordiale (arci-originario, direbbe Nancy) che nasce dall’avere una vita, dal condividere l’esperienza vivente. Ed è per questo che lo sguardo dell’animale mostra la sofferenza (ma anche la gioia e la meraviglia, ci sentiremmo di aggiungere) di ogni vivente, mostra quel che è al di là delle nostre categorizzazioni linguistiche: la presenza di un’estraneità che ci costituisce e che non si riduce alla parola, non trova spazio nella parola ma piuttosto in una “prossimità”. La sofferenza – il patire e la pazienza – dell’animale, questa oscura e al tempo stesso limpida pulsazione, quest’animazione che ci anima da dentro pur rinviando a una alterità inappropriabile, questa parte di noi che è fuori e dentro di noi, questo lato dell’umano che percepiamo nella prossimità dell’animale, “non è definito, ma preme sulle parole, insiste, ossessiona, impedisce di attenersi al senso delle parole”. La presenza dell’animale ci porta, così, ai limiti del linguaggio e fa pensare al Wittgenstein di Derek Jarman il quale, davanti a sempre più disorientati allievi, si chiede se mai potremo capire il linguaggio di un leone, arrivando alla conclusione che, se non possiamo comprenderlo, non è perché quel linguaggio non abbia senso o non esista, ma perché non conosciamo la sua forma di vita. E noi, sulla scorta di Nancy, ora potremmo dire, non conosciamo la sua anima, il modo in cui la vita si dà una forma in lui.  

 

 

La questione animale si rivela, procedendo nell’appassionante lettura di questo agile volume, come il centro di una riflessione filosofica che, ben al di là del suo ridursi alle pur fondamentali e non più rinviabili questioni etiche di una sensibilità animalista capace di considerare l’animale come un essere vivente insopprimibile, ci induce anche a meditare su come la questione animale sia, in fondo, un modo per riflettere su cosa sia l’umanità, l’umanità così come si è costituita e l’umanità a venire. Un’umanità alle prese con la disperata e necessaria urgenza di ripensarsi a partire da ciò che essa ha escluso da sé e che, proprio a causa di questa esclusione rimossa, porta l’umano a compiere gesti autodistruttivi, atti di violenza cieca contro quell’alterità che, in realtà, lo costituisce. Trattando il mondo come totalmente altro da sé, l’umanità distrugge se stessa.  Se queste sono le premesse, allora si comprenderà come la messa a distanza dell’animale, fin dalle prime pitture rupestri, sia il luogo di uno scarto tra quel che – proprio attraverso immagini, parole, riti e sacrifici – andrà a definire l’essenza umana, da una parte, e l’estraneità e incomprensibilità dell’animale, dall’altra. Ripensare l’animalità dell’animale significherà, quindi, pensare l’uomo, applicando, in fondo, quel metodo genealogico e archeologico foucaultiano che aveva permesso al pensatore francese, attraverso un ripensamento della follia, di comprendere il soggetto razionale: la ragione è definita dal suo bordo oscuro, dalla follia.

 

Allo stesso modo, l’uomo è definito dalla bestia che lo minaccia. In fondo, la questione animale, così come Nancy la pone, radicalizza la necessità di pensare ogni sistema identitario a partire dalla sua alterità – si tratti della ragione, del genere, dell’identità etnica, dell’umanità, poco importa; significa, in altri termini, pensare attraverso un’eterologia radicale ciò che il linguaggio, il logos – quello stesso che ci fa dire “che animale!” – tende a definire e ricondurre all’unità del sé, alla sua identità monolitica. Un’eterologia, dunque, che non livelli le differenze, che non cada nella banalità di umanizzare l’animale o di considerare ogni cosa equivalente (la soppressione di ogni differenza), ma consideri, al contrario, come non vi siano che eccezioni, come la vita sia l’animazione di un processo di differenziazione infinita (proprio questo voleva far risuonare Derrida nella différance, a cui Nancy deve molto). Infinite forme di vita che costituiscono, nel rinvio dall’una all’altra, nel reciproco differenziarsi, l’identità mobile di ognuno. Gli animali, dunque, ci riguardano, sono parte di noi, come noi siamo parte di loro. E di questa indeplaçable, inevitabile, irremovibile, insopprimibile coappartenenza, sono testimoni silenziosi anche i cani di cui parla Nancy alla fine della sua lunga intervista.

 

La trovatella Dolly che ha accompagnato la sua adolescenza e della cui compagnia ha “sempre conservato il gusto molto particolare – forte, un po’ amaro, selvaggio”; o l’épagneul breton con la sua cucciola che, racconta Nancy, “ha vissuto molti anni insieme a sua madre in un immutabile rapporto di sottomissione filiale che ci lasciava stupefatti”. Segni, quelle presenze animali, di qualcosa di profondamento intrecciato a un sentimento di prossimità, di compagnia, di con-essere, di cui Nancy dice: “Non so raccontare, non so descrivere… So soltanto che queste immagini sono là, ben vivide, e che hanno a che fare con la vita”. Riconoscere nell’animale la vita, la stessa vita che è in noi, la presenza insopprimibile dell’alterarsi della vita, è il primo passo per sottrarre l’animale, come ogni altro vivente, ad ogni sua riduzione a cosa da sfruttare. Significa, infine, porre l’uomo all’altezza di pensare se stesso, oltre l’umanità e l’animalità; pensare, con Pascal, che “l’uomo supera infinitamente l’uomo” all’interno di un universo che lo compenetra e lo costituisce nel differenziarsi del tutto.

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