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Antropocene fantasma

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La spettralità ha attraversato il pensiero del Novecento ma è solo adesso che un inquinante dell’aria ha attaccato le sinapsi dell’immaginario collettivo e ha relegato i fantasmi di cui parlavano Derrida o Žižek in una wunderkammer obsoleta. Questo inquinante è il crollo percepito del futuro, un futuro troppo smaltato nel pensiero evoluzionista, troppo volontaristico nella antropopoiesi marxista, troppo vaporoso nella controcultura pop. Adesso è il futuro il vero fantasma del nostro tempo e, con una retroazione all you can eat, la spettralità è un geist che sta divorando il presente e il passato, trasformando in ectoplasmi forme di vita che ancora esistono o che per essere esistite, e non esserci più, infestano il nostro lungo sonno da svegli.

 

Me ne sono reso conto, con l’impatto di un pugno interiore, quando ho fatto ponte tra due intrusioni nel cuore, che mi hanno lasciato a pezzi. La seconda è un audio condiviso in rete in cui un’orca in cattività dice “hello” e “bye-bye” imitando la voce del proprio addestratore. Sentire l’animale imitare l’uomo mi ha gettato in un senso di tristezza e costernazione come se fossi in presenza di un lutto. La prima cosa a cui ho pensato è il contesto macabro, concentrazionario, di un acquario americano dove una persona non-umana è forzata a “giocare” per l’uomo. Il pensiero immediatamente successivo è stato per l’orca come specie, un popolo marino che forse molto presto non esisterà più, e per l’incalcolabile perdita mentale che il crollo della biodiversità comporterà per Homo sapiens, visto che pensare animali è stato il primo e principale motore cognitivo che ci ha reso umani. Ma, inghiottito il nodo in gola, sono andato a frugare in rete nel bouquet di notizie di animali parlanti e mi si è spalancato un mondo perturbante, con un beluga dello zoo marino di San Diego che sa dire la parola “out” o Koshik, un elefante della Corea del Sud, che sa dire “hello”, “good” e “sit down”. Perturbante perché, mentre sterilmente si dibatte se questi animali capiscano o meno il senso dei suoni che riproducono, nessuno sembra invece ascoltare le voci uscite dalle loro gole per quello che in effetti sono, cioè le trombe dell’apocalisse.

 

 

La prima intrusione del cuore è l’inizio del film The Hunter di Daniel Nettheim del 2011. Willem Dafoe è un contractor che accetta di andare in Tasmania per conto di una compagnia di biotecnologie per recuperare il DNA di un animale considerato estinto, il Thylacinus cynocephalus, la tigre della Tasmania, un marsupiale carnivoro il cui ultimo esemplare noto è morto in cattività nel 1936 e che, appunto come un fantasma, continua periodicamente a essere avvistato nelle aree più selvagge dell’isola. Nel film, Dafoe inserisce una chiavetta usb nel portatile e parte un video, che si può trovare facilmente in rete, girato nello zoo di Hobart nei primi anni Trenta del Novecento. Nel ralenti zoppicante della pellicola il misterioso marsupiale si muove come uno xenomorfo di Hans Reudi Giger, bilanciandosi a volte sulla lunga, sgraziata coda, come un canguro, spalancando una bocca quasi disarticolata e, a volte, per un istante, guardando in macchina come una Medusa australe. Personalmente sono rimasto folgorato, trafitto da parte a parte, come se mi fossi affacciato su un abisso temporale pieno di presenze che non riescono a darsi pace. Nel film Dafoe ucciderà l’animale, ma solo per non farlo cadere nelle mani della compagnia di biotecnologie che contava di ricavare dal suo DNA una neurotossina da utilizzare in ambito bellico. Ultimo della sua specie, l’animale non fugge, china la testa e si lascia uccidere, e con lui muore per sempre una parte incalcolabile di noi. Ma quale?

 

 

Il problema non è semplicemente quello della perdita: ghiacciai che scompaiono lasciando incombente nel pensiero la loro massa mancante; foreste che ardono incenerendo un po’ alla volta le nostre geografie mentali; specie animali che si dissolvono portando a dissoluzione le architetture tassonomiche del nostro cervello. La perdita è solo l’inizio. Quello che muore dentro e fuori di noi è la complessità e molteplicità del mondo, che è condizione ineludibile per mantenere sempre vive le zone intermedie, le terre di nessuno, le aree di soglia. I fantasmi, in bilico tra mondo dei vivi e mondo dei morti, ci ricordano la presenza di una “terza area”, ma non è mai per darcene la garanzia, per dirci che sempre e comunque questa fascia di transito c’è. Le zone liminari, al contrario, vanno coltivate, vanno fatte crescere in disequilibrio con l’ossessione per la lista che ci abita, vanno fatte reagire come un agente corrosivo sulla scacchiera autoritaria delle classificazioni linneiane. Non basta che ci siano spettri, occorre frequentarli, bisogna evocarli e parlare di loro e con loro il più possibile. Spettri-luogo, spettri-piante, spettri-animali, che ci fissano chiedendo pace. Ora, noi non possiamo guardarli frontalmente, possiamo coglierli solo di lato, con quella vista periferica che è un residuo del nostro passato di caccia, ma la cosa non è semplice in un mondo che fa dell’andare avanti un’isterica marcetta fascista. 

 

 

Qualche giorno fa, allora, ho pensato che era tempo di muoversi, e ho iniziato un viaggio spettrale e doloroso nel mio personale Antropocene. Ho acquistato The Birds of America di John James Audubon, un volume 40 x 60, 6 chili di peso, con 150 tavole dell’edizione postuma del 1858 riprodotte ad altissima definizione. Audubon, allievo di Jacques-Louis David a Parigi, esploratore, naturalista, illustratore, è un personaggio mitico, un padre fondatore dell’idea di wilderness in America, ma per noi oggi è anche un medium, una Madame Blavatsky dei boschi che può metterci in connessione instabile con un mondo di fantasmi. Molti degli uccelli e dei mammiferi disegnati da Audubon sono ancora visibili in Nord America, va bene, ma per quanto? Guardando le sue tavole gloriose e malinconiche sembrano già tutti estinti, perché quello che invece è già certamente scomparso è il grande spazio americano, la sua inimmaginabile vastità interiore per chi lo percepiva con gli occhi del nuovo arrivato. Quello che noi possiamo fare, allora, adesso, qui, è allestire un bivacco in qualche Groenlandia della mente, ritrovarsi tra pochi amici onesti, e sussurrare i nomi di animali e di piante che, già da ora, senza che lo sappiamo, sono la metonimia zombie di un cosmo concluso.

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Neogeografia

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Che senso ha fare geografia oggi, in un’epoca in cui il globo è stato esplorato palmo a palmo e le mappe sono disegnate da satelliti e software? Che importanza ha inventarsi un’immagine della Terra in mezzo ai guasti del clima e alla dissoluzione ambientale? Che cosa possono insegnare alla geografia contemporanea un racconto di mare in latino del X secolo, le canzoni di gesta antico francesi, i diari di bordo del capitano Cartier, la Liguria di Montale, l’India di Moravia e Pasolini, la costa bretone di Kenneth White? Neogeografia di Matteo Meschiari, di cui pubblichiamo un estratto del primo capitolo, è un’esplorazione estrema che mira a un duplice cambio di paradigma: ripensare l’epistemologia della geografia e analizzare i testi come altrettanti laboratori di paesaggio. Non semplice critica letteraria o studio di fonti indirette, ma l’analisi di esercizi cognitivi complessi, i sondaggi spaziali di Homo geographicus che lasciano sempre tracce tra le parole del testo. E infine, al cuore di tutto, una riflessione sulle immagini e sull’immaginario, perché ogni resistenza culturale, intellettuale, sociale, comincia da un futuro immaginato, da una “prova” di desiderio che funziona come alternativa allo status quo. Neogeografiaè soprattutto questo: un ripensamento necessario del metodo scientifico per restituire alla geografia, all’antropologia e alle scienze sociali la loro irrinunciabile vocazione politica. Un manuale di resistenza dell’immaginario in cui la terra e i suoi paesaggi sono la base primaria per fare pensiero critico e per inventarsi nuove pratiche di libertà.

 

 

La geografia europea nasce ufficialmente come geostoria di una spedizione militare (l’Anabasi di Senofonte). Per secoli la sua vocazione sarà quella di promuovere esplorazioni e spedizioni cartografiche. Questo ha fatto sì che la geografia venisse identificata con le sue funzioni principali: esplorare e cartografare (due modelli di appropriazione spaziale, due colonialismi delle terre e del pensiero, due conquiste, militare e cognitiva, due imperialismi, politico e classificatorio). In un’epoca in cui l’età eroica delle esplorazioni è finita e la cartografia può essere fatta dalle macchine (satelliti, software), la geografia classica è morta. Forse ha provato a rinascere scivolando verso l’antropologia, la sociologia, la letteratura, l’architettura ecc., ma in tutto questo ha vissuto e sta vivendo il punto più basso di una crisi identitaria ed epistemologica: la fine dell’avventura come esaurimento dello spazio, del tempo, della conoscenza. Il rischio è quello di entrare in un loop cognitivo, dove le innovazioni epistemologiche derivate da una moda temporanea saranno destinate a invecchiare e esaurirsi. Invece occorre uscire dalla ciclicità tornando alle radici cognitive del fare geografico: se la geografia sta morendo di inedia va rifondata, e il modo per rifondarla è tornare alla fonte primaria del comportamento geografico di Homo sapiens, cioè di Homo geographicus. La geografia non nasce con Senofonte o Tolomeo, non è una disciplina che esiste solo nella testa dei geografi, nasce invece assieme alla nostra specie, e il suo scopo non sono le esplorazioni (di conquista) e le mappe (di controllo) ma, più semplicemente (e più radicalmente), “andare oltre”, spostare l’immaginario, spostarsi con esso.

 

In qualche modo bisogna ritornare idealmente all’Out of Africa, ai primi modi di migrazione umana, alle strategie cognitive di orientamento, e alle tattiche di viaggio virtuale: l’immaginazione come modo per spingere il viaggio più in là, per anticipare le tappe a venire, per non fermarsi mai anche quando il corpo è immobile o lento o bloccato o prigioniero. La geografia è stata (ed è tutt’ora) lo strumento, il modo, l’attitudine cognitiva che serve alla nostra specie per continuare il viaggio, sempre e comunque. La specificità della geografia è che al di là delle apparenze e delle varie realizzazioni storiche è sempre stata la pratica per eccellenza dell’immaginario. Mentre l’antropologia si occupa di genti, culture e manufatti (l’altro), la geografia, anche quando riflette sullo spazio fisico, sul paesaggio concreto, su precise dinamiche sociali, sulla realtà spaziale, sta sviluppando un pensiero sottotraccia su un altro tipo di spazio immaginato (l’altrove). I cacciatori-raccoglitori raccontavano storie di caccia, ma le storie di caccia non trasmettevano informazioni spaziali dirette, piuttosto erano ellittiche, allusive, lacunose. I vuoti erano il vero scopo del racconto, perché fare vuoto, dire il vuoto, significava stimolare l’immaginazione, e accendere l’emulazione del giovane cacciatore che sarebbe andato a cacciare dove il vecchio cacciatore non era mai stato. La geografia è questa pratica rabdomantica del vuoto e la scienza dell’immaginario per riempirlo. Per rifondare la geografia bisogna dunque ripartire dai luoghi del vuoto, andare in un cul-de-sac geografico e mentale dove la storia, le ideologie, i saperi sono esauriti o assenti o inefficaci, un luogo così svuotato da tutto che proprio da lì tutto possa ricominciare.

 

 

Può sembrare un discorso astratto, misticheggiante, rapsodico, irrazionale, ma non dobbiamo dimenticare che l’immaginario non è un semplice istinto, è un vero e proprio metodo, è una pratica, una cultura, una pedagogia, un’educazione cognitiva. E ovviamente è anche un fare politico, una forma di resistenza. Per capire che cos’è veramente la geografia occorre studiare allora tutta la contro-geografia, tutte le invenzioni geografiche dell’uomo non europeo, non occidentale, non bianco. E rendersi conto che i comportamenti geografici di Homo sapiens sono sempre incentrati sull’invenzione di un altrove.

Il primo passo necessario è distinguere tra geografia come disciplina (scientifica, accademica, eurocentrica, occidentale) e saperi geografici (comportamenti, pensieri, modelli, credenze, narrazioni spaziali, inventati da Homo sapiens in altre epoche e altre culture). Questa distinzione serve a capire come si possa ripensare la geografia andando alla sua vocazione primaria attraverso migliaia di contro-esperienze geografiche. Si tratta insomma di individuare dei modelli geocognitivi alternativi. Le isole Trobriand e l’ipertesto, le mappe tattili di legno inuit, l’asse paesaggistico animale-casa-cosmo, le interpretazioni geomorfologiche navajo, la cartografia preistorica e tribale e, come in questo libro, la letteratura come traccia di comportamenti geografici “universali”.

 

Il punto e l’idea è sostituire a un’epistemologia cartografica un’epistemologia paesaggistica, attraverso un itinerario in tre fasi: viaggio (nello spazio ordinario), inchiesta (scientifico-enciclopedica), ritrovamento (del luogo risolutore, il sito del rovescio, la siepe leopardiana). In questo luogo s’innesca un immaginario della materia (Bachelard) che è mappatura dell’altrove. Ma a che cosa serve? Per immaginare luoghi di fuga? Si tratta forse di escapismo (Tolkien)? Bisogna coltivare aree di dubbio per suscitare una credenza (Ginzburg)? No. Lo scopo è desumere dall’immaginario della materia dei modelli inferenziali per pensare/mappare l’adesso-qui. Una grammatica immaginativa delle forme paesaggistiche, esplorando la Terra come un immenso archivio naturale del pensiero possibile. Le prime immagini prodotte dall’uomo erano segni polisemici, non soggetti figurativi. Si tratta allora di desumere dal corpo terrestre degli schemi interpretativi applicabili ad altri aspetti della realtà: dal paesaggio vissuto al pensiero agito.

 

 

Questo libro propone allora sei doppie esplorazioni, doppie perché oltre a rappresentare l’esplorazione di luoghi più o meno reali (l’Atlantico settentrionale, l’Europa medievale, il Nuovo Mondo, la Liguria, l’India, la Bretagna), rappresentano altrettanti modi (distinti e complementari) che ha il pensiero umano per “addomesticare” lo spazio, sono tattiche cognitive universali che l’uomo può adottare per capire un altrove e un qui (periplo, lontananza, cabotaggio, sinestesia, esotismo, ricognizione). Tutte queste tattiche di orientamento (spaziale, cognitivo, psicologico, emozionale) vengono sviluppate da Homo geographicus quando si trova sul bordo vuoto della mappa, quando si affaccia sul vuoto, quando arriva a un non-oltre e deve sforzarsi di capire come procedere nell’esplorazione. Qui, partendo dal presupposto che il testo è un sistema di macchie di crescita, è un wordscape che funziona da interfaccia tra landscape e mindscape, è il luogo privilegiato dove accade la traduzione del paesaggio in ragionamento e del ragionamento in paesaggio, i sei testi analizzati possono essere visti come altrettanti “regionamenti”, delle regioni reali e verbali in cui l’altrove viene esperito, pensato, addomesticato, e in cui paesaggio e pensiero cercano un piano omologo per specchiarsi l’uno nell’altro. In questo senso l’operazione critica proposta in questo libro non è quella di un geografo tradizionale che si preoccupa di fare analisi di paesaggio a partire da fonti indirette, ma è il tentativo di riconoscere, isolare e discutere sei strategie dell’immaginario umano che sono alla base dei comportamenti universali di Homo geographicus.

 

La lezione che si ricava dai singoli testi, più che dire qualcosa sui testi stessi, è infatti illustrativa di modalità cognitive transculturali e transtemporali. La Navigatio Sancti Brendani potrebbe essere sostituita con il Buile Suhibne o il Shan Hai Jing, e riconosceremmo comunque il modello cognitivo del periplo asintotico. L’India di Pasolini, il Nord America di Vollmann, la Martinica di Chamoiseau o le Antille di Walcott, pur nelle enormi differenze paesaggistiche, hanno in comune lo spostamento straniante e riaddomesticante dello sguardo sui paesaggi naturali e umani. Il desiderio di appaesamento che muove Cartier in Canada non è diverso, in essenza, da quello di Matteo Ricci in Descrizione della Cina o nel Landnámabók islandese. E così via. Se vogliamo riportare la geografia alla sua vocazione essenziale, l’agenda del ricercatore-esploratore ha oggi un solo ineludibile punto fermo: studiare l’immaginario spaziale nella sua doppia articolazione, espressiva e cognitiva. Questo non ci dirà che siamo stati esploratori ieri, nella notte dei tempi, ma ci dirà come esploreremo domani, nonostante la Terra sia divenuta un luogo dagli orizzonti ridotti, un paesaggio di paesaggi del disincanto e del guasto.

 

L’immagine di copertina è di Tullio Pericoli.

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Per un nuovo immaginario terrestre
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La mente inquieta che regala tanta bellezza

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La storia dell’arte, dell’architettura, della musica è stata insegnata sino a pochi anni fa per personalità oltre che per opere e solo dagli anni Settanta del Novecento l’attenzione degli addetti ai lavori si è posata sulla forma delle mostre che, in alcuni casi, hanno portato scompiglio nelle nozioni ordinate della nostra formazione scolastica. Mostre che indubbiamente hanno cambiato il rapporto tra pubblico e cultura, tra pubblico e museo, mostre che a volte guardano più a obiettivi turistici e commerciali, ma che comunque avvicinano l’arte al grande pubblico. A fianco di esse vi è il catalogo che aiuta a ricordare l’esperienza estetica vissuta osservando, molto spesso, per la prima volta opere che escono dai musei più importanti del mondo e dalle più prestigiose collezioni private.

 

Mostre che raccolgono opere di autori più o meno sconosciuti attraverso, a volte, percorsi eccentrici, ma non per questo meno interessanti. Per diversi decenni sono state le esposizioni, molto più degli studi accademici e specialistici, la forza propulsiva della cultura artistica. Questo fenomeno è spiegato molto bene da Anna Ottani Cavina in Una panchina a Manhattan (2019), che da storica dell’arte internazionale raccoglie nel volume le recensioni delle mostre da lei visitate nel corso della sua attività da studiosa. Anna Ottani Cavina afferma che le esposizioni sono state “vettori di molte idee di lunga durata” il che, nel tempo attuale del visual e digital non è un fatto di poco conto. La mostra What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento a cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni si situa in questo filone di pensiero, di storia e di critica. Non è una mostra collettiva come suggerisce la grafica, che trae in inganno riportando alcuni dei nomi degli artisti e delle opere presenti in mostra. Il visitatore si chiede, infatti, perché quelli e non altri suggerendo una chiave interpretativa distraente dall’impostazione generale del tema, tema molto difficile e complesso perché trasversale a tutte le arti e alla cultura: quello dell’ornamento. 

 

La mostra, che è divisa in diverse sezioni che attraverseremo, seppur velocemente, per evidenziare la profonda riflessione dei curatori e soprattutto con la speranza di dare una guida utile al lettore, inizia con un invito: Come ti senti oggi? Scegli il percorso in linea con il tuo stato d’animo

Proprio di fronte a questo invito è riportata la frase di Leonardo da Vinci che recita: Luce, tenebre, colore, corpo, figura, sito, rimozione, propinquità, moto e quiete; le quali sono dieci ornamenti della natura (1540?). Questi due binari di lettura della mostra aprono immediatamente un grande interrogativo che cronologicamente i curatori cercano di districare con sapienza, competenza e attenzione negli innumerevoli percorsi della storia dell’arte e della percezione. Già, ma cos’è la decorazione? Che rapporto ha con l’ornamento del corpo, dell’ambiente in cui l’uomo, non solamente moderno, vive o ha vissuto? Ovviamente, sia Leonardo che i curatori non forniscono una risposta univoca. Esse, così come le diverse risposte di artisti, teorici, architetti e designer delineano una storia intrigante, affascinante e a tratti bellissima dell’ornamento. Gli stessi storici dell’arte si avvalgono degli studi di antropologi, filosofi, scienziati per delineare una risposta coerente o quanto meno plausibile.

 

Già dalla prima sezione, dal titolo Natura Ornata, si evince che la Natura ha un ruolo fondamentale nella storia della decorazione: essa appare infatti all’uomo, sia nelle sue forme organiche sia in quelle inorganiche come il luogo della decorazione. Il mondo animale, ad esempio ci offre esempi innumerevoli, alcuni dei quali estremamente appariscenti come i pavoni, le farfalle o il fagiano argo.

 

Fagiano argo, Musei Civici, Reggio Emilia.


 Aspetti su cui Charles Darwin si sofferma lungamente con un linguaggio degno di uno storico dell’arte, piuttosto che quello di un biologo e naturalista: “belle tinte”, “squisite forme”, “raffinata bellezza”, “grande perfezione”. Ma la domanda, prima di tutte le altre, è: perché l’uomo ha inventato la decorazione, e soprattutto perché vede l’ornamento nella natura? Le varie teorie degli antropologi, degli scienziati e dei biologi ci riportano all’evoluzione del cervello e quindi della mente umana. Perché l’uomo ha sentito la necessità di decorare le pareti delle caverne, dei primi contenitori per il cibo, del proprio corpo con monili, ma anche con tatuaggi? Le teorie sono diverse e affascinanti: dallo sviluppo fisico del corpo, in particolare del pollice opponibile che diventa lo strumento di lavoro principe dell’ominide che a sua volta ha determinato il potente sviluppo del cervello e quindi della mente a scoprire il mondo, a progettare, a pensare prima del fare, di realizzare ciò di cui l’uomo ha bisogno per la sopravvivenza. Gli scienziati affermano che già 3,2 milioni di anni fa l’uomo era dotato del pollice opponibile come documenta M. Skinner, paleoantropologo dell’Università del Kent (GB). Grazie a questa possibilità l’Homo Erectus impara a cuocere i cibi, questa pratica consente di ricavare più calorie dalle sostanze consumate e di diminuire, di conseguenza, le ore dedicate all'alimentazione. Furono così superate le limitazioni metaboliche che negli altri primati non hanno permesso uno sviluppo del numero di neuroni e delle dimensioni del cervello proporzionale alle dimensioni corporee. Inoltre si avvia il processo di sviluppo della corteccia prefrontale che è una delle aree più interessanti e decisive per comprendere il pensiero astratto. Si sviluppa così la mente, termine con cui gli scienziati indicano una delle funzioni superiori del cervello, insieme alla nascita del linguaggio, un fenomeno tutt’altro che semplice e uniforme, considerato la guida dei pensieri e delle azioni in relazione agli obiettivi e agli aspetti di adattamento dell’uomo (E. Cassirer, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana, Armando editore, 2004). La mente, però, è una mente inquieta che abbraccia la modalità del fare, che continuamente pensa, immagina, lavora, cerca soluzioni, si proietta all’esterno e inventa. È in quest’epoca che l’uomo inizia a decorare le pareti delle grotte, le ciotole e non di meno il proprio corpo. È forse un tentativo per trovare una soluzione apotropaica, spirituale, animistica per sopravvivere all’ignoto, alla paura della morte, per ingraziarsi gli spiriti?

 

Non solo. Scrive George David Haskell in Il canto degli alberi: Storie dei grandi connettori naturali (Einaudi, 2018): "Intorno al fuoco l’immaginazione [dell’uomo del Neolitico] prende il volo e si raccontano storie. Si parla dei legami e dei litigi all’interno delle reti sociali, di matrimonio, di famiglia, dello spirito del mondo. La fiamma sembra rinforzare la comunità umana, legandone più strettamente i fili. Le nostre menti, a quanto pare, sono particolarmente ben sintonizzate con il suono del fuoco. Nel laboratorio di psicologia, la pressione sanguigna dei soggetti sotto esame si abbassa, e la loro socialità aumenta quando viene fatto loro ascoltare il suono del fuoco crepitante. Invece, la vista di un fuoco silenzioso non genera alcun effetto.” Dal Paleolitico superiore, circa 17.500 anni fa, abbiamo un esempio eclatante: più di 6.000 immagini di animali, figure umane e segni astratti (decorazioni?) delle grotte di Lascaux. Un esempio tra i tanti, come è possibile osservare anche in mostra. 

Se i presupposti per lo studio dell’ornamento partono da queste basi, dalla storia dell’uomo, dalla storia della sua mente, l’argomento si fa ancora più interessante e per certi aspetti controverso. La domanda che pone la mostra è: la natura è ornata o è la mente dell’uomo che trova percorsi ideali per guidare la propria mente e attivare un processo di mimési, dove potersi riconoscere? È una storia fascinosa che ha attraversato la storia dell’arte e quindi dell’ornamento. La mostra propone nella prima sezione uccelli imbalsamati, disegni, incisioni, tempere per giungere alla pietra paesina. Un altro esempio calzante di come la mente dell’uomo vede ciò che non esiste e attraverso semplicemente la “nomina” di quell’oggetto, una pratica antica quanto l’uomo stesso, lo possiede, addomestica il mondo, come ha ben spiegato Ernst Cassirer nel suo saggio già citato. In ambito prettamente artistico Massimiliano Gioni nella 55 Esposizione Internazionale d’Arte dal titolo Il Palazzo Enciclopedico, del 2013, una mostra sulla conoscenza, sul desiderio di sapere, dimostra questa tesi esponendo la collezione di pietre di Roger Caillois: scaglie d’agata, quarzi, ametiste che vengono titolati: Corona di Cristo, Occhio blu, Il piccolo fantasma ecc. Esse perdono la loro vera identità di pietre per assumerne un’altra, quella assegnata dal collezionista, dall’uomo, per affermare un’idea davvero suggestiva e cioè che anche la natura crea immagini, opere d’arte. Régis Debray nel saggio Vita e morte dell’immagine (Il Castoro, 1998) si chiede: “Perché vi è immagine piuttosto che niente?” Gli risponde Hans Belting nel suo saggio Antropologia delle immagini (Carocci, 2013) dove afferma che l’uomo è probabilmente l’unico essere vivente non solo a produrre immagini, ma è l’unico a dar loro vita. La sua mente, e con essa il suo corpo, è popolata da rappresentazioni proiettate all’esterno. 

 

Addentrandosi nella seconda sezione, Il corpo decorato, vengono analizzati vari tipi di interventi estetici sul corpo che variano a seconda del tempo e delle mode ma, come sostiene lo studioso viennese Alois Riegl, hanno un obiettivo primario: la ricerca di un’idea di bellezza. Un’attenzione speciale, proprio in merito anche alla lunga premessa, è riservata al corpo, alla pelle: a volte viene dipinta, tatuata a volte scolpita, scarnificata. Nelle varietà infinita di interventi sul corpo e per il corpo che i curatori illustrano con alcune pregevoli opere e documenti, propongono l’affiancamento di un’opera contemporanea di Claudio Parmigiani dal titolo Deiscrizione del 1972 che rappresenta uno scriba il cui corpo è ricoperto di ideogrammi misteriosi, un’opera di grande forza evocativa, che inaugura il dialogo incessante tra opere d’arte del passato e contemporanee, che accompagna il percorso della mostra.

 

Malcolm Kirk, Samo tribesman, Sokabi village, Western Province, 1978 © Malcom Kirk and the Metropolitan Museum of Art, New York.


La sezione Il fascino della vegetazione riprende di nuovo il dialogo con la natura che, ci spiega Ernest Gombrich in Il senso dell’ordine (Phaidon, 2010) “offre un campo d’azione in tutte le attività fondamentali [dell’artista] come “inquadrare, riempire, connettere” raggiungendo nella storia esempi oltre che interessanti anche di notevole bellezza. I capitelli d’epoca greca, poi romana, la ceramica, le legature, le cornici, le miniature, i paramenti sacri, fino a giungere alle moderne carte da parati di William Morris. Un percorso che viene declinato in innumerevoli modi, anche sofisticati, come ci illustra la sezione L’incanto dell’astrazione: intrecci, incroci e nodi dove Leonardo da Vinci e Dürer mettono in campo tutta la loro bravura senza mai perdere di vista il disegno, la forma, l’armonia, ma trasformando questo esercizio in una prova della capacità della mente di sapersi districare lungo un percorso abilmente tracciato. 

 

Noce di cocco, gusci intagliati, dalla collezione di Lazzaro Spallanzani, seconda metà del XVIII sec., Reggio Emilia, Musei Civici © foto Carlo Vannini.

 

Disegno di Leonardo da Vinci, Nodo vinciano, incisione, 1497-1500, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Pinacoteca.

 


Non poteva mancare La scrittura come ornamento, sezione della mostra che si apre con una frase di Walter Benjamin: “Non c’è palazzo reale, né cottage di miliardario che abbiano provato un millesimo di quell’amore per la decorazione che è stato rivolto alle lettere dell’alfabeto nel corso della storia della cultura, per il piacere del bello e per onorarle al tempo stesso.” È possibile ammirare Liber figurarum di Gioacchino da Fiore poco distante da Women of Allah di Shirin Neshat (1957) e da Avere fame di vento di Alighiero Boetti (1988-89), facendo scaturire uno scatto percettivo interessante oltre che inedito.

 

Shirin Neshat, Women of Allah, 1994, Milano, Collezione Consolandi © Shirin Neshat.


Si giunge poi ad una cesura, alla fine di una utopia ornamentale che con l’Art Decò aveva invaso le abitazioni, rinnovando lo stile di ogni cosa, anche degli oggetti quotidiani. È l’architetto Adolf Loos nel suo saggio Ornamento e delitto (1908, tra. It. in Parole nel vuoto, Adelphi, 1972) in cui l’autore afferma che ornare le case, gli oggetti è un’azione diretta contro i principi morali di una civiltà, se si considerano gli aspetti sensuali, voluttuosi o persino erotici dell’arte della decorazione. Così facendo Loos apre nuove ere dove i razionalismi e i funzionalismi troveranno solide basi teoriche. Ma la lezione dell’architetto austriaco non è puntualmente seguita dalle avanguardie, così come analizza la sezione Le avanguardie artistiche: il ritorno al “rimosso”. Picasso, Braque, ma anche Malevič e Mondrian nel cercare la forma pura diventano “decorativi”. 

 

Tocca a Matisse che con la sua immaginazione, la sua mente libera, va oltre i dettami moralistici di Loos, giungendo a disgregare lo spazio razionale dell’occidente ispirandosi all’arte nord africana e introducendo nel suo linguaggio fluidità, musicalità e non trame narrative. Matisse ibridando le sue fonti visive supera la rappresentazione naturalistica restituendoci il percorso della sua mente, verso l’astrattismo. In mostra è proposto uno splendido esemplare del libro d’artista Jazz del 1947. 

 

Henri Matisse, Jazz (VIII Icaro), 1947 Paris, Tériade, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

 

Le suggestioni di questa mostra sono moltissime e ben documentate dai densi saggi dei curatori e dal Vocabolario, le cui voci sono compilate da storici dell’arte, da psicoanalisti, da scienziati, da letterati, da architetti che nel compilare il lemma suggerisco altri punti di vista dell’ornato. Il catalogo si pone quindi come un punto di arrivo, e certamente un punto di partenza, per lo studio dell’ornato grazie anche all’apparato della bibliografia generale.

 

Un’altra lodevole particolarità di questa mostra è quella di aver fatto dialogare opere d’arte, oggetti e documenti provenienti dalle collezioni locali, non sempre facilmente visibili, con opere provenienti da musei internazionali, oltre che aver valorizzato fatti artistici strettamente locali proiettandoli in un quadro più generale, ampio e complesso. È il caso della sezione dedicata all’esperienza della psichiatra Maria Bertolani Del Rio che fra il 1928 e il 1935 utilizza le decorazioni romaniche di epoca matildica per recuperare quello che rimane delle abilità dei bambini con disabilità intellettiva, dimostrando come il lento, ma preciso lavoro di ricamo e di decorazione su oggetti quali ceramiche e stoviglie, possa guidare e quindi recuperare la mente. Un esperimento che ha fatto storia, anche quella dell’ornamento. 

La mostra prosegue ai chiostri di san Pietro con l’esposizione di opere contemporanee che ci conducono fino ai giorni nostri. Una mostra, in conclusione che traccia le linee generali, metodologiche dello studio fenomenologico trascurando volutamente alcuni temi come la street art ma che è degnamente rappresentata da uno dei suoi più importanti esponenti: Keith Haring. La mente, quindi, non ha confini, la città, le metropoli diventano una scena urbana dove potersi esprimere senza limitazioni. La storia dell’ornamento è quindi anche la storia della mente inquieta, che regala tanta bellezza. 

 

(Un ringraziamento particolare a Marco Tamelli)

 

What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento. A cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni. Palazzo Magnani – Chiostri di San Pietro, 16 novembre-8 marzo 2010

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Recensione (con divagazioni) a Silvia Ferrara. La grande invenzione

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Philip Roth in Operazione Shylock racconta così il modo in cui a scuola ha scoperto l'alfabeto: «le ventisei coppie asimmetriche suggerivano a un intelligente bambino di cinque anni ogni dualità e corrispondenza che una piccola mente potesse concepire»; «la processione che marciava immobilmente verso la porta dell'aula scolastica costituì una pesca miracolosa associativa di inesauribili proporzioni». Nella forma espositiva didattica e disciplinata che le coppie di lettere assumono sulla lavagna (Aa Bb Cc …) «il fregio dell'alfabeto» appare simile a «figure di profilo, nel modo in cui gli scultori di bassorilievi di Ninive rappresentarono nel 1000 a.C. la caccia reale al leone».

Non è l'unico passo dell'opera di Roth che associa le proprietà pittoriche e la magia ricombinatoria della scrittura alla gioia pura; la forza che deriva dal padroneggiamento del linguaggio è un «piacere corroborante», tale da «espandere così dinamicamente i limiti della coscienza». Non posso omettere come nel passo citato del romanzo compaia una sola, successiva, scoperta capace di competere in forza con la scrittura: il sesso, che per Roth coincide con la fine dell'infanzia.

 

Ho associato istantaneamente questo passo a un saggio recente che con una notevole forma narrativa si concentra proprio sulla magia delle lettere scritte e del suo rapporto di amore con la vita: «la magia sta nell'entrare nella testa di qualcuno che non è lì con voi, che non vi sta parlando, che non vi risponde». A scrivere è Silvia Ferrara, studiosa di lingue antiche e di scritture indecifrate, in La grande invenzione (Feltrinelli 2019): «è una magia imperfetta, perché la comprensione non è istantanea, va interrogata, e c'è margine di errore. Ma è in quel ponderare, in quel “pensarci su” che sta tutta la sua perfezione», continua l'autrice.

 

Il libro di Ferrara regala scoperte intelligenti a ogni pagina ed è in grado di illuminare in modo festoso aspetti culturali e cognitivi di estremo interesse per qualsiasi lettore.

La grande invenzione, come recita il suo sottotitolo, è una Storia del mondo in nove scritture misteriose che colpisce l'immaginazione innanzitutto perché è scritta con lo stile sperimentale e magnetico di una lingua parlata. In estrema sintesi: c'era una volta una bambina affascinata dall'alfabeto e dalle lingue antiche che oggi insegna Filologia e civiltà egee all'università di Bologna e coordina il progetto INSCRIBE (Invention of Scripts and their Beginnings). Un gruppo di ricerca finanziato dall'European Research Council che svolge indagini sull'invenzione della scrittura con metodi di analisi interdisciplinare (linguistica, archeologia, percezione visiva e studi cognitivi, Digital Humanities) per capire «quante volte la scrittura sia stata inventata nella storia del mondo» in un'ottica di cooperazione e di convergenza di intenti tra studiosi. L'esperta di una disciplina tecnica e accademica abbandona qui le regole del gioco della pubblicistica disciplinare universitaria per spiegare in modo brillante e in termini concreti qual è il suo lavoro di ricercatrice e di insegnante. Ci mostra una serie di problemi in un settore che, lungi da essere arcaico, polveroso e noioso, si rivela essere una caleidoscopica Wunderkammer di questioni che chiamano in causa storia, archeologia, antropologia, scienza cognitiva e psicologia evoluzionistica. 

 

 

Il libro in particolare si concentra sulle scritture sconosciute e indecifrate come le quattro dell'area egea (il geroglifico cretese, la lineare A e il cipro-minoico, il disco di Festo), il proto-elamita, la scrittura della valle dell'Indo, quella mesoamericana precedente la scrittura maya, il khipu degli inca (un sistema di nodi fitti e su fili di colori diversi), il rongorongo dell'Isola di Pasqua... C'è poi la storia di scritture e alfabeti noti,  i geroglifici egizi naturalmente, il cuneiforme, così come gli ideogrammi cinesi e la loro evoluzione; ognuno è riportato con naturalezza nella sua rotonda bellezza al contesto del suo uso, diffusione, circolazione, in/decifrazione e di ognuno con disarmante franchezza sono sintetizzati la storia del dibattito, le teorie rivali e lo sviluppo della ricerca nel tempo (il che da solo basterebbe a farne un affascinante romanzo accademico).

 

Ferrara si muove nello spazio geografico in chiave di storia globale della “preistoria” (un termine che non so più cosa voglia dire) e descrive le rune scandinave così come il tifnagh berbero tuareg; dipana il suo discorso lungo l'asse del tempo per presentarci invenzioni individuali come l'alfabeto cherokee (inventato per la preservazione della lingua nativo-americana) e la scrittura pahawh ming (siamo tra Vietnam e Laos a metà del Novecento) o i segni delle tante scritture private e misteriose (il codice segreto di Ildegarda di Bingen e il celebre manoscritto Voynich ad esempio). L'equilibrio punteggiato della scrittura è dunque al centro di un incantevole racconto incardinato nelle tante singole esperienze, di cui ha poco senso dare qui una sintesi, oltre che per l'incompetenza di chi scrive anche per non togliere a nessuno il piacere della scoperta.

 

 

Più interessante per me è far notare come l'autrice spieghi con semplicità questioni di grande complessità e mobiliti punti di vista inconsueti, e tali perché abitualmente dati per scontati e naturalizzati nel paesaggio cognitivo. Si muove esibendo lo scarto tra linguaggio, lingua e scrittura e mostra come nascono, si affermano o si insabbiano le scritture a partire dalle loro caratteristiche (iconicità, sillabacità, sintassi) e all'interno delle società che se ne servono nelle loro tecniche culturali (ripetizione, ridondanza, proliferazione). Utilizzando il caso delle scritture nella storia, Ferrara sintetizza la logica dell'invenzione e le riconnette non tanto alle finalità evolutive di una prospettiva teleologica quanto all'adattamento progressivo e all'adozione di differenti strategie di organizzazione e comunicazione del dato percettivo e mnestico legato a funzioni e esigenze differenti.

 

Liberate dal monistico, deterministico e necessario legame unico con le strutture sociali, politiche ed economiche che le esprimono le scritture possono così brillare nella loro dimensione creativa, spontanea e naturale nei diversi contesti in cui sono utilizzate e si sono trasformate nell'arco di secoli o millenni. In un dialogo serrato e molto operativo, la discussione del nesso tra genesi della scrittura e della statualità chiama in causa e discute le teorie antropologiche sintetizzate e rese note da Jarred Diamond e Juval Harari (e mi ha ricordato anche la riflessione di David Graeber). Come mostrano i diversi casi citati il punto essenziale è come la scrittura, il cui successo storico è anche correlato alla sua adozione politica da parte delle realtà statuali e dalle culture di palazzo, sia in ogni caso eccedente e indipendente rispetto a queste e da riportare primariamente ai tanti fatti sociali che implicano il portare all'esterno una serie complessa di dati espressivi.

 

Questo è soprattutto un libro sulla meraviglia e sulla difficoltà della scoperta, sul piacere e sulla fatica della ricerca scientifica, sul confronto tra teorie e su uomini e donne che sognano di notte il loro lavoro e che è anche una forma di vita, come nella storia della decifrazione della lineare B: il racconto di Alice Kober e Michael Ventris che “dialogano” dai due lati dell'Atlantico è pura poesia. Il decalogo sulla decifrazione delle scritture proposto dall'autrice è, nella sua ironica comicità, un manifesto di onestà intellettuale e umana di rara efficacia.

 

 

Ferrara porta il lettore su temi di fronte ai quali le regole del campo accademico suggeriscono abitualmente di fermarsi. Temi trasversali, universali e generalisti di tale portata di cui il cultore medio di scienze umane o storiche – educato all'autocensura e al conformismo – si trova a dover parlare quasi di nascosto con pochi sodali dello stesso segmento generazionale, in coda a qualche evento destinato ad altri argomenti iper-specializzati e con il rischio di sembrare strambo. Trovano infatti posto considerazioni di tipo neuroscientifico in chiave di Deep history, sul rapporto tra substantia nigra, ipotalamo e amigdala e sul ruolo che possono aver avuto nella poligenesi della spinta antropogenetica alla figurazione e alla scrittura. A dimostrare come le discipline archeologiche siano oggi un'avanguardia nell'interdisciplinarità in un contesto come quello italiano in cui le “due culture”, umanistica e scientifica, sono cresciute separate e rimaste fino a anni recentissimi poco comunicanti.

 

L'invenzione della scritturaè prima di tutto un discorso aperto e appassionato sul significato emotivo che ha avuto il lasciare segni sulle pareti di una grotta paleolitica e, per estensione, farlo oggi su uno dei tanti dispositivi tecnologici tardomoderni. Si tratta di registrare le declinazioni private di simboli condivisi di una intenzionalità collettiva, come ci ha mostrato la contemporanea filosofia della scrittura (penso, ad esempio alle opere di Maurizio Ferraris).

 

Lettere vive, scrive Ferrara, che parlano di essere ricordati, oltre il tempo e l'intenzione immediata. A rischio di prendere una divagazione personale, rischiosa e senza ringhiera, vorrei sottolineare la pregnanza di questa prospettiva nella contemporanea scienza della cultura. Carlo Ginzburg (in Storia notturna) ha definito semiofori quegli «oggetti portatori di significato» i quali «hanno la prerogativa di mettere in comunicazione il visibile con l’invisibile», eventi o persone lontani nello spazio e nel tempo». Così Sapiens userebbe le ossa degli animali uccisi e l’ocra per le sepolture per designare l’assenza, attuando una capacità simbolica di origine biologica. Mettere in comunicazione visibile e invisibile e garantire la continuità culturale dell'eredità della specie oltre la morte individuale sono le funzioni che fondano ogni ulteriore discorso su memoria e immortalità. Thomas Macho (in Morte e lutto nel confronto tra le culture) ha ipotizzato come la storia della rappresentazione inizi con quella della gestione della memoria dei morti e della manipolazione dei corpi e ha visto come la «materialità di ossa e immagini» sia stata «traslata» in quella grafica delle lettere: «la svalutazione delle immagini nel culto mortuario greco ed ebraico cominciò non da ultimo con l'affermarsi dell'alfabeto scritto; [...] furono le iscrizioni sugli ossari o pietre tombali ad assumere la funzione della rappresentazione del defunto». Fino a suggerire che se la progressiva ossificazione della materia organica è parallela alla stilizzazione della memoria nel tempo, in modo analogo la corrispettiva dimensione grafica procede nella direzione della semplificazione che dall'iconicità va verso la forma agile delle lettere e del loro valore fonetico.

 

 

Tornando al dettato del testo, è vertiginoso pensare come la scrittura sia nella storia evolutiva una recentissima e imprevista invenzione verso la quale altre attitudini biologiche sono state riconvertite: in una vera e propria riconfigurazione cognitiva «i nostri neuroni hanno imparato a riciclare parti preposte a captare altro e le hanno usate per captare i segni. Le aree programmate per riconoscere forme e contorni degli oggetti sono state riutilizzate per distinguere le forme dei segni» (Ferrara).

 

Lettere e vita, dunque, all'interno di un rapporto nel quale l'invenzione della scrittura si pone come plesso storico tra la natura e la cultura e produce nuova storia. Nel passo del romanzo con cui ho voluto aprire questo articolo l'incontro del bambino con la scrittura alfabetica – che poi diventerà così familiare da diventare scontata – dischiude il mondo sotto altra luce a chi la scopre, perché ne riorganizza e reindirizza l'esistenza, lo fa culturalmente diventando una nuova natura. Continua Roth, stringendo il giunto tra scrittura e persona nella storia individuale: «tutto quello che ho per difendermi è l'alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile».

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Vivere con gli dei. Il peso politico della religione

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Alla fine del secolo scorso ben pochi avrebbero scommesso che le religioni avrebbero mai più avuto un peso politico di rilievo, che avrebbero influenzato l'assetto politico del mondo o che si sarebbero riaccesi i fuochi sopiti di conflitti religiosi tanto antichi da essere ormai dimenticati. L'evidente secolarizzazione dell'Europa, sempre più diffusa e inarrestabile, ci induceva a pensare – con un atteggiamento che fino a non molto tempo fa avremmo definito arroganza culturale e che ora, invece, più appropriatamente dobbiamo chiamare provincialismo culturale – che, essendo ormai pari a zero il peso politico delle religioni nel nostro continente, ciò significasse la sua fine per sempre e ovunque. Come succede spesso, la Storia ci ha sorpresi e dobbiamo ammettere di esserci sbagliati. Infatti, in diverse parti del mondo compresa l'indifferente Europa, sorgono scontri, guerre e ostilità in cui diversi gruppi identitari nazionali e culturali sbandierano i vessilli delle religioni tradizionali per rianimarsi e radunare persone che in quei simboli, in qualche modo, si riconoscono. Come mai sta accadendo? E davvero non era immaginabile?

Neil MacGregor, direttore dal 1987 al 2002 della National Gallery di Londra e dal 2002 al 2015 del British Museum, attualmente direttore dell'Humboldt Forum di Berlino, e autore del saggio Vivere con gli dei (Adelphi) sostiene che avremmo potuto immaginarlo, perché il riapparire sulla scena politica mondiale delle religioni organizzate e delle politiche identitarie a loro associate è "solo un ritorno al precedente modello delle società umane". È sempre stato così, lo è ancora oggi e, nonostante tutto, la religione – qualunque religione – non è il male assoluto.

 

Partendo da questa premessa forte l'autore spiega la sua tesi e lo fa iniziando dalle prime testimonianze di religiosità, all'alba dei tempi, per giungere fino ai giorni nostri e alle forme di religione secolarizzata del Novecento come i nazionalismi, l'ateismo di Stato o l'adorazione di un leader. Il percorso, lungo e affascinante, procede attraverso l'osservazione e l'interpretazione di oggetti, luoghi di culto, immagini sacre che, in una successione cronologica e in diversi contesti culturali, raccontano come, sin dalle più remote origini dell'umanità e nei più diversi luoghi della Terra, i gruppi umani abbiano osservato e interpretato il mondo e il proprio ruolo in esso – da vivi e da morti – e come, attorno a tali narrazioni, abbiano costruito forme sempre più complesse di convivenza. Che si tratti di fede, di ideologia o di religione, le credenze e i presupposti che "trascendono la vita dei singoli individui e sono parte di un'identità condivisa" definiscono i rapporti, stabiliscono le regole, informano i comportamenti, pongono i limiti. Permettono, insomma, di vivere e lavorare insieme, anche in gran numero. Prima di essere l'oppio dei popoli, secondo la famosissima espressione di Karl Marx (cfr. Critica della filosofia del diritto di Hegel), la religione è stata il collante dei popoli; e proprio da questo punto di vista vuole raccontarla Neil MacGregor. 

 

Sin dall'era glaciale società o, meglio, gruppi d'individui che dobbiamo pensare piuttosto ridotti e con scarsi mezzi, hanno dedicato enormi risorse alla realizzazione di oggetti usati nei riti e nella costruzione di luoghi in cui riunirsi per celebrare insieme. Tra i tanti reperti che lo testimoniano MacGregor sceglie una straordinaria figura d'uomo con testa di leone, chiamata Uomo-Leone, alta circa trenta centimetri, finemente scolpita in avorio di mammut, databile attorno a quarantamila anni fa e ritrovata nei pressi di Ulm, nel sud-ovest della Germania. Perché privarsi di una risorsa preziosa e in più sobbarcarsi il peso di una bocca improduttiva per permetterle di dedicarsi alla creazione, veramente impegnativa in termini di tempo e abilità visti gli strumenti che poteva usare, di un oggetto del tutto inutile? Tra i luoghi, oltre al notissimo Stonhenge, MacGregor cita un sito irlandese ancora più antico, precedente alle piramidi egiziane, Newgrange, a una cinquantina di chilometri da Dublino (inciso personale: io l'ho visitato molti anni fa ed è bellissimo!), dove si trova una grande struttura in pietra – una tomba circolare cui si accede attraverso un lungo e stretto corridoio di grandi megaliti – orientata in modo tale che alle 8,58 del mattino del Solstizio d'inverno un raggio di sole entra, ne colpisce il centro e la illumina. Questa "enorme struttura di pietra", nota MacGregor, "ideata, orientata e costruita per quei diciassette ineffabili minuti" in cui la luce del sole entra e rimane quasi a riportare vita ai morti, rappresenta una grande impresa architettonica che ha richiesto non solo grande maestria e innumerevoli osservazioni, ma anche "l'investimento di risorse fondamentali in vista di un futuro beneficio esistenziale e non materiale". Come questo molti altri luoghi sulla Terra testimoniano il ruolo fondamentale dei culti nello sviluppe e nell'organizzazione delle società preistoriche.  

 

L'interesse dell'autore di Vivere con gli dei non ha per oggetto la fede dei singoli né la loro spiritualità, le dottrine o la teologia, ma le pratiche religiose, "ciò che intere società credono e fanno". Cerimonie, luoghi di culto, oggetti sacri usati dai fedeli dei quattro continenti raccontano la loro esperienza del mondo e quale ritenevano fosse il loro posto in esso; le credenze e le pratiche condivise formano, confermano e rafforzano identità e appartenenze. In tal senso è indubbio che la religione abbia avuto una funzione politica e sociale. Potrebbe addirittura esserci lei all'origine anche della prima e più fondamentale svolta della civiltà umana, la rivoluzione agricola, avvenuta circa dodicimila anni fa. L'ipotesi, fondata e ben documentata da recenti scoperte archeologiche, è proposta dall'archeologo tedesco Klaus Schmidt, cui si devono la scoperta e gli scavi, dal 1994, del sito di Göbekli Tepe, collina panciuta, odierna Sanliurfa, nella Turchia sud-orientale, vicino al confine con la Siria, recentemente aperto al pubblico. Si tratta del sito più importante e antico nella storia degli edifici di culto, testimonianza che dodicimila anni fa "un'intera società di cacciatori-raccoglitori unì le forze per costruire un colossale monumento di pietra": 200 colonne alte fino a 6 metri con bassorilievi di animali come leoni, avvoltoi e serpenti disposte in cerchio.

 

 

Seimila anni prima di Stonhenge e diecimila prima della piramide di Giza, molti esseri umani hanno dovuto lavorare e organizzarsi per costruire un luogo immenso in cui riunirsi per celebrare insieme. È possibile, ritengono gli studiosi, che, contrariamente a quanto si è creduto a lungo, la sedentarizzazione e l'agricoltura non occasionale ma sistemica, sia stata una conseguenza della necessità di alimentare un grande numero di persone adibite a un lavoro e impossibilitate, perciò, a procurarsi cibo da sole cacciando. Ed è probabile anche che Göbekli Tepe sia stato il prodromo della civiltà urbana apparsa nei millenni successivi nelle zone limitrofe della Mesopotamia. "In altre parole, conclude Mac Gregor, prima di vivere vicini gli uni agli altri, abbiamo vissuto con gli dei."

 

Demolire un tempio è molto più grave di un atto di profanazione, è un attacco alla comunità cui quel tempio appartiene. La rappresentazione pubblica e ritualizzata della vita spirituale, in cui ognuno è spettatore e attore, dimensione fondamentale in tutte le religioni, crea coesione spirituale e sociale; la fede assume una dimensione pubblica nella quale "l'aspetto politico e quello religioso sono intrecciati in modo stretto. Negli edifici sacri e negli atti rituali di offerta e di sacrificio le società esprimono la loro visione del corretto ordine delle cose del mondo." E alla dimensione sociale appartiene la festa, che avvicina tra loro gli uomini nella gioia e li unisce agli dei, perché non solo si vive ma anche si festeggia insieme a loro, e a tutte le generazioni, passate e future. La festa è un collante straordinario, ed è formidabile la sua capacità di perdurare, trasformandosi nelle forme e nei significati che le si attribuiscono, sopravvivendo attraverso i tempi e le culture. Ne è un esempio peculiare e divertente il Natale "la festa più amata di una religione mediorientale, che si sovrappone a un'antica festività romana, assorbe il culto della natura importandolo dalla Germania, viene rimodellata e messa in versi a New York, e finisce per condurre agli addobbatissimi grandi magazzini di tutto il mondo". 

 

Un segno della forza della religione è la violenza con la quale si è cercato di eliminarla. Per esemplificarlo MacGregor menziona due esempi. Il primo riguarda la Francia ai tempi della Rivoluzione del 1789, il primo caso di uno Stato ateo della Storia. Il governo rivoluzionario abolì la religione, confiscò i beni della Chiesa, proibì il culto cristiano, perseguitò fedeli e religiosi tagliando molte teste. Tuttavia, comprendendo l'utilità politica delle feste e non potendo ignorare la necessità di nominare i mesi, i giorni e così via, sostituì alla religione cattolica il culto della dea Ragione, cambiò i nomi dei giorni della settimana e dei mesi e, insomma, fece un putiferio sanguinario. Dopo il Terrore, tutto tornò come prima. Anche l'Unione Sovietica decretò l'ateismo di Stato, ma nonostante tutto la religione ortodossa restò più viva che mai, sotto le ceneri delle sue cattedrali distrutte. MacGregor riporta una piccola fotografia della demolizione della cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca per ordine di Stalin nel 1931 e un'altra in cui la stessa cattedrale è ricostruita in tutto il suo splendore negli anni Novanta. Il motivo per cui in entrambi i casi, come in molti altri, la religione non poté essere cancellata o dimenticata va rintracciata, secondo MacGregor, sia nei sentimenti di coesione e di impegno sociale che la religione produce sia nella rabbia e nel malessere "per la distruzione di modelli di vita comunitaria consacrati dal tempo" impossibili da sradicare del tutto dal cuore della gente.

 

Vivere con gli dei non è soltanto un libro originale, piacevole da leggere e con delle immagini molto belle. Sviluppa anche una tesi chiara: mostrando l'altra faccia della medaglia della funzione politica della religione, ne mette in luce la capacità di creare fortissimi legami tra gli individui (d'altra parte è questa l'origine etimologica della parola religione), di formare identità collettive e di normare i rapporti tra le persone rendendone possibile la vita sociale e il lavoro collegiale in vista di un fine comune. Oggi le società devono affrontare un'enorme sfida dal cui successo dipende la sopravvivenza del vivere civile, quella di fare in modo che le religioni, intese nel senso più ampio di insiemi di narrazioni, regole di comportamento reciproco, visioni e prospettive riguardo al futuro, siano elemento d'unione e di civilizzazione per l'umanità intera, e non strumenti di prevaricazione o di dominio. Scegliamo noi quale lato della medaglia vogliamo far prevalere.

 

"A mio giudizio – conclude MacGregor – il declino del ruolo delle religioni istituzionali ha condotto a una seria perdita del senso di comunità, e i fedeli di un tempo si sono trasformati oggi in consumatori sempre più atomizzati. Tutte le tradizioni che abbiamo esaminato affermano che la vita del singolo è più soddisfacente se viene vissuta in seno a una comunità, e tutte offrono modi per tradurre in realtà questa affermazione. È famosa la frase di J-P Sartre, secondo cui 'l'inferno sono gli altri'. Le narrazioni e le pratiche che abbiamo esaminato in questo libro sostengono l'esatto contrario: che vivere armoniosamente con gli altri, vivere insieme, è la cosa più vicina al cielo che ci è dato di raggiungere". E chiude riportando l'immagine di una scultura lignea del 1480 ca., una Madonna della Misericordia, che ritiene possa simboleggiare perfettamente questa sua idea. Maria tiene allargato con le braccia l'orlo del proprio mantello al cui riparo si raccolgono molte diverse persone, "guarda risoluta verso il futuro e… sta facendo un passo avanti, e loro con lei".

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Diventare umani

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In quello che è uno dei romanzi chiave del Novecento e del nostro tempo, Atlante occidentale, Daniele Del Giudice, parlando delle relazioni tra persone e del rapporto tra loro e il contesto, scrive: “Pensò che tutto questo teneva in piedi un individuo, come un’impalcatura, e se fosse venuto a mancare, chiunque sarebbe crollato, come quelle persone decapitate in movimento il cui corpo fa ancora qualche passo e cade giù” [p. 13, Einaudi, Torino 2019; prima edizione 1985]. Ci individuiamo diventando quello che siamo con gli altri e grazie a loro. È la nostra intenzionalità congiunta e collettiva, la caratteristica unicamente umana che sembra distinguerci come specie. È dinamica, quella caratteristica, e fa di noi quegli esseri che siamo perché è divenendo che esistiano, pur essendo noi principalmente concentrati sulla nostra essenza stabile, impegnati a difenderla e ad affermarla, come facciamo soprattutto in questo tempo, in cui brandiamo l’identità come se fosse un’arma.

 

Una tipica deformazione, una forma di autoinganno della nostra mente, dei tanti che ci caratterizzano e ci affliggono, pur se allo stesso tempo sono fonte del nostro modo di essere umani. Si tratta di processi costosi che, nel caso in cui si consolidano, sostenuti come sono dalla condivisione conformista, possono dar vita a processi di esclusione e distruzione. Per fare solo un esempio, il costrutto di razza appartiene, in effetti, a quei tipi di deformazione di cui stiamo parlando. Noi oggi sappiamo in modo inconfutabile che le differenze genetiche tra due esseri umani bianchi, nati da bianchi in una città italiana, ad esempio, possono essere più elevate delle differenze genetiche tra quei due bianchi e un essere umano con la pelle nera del Ghana o della Nigeria. Questo però non basta per evitare l’attribuzione di razza inferiore a chi ha la pelle nera e, soprattutto, di aver fatto e di fare della razza uno strumento di morte, di schiavizzazione e di esclusione, pur essendo, quel costrutto, una credenza culturale deformata dalla mente individuale e collettiva, anch’essa, quindi, un’intenzionalità congiunta e collettiva. Non diverso è il processo riguardante il costrutto di identità che, incluso il suo uso nel linguaggio quotidiano corrente, non corrisponde a nessun fenomeno effettivo, essendo noi caratterizzati da somiglianze evolutive e vivi in quanto diventiamo, cambiando continuamente, nei picosecondi dell’evoluzione delle nostre vite.

 

Delle somiglianze si è occupato Marco Aime su doppiozero, analizzando il libro di Francesco Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari 2019. A quel cambiamento opponiamo la resistenza provvisoria della nostra durata e tendiamo a reificarla e a fissarla in un costrutto che vorremmo persistente, come quello di identità. Fissiamo quello che esiste in quanto è dinamico e reifichiamo le nostre stesse credenze e rappresentazioni. Le cose però, con tutta evidenza non stanno così. Non solo grazie alle verifiche scientifiche, ma anche nelle narrazioni e nei linguaggi di molte culture.  

Ad esempio, la radice sanscrita bhu significa sia essere che diventare. Ogni essere è bhuta: siamo tanto congiunzioni quanto disgiunzioni nel continuum spaziotemporale delle nostre esistenze. Diventiamo quello che esprimiamo nella nostra esperienza umana. E ciò non riguarda solo noi: i pesci ereditano non solo le pinne ma anche l’acqua; i cuccioli umani ereditano un ambito socioculturale ricco di artefatti, di simboli e di istituzioni culturali, e non si comprenderebbero le loro esclusive capacità di maturazione senza un contesto culturale in cui svilupparsi. “Diventare” sta diventando una parola importante quando si parla di cosa significa essere umani. Questo gioco di parole indica un campo di particolare rilevanza per comprendere chi siamo. Fissarsi sull’ente piuttosto che sulla dinamica mediante la quale l’ente diventa tale, è stato ed è un continuo tentativo di creare una verità su chi siamo e come siamo diventati quello che esprimiamo.

 

Veniamo scoprendo che più che agli enti conviene guardare alle relazioni e alle interdipendenze tra gli enti. Non si tratta di mettere in discussione le condizioni evolutive di lunga durata che ci fanno appartenere ai mammiferi, al regno animale e al sistema vivente sul pianeta dove viviamo. Certo che esiste la predisposizione, ma non darebbe vita a niente se non si entrasse in relazione. Pare proprio che sia nella relazione e nell’intersoggettività che diventiamo noi stessi. Non smettendo mai, peraltro, di diventarlo. Divenire vuol dire essere in grado di creare in continuazione mondi altri e mondi oltre. Conoscendo e conoscendoci ci individuiamo e la conoscenza è sostituzione continua: ogni artefatto e ogni immagine di noi è ricorsiva con noi stessi mediante la risonanza con gli altri e la loro restituzione. Entra così in crisi il mito dell’individuo, dell’indivisibile. Quel gioco incerto dell’azione con cui ci individuiamo smentisce la nostra pretesa di trasparenza e di neutralizzazione dell’opacità. È l’opacità che fa sì che noi siamo un dialogo in quanto negli spazi dell’incertezza e della non determinabilità dell’altro si aprono le condizioni per riconoscerci in quanto riconosciuti. È nel dialogo che ci individuiamo. Quando la risonanza e il ritorno riconoscente si interrompono, com’è accaduto, ad esempio, per l’uscita dall’eliosfera di Voyager 2, noi siamo perduti. Il non riconoscimento equivale alla perdita: rasentiamo e spesso sperimentiamo, oggi, con la crisi del legame sociale e la singolarità, la crisi dell’intersoggettività che genera l’individuazione.

 

Michael Tomasello, giungendo a un compendio di circa trent’anni di lavoro sperimentale, fornisce un ampio spettro di verifiche dei processi mediante i quali diventiamo umani. Accanto alle tesi che la specie umana sia diventata così com’è mediante l’evoluzione, Tomasello pone al centro lo sviluppo e, con le sue ricerche, mostra come i fattori che ci rendono distintivamente umani si costruiscono nei primi anni di vita dei bambini. L’attenzione delle ricerche presentate in questo libro, Diventare umani, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, che riesce a proporsi come un punto di svolta e una sistemazione di particolare importanza sul significato di essere umani, è rivolta principalmente alle trasformazioni ontogenetiche che sfociano nella psicologia unicamente umana di un bambino di sei o sette anni, che opera nella sua cultura come una persona emergente basata sulla ragione e sulla responsabilità. 

 

 

Un ex-ergo che Tomasello pone, all’inizio della parte prima, contiene l’ipotesi scientifica su cui si fonda l’intero percorso del libro. È dovuto a Edward O. Wilson che con la sua sapienza, in L’armonia meravigliosa ha scritto: “Sono le regole epigenetiche, le regolarità ereditarie dello sviluppo mentale che […] collegano i geni alla cultura […]. La ricerca della natura umana si può considerare come l’archeologia delle regole epigenetiche”. Ci eravamo chiesti a lungo come fosse stato possibile che un nuovo ramo dell’albero evolutivo potesse vivere una vita così profondamente differente da quella degli altri animali, compresi quelli molto simili da cui si era dipartito solo circa sei milioni di anni prima. In proposito Tomasello fa un’affermazione particolarmente impegnativa: “Oggi quell’enigma è stato sostanzialmente risolto”. E come? “A un certo punto della storia umana, è scaturito un nuovo processo evolutivo”. Noi umani viviamo tra i nostri artefatti, tra le nostre regole, i nostri simboli e le nostre istituzioni. “E poiché i bambini, qualunque sia la loro genetica, adottano gli artefatti, i simboli e le istituzioni particolari in cui sono nati, è chiaro che questa variazione nelle società, non può derivare dai geni, ma si crea socialmente. Il vero enigma, pertanto, è che gli umani, oltre a essere una specie che ha raggiunto traguardi cognitivi e sociali senza precedenti, sono al contempo una specie che esprime un nuovo genere di diversità a livello di gruppo, una diversità creata socialmente”. In quanto novità evolutiva, quella di homo sapiens scaturisce non dalla selezione naturale, “ma piuttosto dall’altra dimensione importante del processo evolutivo: la variazione ereditaria”. Sono la mutazione e la ricombinazione genetica a produrre, tramite processi ontogenetici, nuovi tratti.

 

Qui Tomasello mobilita e valorizza i recenti progressi della biologia evolutiva dello sviluppo, la cosiddetta Evo-Devo (Evolutionary Development Biology), in base alla quale sappiamo che non soltanto nuovi tratti nascono da processi ontogenetici, ma essi derivano dalle modalità e dalla tempistica con cui i geni esistenti sono espressi e vengono a patto con l’ambiente. “L’implicazione è che, se desideriamo spiegare come si crea la psicologia unicamente umana, dobbiamo concentrare la nostra attenzione sull’ontogenesi, e in particolare su come l’ontogenesi nelle grandi scimmie, in generale, si è trasformata nell’ontogenesi umana, in particolare” [p. 6]. Come con Wilson, Tomasello appoggia i propri piedi sulle spalle di giganti e lo fa anche con Lev E. Vygotskij, proponendo una teoria neo-vygotskijana: “La nostra ipotesi di lavoro per spiegare l’ontogenesi di una psicologia unicamente umana si richiama a Vygotskij: forme unicamente umane di cognizione e di socialità scaturiscono nell’ontogenesi umana, attraverso, e soltanto attraverso, forme di attività socioculturali esclusive della specie” [p. 7]. A sostegno di questa ipotesi è convocata la moderna teoria evoluzionistica che evidenzia come gli organismi ereditano i propri ambienti non meno di quanto ereditino i propri geni.

 

Da tempo la ricerca di Michael Tomasello si è concentrata sull’evoluzione della cooperazione umana e sul potere dell’agentività condivisa per cercare di comprendere come esse permettano i processi di coordinazione e di trasmissione culturale, cercando anche di riconoscere i motivi che fanno della cooperazione e dell’agentività condivisa aspetti distintivi e esclusivi della specie umana. Vale la pena fare subito un chiarimento ed evidenziare come quegli aspetti distintivi non significhino nulla che abbia a che fare con una presunzione di virtù e di bontà nell’esperienza umana. Ciò vale anche per il comportamento morale a cui Tomasello fa esplicito riferimento con i suoi contributi di ricerca. Siamo di fronte a caratteri distintivi della specie umana che presidiano tanto alla virtù quanto alla violenza, che entrambe richiedono coordinazione, cooperazione e agentività condivisa. A darci una mano a chiarire questi aspetti e ad assumere una posizione analitica e basata su un attento esame di realtà, è un contributo di Richard Wrangham apparso nel 2019 col titolo Il paradosso della bontà da Bollati Boringhieri, Torino, che esplora la strana relazione tra virtù, convivenza e violenza nell’evoluzione e nella storia umane. 

 

Wrangham, che da studente ha avuto l’opportunità di collaborare al progetto di ricerca sugli scimpanzé che Jane Goodall stava conducendo in Tanzania, è giunto insieme ai suoi colleghi a porsi una domanda: come mai gli scimpanzé erano relativamente aggressivi rispetto ai cugini bonobo molto più pacifici? La conclusione a cui sono giunti è che i bonobo si siano separati dagli scimpanzé tramite un processo molto simile alla domesticazione, che loro hanno definito “autodomesticazione”. Analizzando le affinità tra i primati e gli esseri umani, Wrangham riconosce che anche noi umani, all’interno delle nostre comunità sociali, abbiamo una scarsa propensione allo scontro e siamo molto tolleranti rispetto agli altri mammiferi selvatici. Eppure nella società umana la violenza è pervasiva e ineluttabile, e le teorie che ne danno conto sono abbastanza solide. Emerge perciò una domanda: in che modo le nostre qualità da animali addomesticati si conciliano con la nostra capacità di mettere in atto violenze terribili? L’approfondita analisi dell’autore, che investe le proprie competenze di antropologia biologica e di biologia comportamentale dei primati, giunge alla formulazione di una spiegazione che contiene notevoli aspetti di originalità. A differenza di quello che potrebbe apparire a prima vista, tolleranza sociale e aggressività degli umani non sono due comportamenti opposti. Si tratta di due comportamenti basati entrambi sull’aggressività, ma elaborata in modi diversi. La tolleranza sociale è associata a un tipo di aggressività che viene definita reattiva, verso la quale noi umani abbiamo una tendenza piuttosto scarsa. La violenza che ci rende distruttivi e letali nasce, invece, da un’aggressività definita proattiva. Cercando le origini della nostra mente moderna nelle profondità del tempo Wrangham mostra come la nostra specie abbia finito per unire le due tendenze – scarsa aggressività reattiva ed elevata aggressività proattiva – in una storia che non è ancora stata raccontata. L’aggressività sembra essersi evoluta in maniera diversa in ciascuna specie.

 

A lungo abbiamo pensato che l’aggressività si fosse evoluta lungo una sola dimensione, dai valori bassi ai valori alti. Oggi, alla luce di decenni di ricerca che Wrangham documenta ampiamente, sappiamo che l’aggressività non compare in una sola forma, ma in due, ciascuna con le proprie basi biologiche e la propria storia evolutiva. Noi umani mostriamo un marcato dualismo: abbiamo un valore ridotto sulla scala dell’aggressività reattiva, e un valore elevato su quella proattiva. L’aggressività reattiva è una risposta a caldo, come quando per reazione immediata si sferrano colpi alla cieca. L’aggressività proattiva è una risposta a freddo, pianificata e intenzionale. In nome della prima forma di aggressività noi umani mostriamo una relativa docilità e tolleranza, aspetti scarsamente presenti negli animali selvatici, tranne che nelle specie addomesticate. Ciò depone a favore dell’ipotesi che noi umani attuali siamo la versione addomesticata di antichi progenitori. Dal momento che gli animali addomesticati mostrano notevoli affinità di comportamento, la domesticazione emerge come una spiegazione possibile della forma di aggressività reattiva degli umani. Ma chi ha domesticato gli umani?, si chiede opportunamente Wrangham. Grazie agli studi sui bonobo possiamo trovare una risposta attendibile. I bonobo, ad ogni evidenza, devono essersi addomesticati da soli. La stessa cosa pare sia accaduta da circa trecentomila anni in avanti per noi esseri umani homo sapiens. Se per ciascuna specie c’è una risposta diversa, gli indizi per comprendere l’autodomesticazione vanno cercati nei modi con cui si impedisce agli individui aggressivi di dominare sugli altri. Nel caso dei bonobo, i maschi aggressivi sono fermati per lo più dall’azione congiunta delle femmine che collaborano tra loro, punendo i maschi arroganti.

 

Nel caso degli umani, secondo Wrangham, sarebbe stata la forza selettiva dell’esecuzione capitale a creare le condizioni dell’autodomesticazione. L’impego della pena capitale nelle società umane avrebbe avuto la funzione di costringere i maschi dominanti a rispettare le norme egualitarie e a contenere l’aggressività reattiva degli esseri umani. Il libro si conclude con la frase: “Ironia della sorte, sono stati proprio gli assassini a portarci sulla soglia della saggezza” (p. 359). È questo un punto sul quale l’analisi stringente e documentata dell’autore suscita una reazione impegnativa, oggi, ma osservando con sguardo obiettivo il passato violento è difficile falsificare l’ipotesi proposta. Il confronto con i Neanderthal consente a Wrangham di sostenere che, grazie al contenimento maggiore dell’aggressività reattiva da parte di homo sapiens, è stato possibile dotarsi di una cultura più elaborata rispetto ai Neanderthal. Un altro fattore distintivo connesso al contenimento dell’aggressività reattiva da parte di noi esseri umani è, secondo Wrangham, il senso morale, rispettando il quale, una volta consolidato in una comunità, i suoi membri hanno scongiurato il pericolo di essere condannati e giustiziati. L’aggressione proattiva caratterizza tutte le società umane. La sua manifestazione sembra strettamente connessa all’esercizio del controllo sociale. Nel caso di homo sapiens c’è da dire che l’aggressività proattiva si spinge ben oltre quella degli scimpanzé e degli altri primati.

 

Noi disponiamo di un’abilità unica per concepire e organizzare l’aggressività proattiva: un esempio è la guerra. Nel confronto fra chi difende una prospettiva che Wrangham definisce rousseauiana, secondo cui saremmo una specie pacifica per natura corrotta dalla società, e chi difende una tesi hobbesiana, che ci considera una specie violenta per natura, civilizzata dalla società, la tesi del libro è che noi esseri umani siamo sia capre che leoni. “Abbiamo una scarsa tendenza all’aggressività reattiva e una elevata tendenza all’aggressività proattiva” (p. 345). Il paradosso della bontà, insomma, consiste nel fatto che noi esseri umani in confronto agli altri primati, nella vita quotidiana, pratichiamo livelli di aggressività eccezionalmente bassi; mentre la violenza delle nostre guerre provoca tassi di mortalità eccezionalmente alti. Ereditando i nostri ambienti e le modifiche introdotte e apprese, insomma, siamo diventati quello che siamo.

L’attenzione a quanto precede e concorre a formare l’ontologia consente a Tomasello di evidenziare che gli organismi ereditano i propri ambienti non meno di quanto ereditano i propri geni: “i cuccioli umani ereditano un ambito socioculturale ricco di artefatti, di simboli e di istituzioni culturali, e le loro esclusive capacità di maturazione sarebbero sterili senza un ambito socioculturale entro cui svilupparsi”. Concentrandosi sulle vie evolutive della cooperazione umana e su come si generano i processi di coordinazione e di condivisione culturale esclusivi della specie umana, Tomasello elabora il ruolo dell’intenzionalità congiunta che opera diadicamente, e dell’intenzionalità collettiva propria dei gruppi culturali. Emerge allora l’importanza della dimensione coordinativa della cultura e dell’insegnamento e dell’apprendimento conformista, con una rilevante integrazione rispetto alla prospettiva di Vygotskij che si era concentrato principalmente sulla dimensione trasmissiva della cultura. Le vie di sviluppo identificate sono riconducibili a tre insiemi di processi:

  • In primo luogo, vi sono i processi di maturazione, che sono i riflessi più o meno diretti della storia evolutiva umana. Sono le capacità di intenzionalità condivisa proprie di ogni bambino a strutturare l’unicità cognitiva e sociale umana. Da quelle capacità si dispiegano i due passaggi essenziali: l’intenzionalità congiunta e l’intenzionalità collettiva.
  • Il secondo insieme di processi riguarda le esperienze individuali dei bambini, con particolare riguardo alle esperienze socioculturali. “L’ontogenesi cognitiva e sociale unicamente umana dipende essenzialmente da scambi tra l’individuo e una ricca ecologia culturale”. La tesi sostenuta da Tomasello è che i bambini, prima dei tre anni, sono strutturati prima di tutto per sollecitare le cure e l’attenzione degli adulti. Dopo i tre anni sono predisposti sia per l’apprendimento culturale derivante dall’insegnamento degli adulti, che per sviluppare nuove abilità mediante interazioni intersoggettive e coordinate con i pari”. 
  • Un terzo insieme di processi è dato dalle varie forme di autoregolazione esecutiva proprie degli esseri umani. Questo punto è fortemente ispirato a Vygotskij e sostiene che molti aspetti dell’unicità cognitiva e sociale umana derivino dai modi in cui i bambini cercano di autoregolare esecutivamente i propri pensieri e le proprie azioni, non solo individualmente, come fanno molti primati, ma anche socialmente, tramite il controllo costante delle prospettive e delle valutazioni dei partner sociali. Prima dei tre anni la regolazione esecutiva dei bambini è principalmente individuale. Dopo i tre anni i bambini cominciano ad automonitorare socialmente la propria comunicazione. Lo fanno per verificare se sono comprensibili e ragionevoli per gli altri, e cominciano a verificare l’impressione che fanno agli altri, in modo da conservare le possibilità cooperative e per questo si autoregolano collaborativamente.

Per sostenere le proprie ipotesi Tomasello fa ricorso a un ampio e articolato apparato di ricerche che suffragano la prospettiva prescelta. Quello che interessa all’autore è evidenziare tutto quanto ci rende unicamente umani. Alla ricerca dell’unicità umana, l’attenzione viene riservata ai fondamenti evolutivi e all’ontologia della specie. Dopo un’analisi critica riservata alla cosiddetta psicologia dello sviluppo, l’autore si concentra sull’ontogenesi della cognizione unicamente umana. Considera così la cognizione sociale e lo sviluppo dell’attenzione congiunta; la capacità di immaginare cosa gli altri percepiscono; la coordinazione di prospettive e l’elaborazione della capacità di giudizio. È poi la volta dell’analisi della comunicazione, sia intenzionale, che cooperativa, che convenzionale. Uno dei vertici più interessanti del contributo di Tomasello riguarda il processo del diventare simbolici che è anche l’occasione per situare con maggiore precisione il ruolo del linguaggio verbale articolato. In particolare, mostrando la connessione tra la complessa infrastruttura pragmatica della comunicazione umana, con l’utilizzo di gesti referenziali e cooperativi, per poi acquisire un linguaggio convenzionale. Si evidenzia in tal modo uno dei fattori portanti dell’approccio di Tomasello, che riserva un ruolo di particolare rilevanza all’apprendimento culturale.

 

È l’apprendimento culturale che sollecita una conformità alle convenzioni e allo stesso tempo fornisce contingentemente all’individuo le condizioni per superarle. Siamo di fronte a una circolarità strettamente vygotskijana. Per queste vie si giunge al pensiero cooperativo e alla sua costitutiva importanza per l’espressione dell’intenzionalità condivisa. Nella parte terza del libro, Tomasello si concentra sull’ontogenesi della socialità unicamente umana e approfondisce la collaborazione, la pro-socialità e le norme sociali, fino alla produzione dell’identità morale. Non senza evidenziare i limiti delle teorie analizzate, l’articolato e documentato contributo di Tomasello giunge a proporre una teoria dell’agentività condivisa e del suo potere, in una prospettiva neo-vygotskijana. La teoria dell’intenzionalità condivisa invoca simultaneamente una predisposizione biologica unicamente umana per l’intenzionalità condivisa, intesa come causa permissiva, e l’esperienza socio-culturale individuale come causa prossima.

 

Per spiegare l’ontogenesi dell’unicità umana sono necessarie entrambe. Gli esiti unicamente umani che scaturiscono da queste condizioni costitutive possono essere parzialmente individuati, secondo Tomasello, in una serie di processi con cui diventiamo umani, quali: l’attenzione congiunta, l’assunzione di prospettiva, i gesti cooperativi/referenziali, la comunicazione linguistica convenzionale, l’imitazione con inversione dei ruoli, la conformità, l’apprendimento istruito, il pensiero ricorsivo, la soluzione cooperativa di problemi, la presa di decisioni coordinata, la collaborazione a duplice livello, l’impegno congiunto, il senso di equità e di giustizia, la protesta in seconda persona, l’applicazione e la creazione di norme sociali, la gestione dell’impressione attiva, un senso di vergogna e di colpa, un concetto di orientamento morale. Un senso profondo di responsabilità prende, alla fine di questi due importanti contributi, in quanto risulta difficile falsificare la verifica che umani si diventa: come, è lasciato alla responsabilità di ognuno di noi.     

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La comunità perduta

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Nella “buona novella” annunciata da Michel Serres, Contro i bei tempi andati (Bollati Boringhieri), c’è un solo momento in cui l’ottimismo per il futuro cede al rimpianto, ed è nel ricordare l’incontro con un’amica di gioventù, ritrovata dopo vent’anni. Era uscita dalla miseria della famiglia, poteva permettersi le vacanze al mare, ma di quell’epoca rimpiangeva il vivere insieme, il colloquio continuo, il reciproco aiuto con i vicini, ben diverso dalla solitudine dell’età adulta: “una volta potevamo contare sulle comunità: caotiche, chiassose, litigiose, con le brache e i vestiti bucati, ma calde quanto a fraternità”. La comunità implicava la condivisione di uno spazio e di una tradizione da cui si traeva un’identità saldata dal “vivere insieme”, dove il prossimo era chi ci stava accanto. Forte era il senso di appartenenza a un mondo, ricorda l’antropologo Marco Aime in Comunità (Il Mulino, euro 12,00), in cui nessuno dei membri era estraneo, ma che nello stesso tempo aveva un forte senso di distinzione e una conseguente diffidenza verso gli estranei. La comunità era piccola, omogenea, autosufficiente, conosceva solo cambiamenti lenti, le nuove generazioni venivano integrate grazie a “riti di passaggio” che le rendevano partecipi alle tradizioni. In apertura del suo libro, Aime rievoca le scene dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, il mondo contadino della Lombardia di inizio Novecento. Non era un’esistenza idillica, i conflitti e le ingiustizie non mancavano, non era scontato poter contare sulla solidarietà e la reciprocità disinteressata. Il proprietario terriero caccia dalla sua terra la famiglia contadina il cui padre ha tagliato un albero di pioppo per ricavarne lo zoccolo che serve al figlio per il lungo cammino verso la scuola. Quando il carro con le povere masserizie è pronto a partire, le altre famiglie si limitano a osservare nascoste dietro i vetri della finestra.

 

In una delle pagine più amare degli Scritti corsari, “la lettera aperta a Italo Calvino” del ‘74, Pier Paolo Pasolini si dispera per non essere stato compreso neppure da uno degli intellettuali a lui più cari. L’avvento dell’individualismo edonistico dell’orrendo consumismo non lo induce, come crede Calvino, a rimpiangere l’Italietta, eterna provincia dello spirito, intrisa della cultura formale dell’umanesimo scolastico. Quel che Pasolini lamenta è la scomparsa delle comunità di uomini vissuti nell’età del pane, non dell’oro, consumatori di beni essenziali, in cui il risparmio era la dote paziente di chi si aspettava tempi peggiori: comunità rimaste intatte per millenni, che conducevano una vita precaria ma necessaria, mentre i beni superflui rendono superflua la vita. Nella premessa a un’antologia di Scrittori della realtà del ’61, Pasolini notava come “siamo una delle ultime generazioni a capire la ‘natura’, la ‘vita’ e quindi la realtà umana, nella sua accezione contadina, borghese, classica”. La “mutazione antropologica” ha prodotto la scomparsa irrevocabile di una lingua, di una storia, di una gestualità popolare, “alterità” critica e conflittuale rispetto alla uniforme subcultura del neocapitalismo dove la realtà è sostituita da simulazioni ingannevolmente manipolabili, riproduzioni artificiali, oggi diremmo “virtuali”. 

 

Nel 1878 Ferdinand Tonnies aveva formulato il contrasto tra comunità, fondata sul sentimento di spontanea partecipazione, e società, basata sulla razionalità dello scambio, dominante nel mondo industriale (Laterza, 2011). La comunità è un organismo, estensione dei rapporti parentali e di vicinato, segnati dalla condivisione di linguaggi, ricordi ed esperienze comuni che rafforzano il senso di appartenenza per somiglianza. La società, al contrario, è un aggregato meccanico di parti, in cui gli individui vivono separati, in tensione gli uni con gli altri; le relazioni si stabiliscono solo sulla base degli interessi, in una competizione in cui non conta la specificità del singolo, ma la prestazione che è in grado di fornire. Jean-Luc Nancy ha osservato che la storia è sempre stata pensata sullo sfondo di una comunità arcaica perduta, di cui si continua a coltivare la nostalgia ed elaborare il lutto, si tratti della famiglia naturale, della polis ateniese o della repubblica romana, delle prime comunità cristiane o dei comuni medioevali. “La comunità potrebbe essere al tempo stesso il mito più antico dell’Occidente e il pensiero, tipicamente moderno, di una partecipazione dell’uomo alla vita divina: il pensiero dell’uomo che penetra nell’immanenza pura” (La comunità inoperosa, 1983, Mimesis). Sulle comunità aleggia però un’eco di morte: basti pensare alla “comunità di agosto” che vide nel 1914 raccogliersi nella civile Europa giovani entusiasti, soprattutto di estrazione borghese, alla notizia dello scoppio del conflitto.

 

Lo storico statunitense Eric J. Leed, in Terra di nessuno (Il Mulino, 1985), ha mostrato come il diffuso sentimento di adesione alla guerra si nutrisse del rifiuto della società, vissuta come luogo di conflitti e di interessi egoistici mercantili, a cui contrapporre una comunità, momento di ritrovata purezza degli ideali patriottici e di solidarietà disinteressata. In quella magica coesione si avvertiva risuonare lo spirito del popolo, l’individuo si annullava volentieri nell’organismo morale unitario che dava espressione all’identità nazionale riconquistata. Certo, la comunità di agosto, saldata dall’odio verso il nemico, era una “grande illusione”, per dirla con il titolo del film di Jean Renoir; verrà ben presto il disincanto nelle atrocità delle trincee, il comune sentire ideale non cancellava le differenze di classe, non si traduceva in vera uguaglianza. 

 

Ma la Voglia di comunità, per dirla con Zygmunt Bauman (Laterza, 2007), non si è spenta, anzi è rinata nel mondo globalizzato, dominato da competitività e individualismo e in cui si avverte incertezza e instabilità. La comunità che ci manca è quella che garantisce in primo luogo sicurezza, presupposto di una vita felice, in cui le relazioni esclusive con i propri “simili”, all’interno di un gruppo omogeneo, sembrano garantire protezione e reciproco riconoscimento. Il “cerchio caldo” della comunità locale supplisce alle mancanze di uno Stato distante e inefficace, impotente a impedire l’ingresso di stranieri, potenziali criminali: ma la comunità sicura rischia di tradursi in un ghetto volontario. Maurice Blanchot ha indicato nel Maggio ‘68 il momento di effervescenza in cui la libertà di parola, rendendo trasparente la comunicazione, dava vita ad una comunione che non aveva bisogno di trovare in un nemico la propria coesione (La comunità inconfessabile, 1983, SE, 2002). Fu quello il momento in cui comunismo e comunità si toccarono, per perdersi subito; e forse questo è il destino di ogni comunità, come già era emerso nelle riflessioni di Georges Bataille negli anni Trenta. Pur muovendo dal riconoscimento della costitutiva insufficienza dell’individuo, la cui esistenza lacerata richiama per essenza la relazione con altri, Bataille aveva finito per scorgere nell’amicizia o nel rapporto tra gli amanti l’unica possibile comunione. 

 

L’essere in comune sembra oggi declinarsi soprattutto nelle sue forme regressive, secondo logiche neo-tribali che affidano a simbolismi arcaici proposte di localismo etnocentrico. La nostalgia di piccole patrie saldate dal suolo e dal sangue si rafforza proprio quando la nuova generazione di nativi digitali, a cui è possibile connettersi con ogni angolo del mondo, inventa nuove comunità abbandonando le rive paludose del sentimento “nazionale”, il coagulante sociale responsabile delle catastrofi della nostra storia recente. “Muoiono le vecchie appartenenze, anche la Nazione, a cui abbiamo sacrificato, il più delle volte per nulla, milioni di nostri progenitori. E noi cerchiamo di inventarne di nuove, locali, per esempio, in cui si scambiano nuove monete, e anche globali, con i Social Network che riuniscono milioni di persone”, scriveva Serres in Non è un mondo per vecchi (Bollati Boringhieri, 2012). È certo vero che tra le virtualità di Internet vi è quella di decentralizzare e democratizzare il sapere, di sfaldare le gerarchie piramidali che costringevano gli “infelici molti” al ruolo di “cagnolini seduti ad ascoltare la voce dei loro padroni”. Ma nella transizione dal collettivo al connettivo, dal face to face allo screen to screen, lo scambio d’informazioni non si traduce in comunicazione, non esiste vera con-versazione (letteralmente “trovarsi insieme”), non s’impara a vivere con gli altri: “la tecnologia non fornisce un’educazione ai sentimenti”, scrive Aime. La comunicazione digitale a distanza elimina insieme al contatto fisico anche la condivisione di esperienze; la controparte scompare nella sua fisicità e lo smartphone finisce per trasformarsi in uno specchio che riflette, come tanti Narcisi, solo noi stessi. In un mondo sempre più interconnesso, la relazione non è più dall’uno ai molti come nei vecchi media, ma rimane unilaterale, ciascuno trasmette, ma nessuno ascolta.

 

 

Il diluvio di informazioni asettiche e incontrollate non solo rende facilmente manipolabile la fruizione dei messaggi, ma rischia di tradursi in analfabetismo dell’empatia; venute meno le emozioni suggerite dal linguaggio del corpo, diventiamo affettivamente miseri e se “Almeno il virtuale evita il carnaio”, come ha scritto Serres, rischia però di alimentare forme di secrezione dell’odio rafforzate dall’impunità. 

L’homo digitalis non abita più i grandi spazi in cui si riunivano le masse, il suo è un assembramento senza riunione, manca il fuoco di un sistema simbolico, e senza una memoria condivisa non si costruisce un Noi. Aime ricorda di aver dedicato la sua tesi di laurea ai racconti di masche, figure simile alle streghe diffuse tra le montagne del cuneese e in genere nell’arco alpino, storie che, insieme a quelle di guerra e di lavoro, venivano narrate nelle veglie serali nelle stalle. Era il momento della socialità ritrovata che consentiva di trasmettere valori e insegnamenti e soprattutto di costruire l’immagine che il gruppo aveva di sé. Non abitiamo più nello stesso spazio, non viviamo più nello stesso tempo. Il Web non è un territorio, non è segnato, modellato da chi l’ha vissuto, non possiede toponimi per indicare luoghi di una memoria collettiva. Nell’epoca del consumo non sono solo le merci a venire rimpiazzate, diviene più difficile stabilire legami duraturi su cui instaurare rapporti di fiducia, che implicano aspettative di reciprocità e un investimento di tempo sul lungo periodo. Dalla fine del Novecento, il passato si è contratto, la memoria culturale sembra scomparsa e il futuro ha un respiro sempre più corto. Dai non-luoghi siamo passati al con-tempo, al presente permanente della Rete. Nell’epoca in cui i legami si sono fatti liquidi, conosciamo al più quel che Max Weber chiamava comunità “estetica”, dove non si tesse fra i membri una rete di responsabilità e di impegni a lungo termine, al massimo si mette a disposizione nella forma del file sharing, senza entrare in comunione. 

 

Venuto meno il sogno di convertire, come auspicava John Dewey, la Grande Società in Grande Comunità, scontiamo gli esiti del neoliberismo, che ha finito per realizzare la convinzione di Margareth Thatcher, “non esiste una cosa come la società. Ci sono uomini e donne, e le famiglie”. Forse non c’è stata fatica più meritoria nella filosofia degli ultimi decenni del tentativo di pensare una condivisione fra soggetti che non sia fondata sull’identità comune, sul “proprio” e l’appartenenza, sempre pronta a scivolare nella logica dell’esclusione del diverso. E questo anche in Italia grazie soprattutto a Roberto Esposito (Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, 1998) e Giorgio Agamben in La comunità che viene (1990, ristampato da Bollati Boringhieri nel 2017). Ma anche se la società è ben lontana dallo spirito comunitario, la voglia di comunità non si estingue. “La comunità ci è data – o noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un’opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare”, ha scritto Nancy. Roberto Esposito ha ricordato che l’etimo di communitas,cum-munus, rimanda al latino munus che significa originariamente dono, inteso come obbligo nei confronti degli altri e in ultima analisi denota ciò che non è proprio: “Il munus che la communitas condivide non è una proprietà o una appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare”.

 

Aime presta particolare attenzione a quelle forme in cui si avvia una filosofia del co-, co-working, co-housing, ecc.; nel pieno della logica capitalistica, che esalta competitività e guadagno individuale, esse propongono stili di vita basati sulla condivisione, sulla messa in comune, contro la miseria dell’arricchimento privato. Era questa la logica originaria dei Kibbutz per i fondatori dello Stato d’Israele, era la logica delle comuni e dei collettivi degli anni Sessanta, l’epoca che ha visto l’apogeo della cultura dell’amicizia che, insegna la saggezza dei classici, è egualitaria e non persegue l’utile. Rispetto alla logica dello scambio, il dono implica la libertà di ricambiare o meno, libertà del tempo e del modo di farlo, libertà del rischio che si prende, visto che non c’è certezza di venire contraccambiati. Il dono presuppone fiducia, è promotore di relazioni e legami sociali, implica una perdita iniziale in vista di un guadagno per tutti. Così si originano beni comuni che sono fuori commercio, si sottraggono alla logica della proprietà; li abbiamo ricevuti da altri e dobbiamo trasmetterli, come la terra che ci è stata prestata dai nostri figli. Questa forma di comunità resta un’isola nel mare della desolazione sociale, arcipelago nell’inferno che abitiamo tutti i giorni, cercando di “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”, scriveva Italo Calvino nel finale del suo libro più politico, Le città invisibili del ’72.

 

“La comunità che viene”, suggerisce Agamben, ignora presupposti di appartenenza, non si fregia di alcuna identità: il soggetto che la costituisce è il qualunque, il quodlibet, “l’esser tale che comunque importa”, l’essere desiderato (libet), qual-si voglia, come accade nell’amore. La persona è amata non per le proprietà che la rendono classificabile in un gruppo, ma solo ed esclusivamente per il fatto che è tal quale e non un’altra. Il superamento della scissione di universale e singolare è la condizione della sola etica possibile: “etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera”. Una comunità etica presuppone impegni a lungo termine, è vissuta come condivisione dei problemi di ciascuno, impone scelte che gettino le basi del futuro. La comunità si è fatta elettiva, non è il luogo in cui si nasce o si vive a determinarla, la condivisione non è data da un’origine comune. Siamo chiamati a decidere come e con chi essere in comune, come permettere alla nostra esistenza di esistere e di farsi storia. Non si tratta ogni volta di una decisione politica, ma è una decisione a proposito del politico: se e come permettiamo alla nostra alterità di esistere insieme, di determinare come stare nel nostro tempo. “Dobbiamo decidere di fare – di scrivere – la storia, esporci, cioè, alla non-presenza del nostro presente e alla sua venuta (in quanto ‘futuro’ che non è un presente che succede, ma la venuta del nostro presente). La storia finita è questa decisione infinita verso la storia”, ha scritto Nancy. Non è da affidare alla politica il compito di rinnovare una comunione perduta, ad ogni singolarità spetta tracciare i percorsi della sua comunicazione, della sua “estasi”, del suo uscire da sé per essere partecipe all’altro. 

 

In passato il futuro era molto meglio di adesso, si usa dire: le generazioni precedenti potevano sensatamente prospettarsi condizioni migliori di quelle vissute dai propri genitori. Osserva Salvatore Natoli nel finale del suo recente Il fine della politica (Bollati Boringhieri) che anche le società contemporanee hanno una riserva di futuro, un futuro terreno, privo ormai di eschaton, senza prospettive di redenzione o di salvezza eterna. Venute meno le grandi narrazioni, la politica oggi si riduce all’immediato, al governo della contingenza, ma, pur consapevole che la sua opera avviene nello spazio di un perpetuo transitare, può conservare un telos: non una meta finale da raggiungere, ma una adesione al presente che sappia trarre dalle circostanze le possibilità che aprano al futuro e consentano alle generazioni a venire di trovare ancora gradevole dimorare sulla terra. 

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Lévi-Strauss, Montaigne e il cazzotto

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Che cos’è un cazzotto? Secondo gli studiosi di preistoria non si trattava di un bestiale pugno in faccia, quanto semmai, più tecnicamente, di una specie di punzone, un blocco di silicio di forma ovoidale appuntito a un’estremità. Privo di manico, lo si teneva stretto con la mano chiusa (da cui l’omonimia) per battere o frantumare. Un arnese grezzissimo, la cui efficacia era assai limitata. Eppure era diffuso praticamente dovunque (dalla Francia alla Russia all’Africa), e lo rimase per ben 100.000 anni. Doveva essere qualcosa del genere:

 

 

Ora, se si calcola che lo sviluppo dell’uomo sulla terra conta all’incirca 125.000 anni, il cazzotto ha avuto una vita lunghissima, ed è stato l’unico utensile a disposizione degli esseri umani per quattro quinti della loro storia. Poi, improvvisamente, c’è stata un’accelerazione: dal blocco si è isolata una scaglia, ed è nato il coltello; di lì a poco il metallo, e gli strumenti relativi, con i quali ci si è assestati per quattromila anni; fino a che negli ultimi trecento arriva la scoperta del vapore e poi dell’elettricità, grazie a cui l’umanità ha compiuto salti più notevoli che non in tutto il periodo precedente. Altro che evoluzione continua della specie umana a imitazione dello sviluppo regolare di un bambino che passa, poco a poco, dall’infanzia alla maturità e infine alla vecchiaia: “L’umanità assomiglia molto di più a un vecchio di ottant’anni che fino ai settant’anni sarebbe rimasto nella condizione dell’infante, senza nemmeno conoscere l’alfabeto, e poi, dai settanta ai settantacinque anni, avrebbe terminato il programma delle elementari, e infine, dai settantacinque agli ottant’anni, il programma delle scuole secondarie e delle superiori”.

 

Parola di Claude Lévi-Strauss, che fa questo ragionamento nel gennaio 1937 (oggi vi avrebbe aggiunto quanto meno l’entrata in scena del digitale), durante una sorprendente conferenza dal titolo “Una scienza rivoluzionaria: l’etnografia”, tenuta nella sede parigina della Confédération Générale du Travail, il potente sindacato socialista francese. Ritrovato da poco fra le sue carte, il dattiloscritto di questa conferenza sembra sia il suo primo scritto organico in tema d’antropologia. Ben precedente al celebre libro sulle Strutture elementari della parentela (1948), sinora considerato il punto di partenza del suo pensiero. Lo troviamo adesso in Da Montaigne a Montaigne, un importante libretto che raccoglie anche il testo inedito di una seconda conferenza, intitolata “Ritorno a Montaigne”, tenuta alla Facoltà di Medicina di Parigi per iniziativa del Comité protestant d’éthique (probabilmente una delle sue ultime uscite pubbliche). Il volume, uscito in Francia nel 2016 per la cura di Emmanuel Désveaux, viene proposto adesso nella traduzione italiana di Carlo Monteleone dall’editore Raffaello Cortina (pp. 116, € 11). La presentazione di Désveaux situa questi due testi del grande antropologo francese nell’alveo della ricerca etnologica del Novecento, mentre la postfazione di Monteleone discute soprattutto la relazione fra Lévi-Strauss e Montaigne.

 

 

Non si tratta, diciamolo chiaramente, di una trovata editoriale, della classica lista della lavandaia del Grande Autore ripescata nel fondo un cassetto e pubblicata per puro marketing. Di un grande personaggio come Lévi-Strauss sappiamo certamente già tanto, ne conosciamo l’acume, la lucidità, l’erudizione, la straordinaria capacità di elaborare originali modelli di spiegazione dei fatti umani e sociali, la caparbia ostinazione nel coniugare la ricerca scientifica più avanzata con l’interpretazione filosofico-politica della società e della cultura attuali. I suoi libri, per chi ha avuto la pazienza e la fortuna di leggerli a fondo, hanno formato tre o quattro generazioni di 

antropologi nel senso lato del termine, ossia di studiosi e curiosi che sanno ritrovare nel dettaglio più minuto della quotidianità – si pensi ancora al punzone paleolitico – interi sistemi di pensiero, complesse configurazioni culturali. Questi due testi inediti arricchiscono ulteriormente la figura dell’autore di Antropologia strutturale, non solo perché ci danno, come dire, il punto d’avvio e quello di arrivo del suo percorso intellettuale, entrambi provvidenzialmente segnati dal nome di Montaigne, ma anche perché ben individuano alcuni dei suoi principali bersagli teorici: il materialismo dialettico (degenerazione di Marx), da una parte, l’evoluzionismo sociologico (degenerazione di Darwin), dall’altra. Permettendoci di mettere ancor meglio a fuoco la sua fisionomia intellettuale.

 

Torniamo al cazzotto. Quel che si ricava dalle ostinate vicende di questo arnese primitivo, s’è detto, è che non si dà alcuna linea evolutiva predeterminata nelle culture umane, poiché non esiste uno sviluppo lineare che va dal semplice al complesso, come dire dal selvaggio al civilizzato, dato che ogni cultura ha le proprie forme di sviluppo relativamente autonomo. La caccia, l’agricoltura, l’allevamento, ad esempio, non solo non si succedono mai secondo un criterio unico, ma non sono affatto le stesse nelle diverse comunità, nei vari paesi. Una cosa è cacciare piccoli animali per sfamarsi alla bisogna, altra cosa organizzare una battuta per catturare grandi mammiferi in gruppo e con lance ben acuminate adatte all’occasione. Come dire che il modello darwiniano dell’evoluzione naturale, applicato alle forme sociali, perde di efficacia esplicativa, irrigidendo le reali dinamiche antropologiche. E se questo vale per il tempo, vale anche per lo spazio. Lévi-Strauss insiste molto sull’idea che i vari fenomeni culturali – dalle tecnologie ai miti, dalle relazioni di parentela alle divinità e così via – non hanno un’unica origine geografica a partire da cui si sono via via irradiati nelle culture vicine. Non esistono cioè invenzioni uniche che progressivamente si diffondono nei territori limitrofi fino a prendere l’intero pianeta.

 

Ogni luogo ha le sue specificità, le sue istituzioni, le sue storie, il suo pantheon. Una società può prendere a prestito da una comunità adiacente un certo elemento culturale – un mascherone, un animale magico, l’ansa di un vaso – come può rifiutarlo, o ignorarlo, o invertirne i tratti espressivi e i significati rituali. Le varie componenti che fanno parte di una cultura, sostiene Lévi-Strauss, sono come gli elementi di una lingua: si costituiscono reciprocamente di modo che, alla fine, tutto si tiene. Non c’è nulla che determina nulla, nessuna struttura materiale che va a costituire sovrastrutture ideali (come appunto sostiene il marxismo volgare), poiché è solo nella relazione, nella reciprocità, nel contatto – sia esso di approvazione o di diniego – che le varie culture si costituiscono, si assestano, si trasformano. 

 

Da qui il carattere rivoluzionario dell’etnografia. Da un lato, ricorda Lévi-Strauss, se pure l’etnologo è innovatore a casa propria (auspicando il cambiamento delle strutture sociali oppressive nelle quali si trova ad abitare), è invece tradizionalista a proposito delle culture altre che si trova a studiare, sperando ardentemente che non cambino, che non cedano alle sirene mortifere dell’Occidente, di fatto suicidandosi. Ma questo gesto apparentemente conservatore è, a ben vedere, rivoluzionario, o quanto meno progressista, perché francamente rivendica le differenze culturali, le specificità d’ogni assetto antropologico, i diritti d’ogni singola cultura di vivere secondo i propri principi, i propri valori. 

Relativismo? Certo, ma non ingenuo. Esso non implica affatto (come molti sostengono) la giustificazione aprioristica di ogni valore, di ogni istituzione o comportamento. Poiché le culture esistono se e solo se mantengono un contatto diretto e costante fra di loro, ponendo in gioco se stesse, mettendosi in perenne discussione, misurando e soppesando il valore dei propri valori (ecco la lezione di Montaigne). Ne deriva, scrive Lévi-Strauss, che “il progresso sociale può essere mantenuto e sviluppato solo alla condizione che questi contatti fra i popoli continuino”. Il pericolo – politico oltre che culturale – è l’immobilismo, l’isolamento, la sclerotizzazione asfittica delle istituzioni sociali, dei fenomeni antropologici, in una parola delle tradizioni. Bella lezione di apertura mentale, utile ancora e soprattutto oggi, ingenuo periodo di riscoperta dei localismi etnici fini a se stessi.

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Il mondo deve continuare, ma può finire

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Ernesto De Martino (Napoli 1908 - Roma 1965), il nostro grande antropologo, dapprima studiò le persistenze di un mondo culturale antico sorprendentemente vive in diverse aree del Mezzogiorno d’Italia ancora a metà del XX secolo. Non fece coincidere l’isolamento geografico con un isolamento etnico dei contadini, visti anzi in rapporto dialettico con la cultura del mondo borghese dominante, e colse il salto fra culture tradizionali con un proprio universo di conoscenza e rimedi, e la società moderna disperata e dipendente da specialisti con delega totale circa il sapere sulla vita e la fine. Nelle ricerche che seguirono si affacciò, alcuni anni prima di morire, sull’interpretazione della sorte del mondo moderno nell’era dell’atomica e contemplò il senso e la possibilità del perire della società occidentale nella concezione della sua ultima perturbante opera, pubblicata postuma per la sua morte improvvisa e prematura: La fine del mondo. Contributo all’analisi della apocalissi culturali. 

 

Di questo libro, a settembre 2019 è uscita, a distanza di tre anni dall’edizione francese del 2016, una nuova edizione italiana da Einaudi, che è ormai la terza dopo la prima del 1977, e la seconda del 2002, curate entrambe da Clara Gallini (Crema 1931 - Roma 2017), che a vent’anni seguì il suo maestro nelle ricerche in Sardegna. In quest’ultima versione, curata da Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio, il libro si rinnova alquanto, al di là dei nuovi criteri di ordinamento dei materiali e di selezione dello stesso che sfoltiscono il testo dalle citazioni non commentate, per un’ulteriore rilettura del pensiero di De Martino che vi circola ora più chiaramente di ieri.

 

Ernesto De Martino vi è consacrato come pensatore europeo, con la riconferma a distanza del superamento, già presente nella seconda edizione del 2002 da parte di Clara Gallini, delle perplessità espresse nella sua introduzione alla prima edizione che quest’opera concepita fra il 1960 e il 1965 aveva generato in lei circa l’attualità e il valore nel mondo contemporaneo.

L’antefatto che spiega la genesi di tali dubbi riguarda, così mi sembra, la legittimità del passaggio dalla prima fase, quella di Ilmondo magico e quella “meridionale” dei suoi studi, alla seconda, in cui pure si riversavano i temi portanti della prima, percepita come slegata da quella concretezza, distante dai principi del materialismo storico e rivolta a un universo sempre più permeato da letteratura, filosofia, psichiatria (anche se già nel Mondo magico c’è il riferimento a Heidegger e Janet), forse da irrazionalismo o idealismo, e comunque inattuale. 

 

Alla prima uscita il libro suscitò non solo perplessità, ambivalenze e sconcerto per la complessità e diversità dei campi disciplinari interessati, sconvolgente per la tradizione accademica, ma anche voci di apprezzamento, come quella di Carlo Ginzburg, che all’epoca lavorava al suo “paradigma indiziario”. 

 

Formatosi nell’insegnamento di Alfonso Omodeo e di Benedetto Croce, De Martino intraprese strade di ricerca originali, non senza ritorni almeno temporanei o parziali nell’alveo originario, la cui origine è lo studio documentale degli usi delle culture tradizionali e in esse del magismo come sistema di protezione della labilità del soggetto intrinseca nel tempo aurorale dell’umanità in cui si colloca il primo drammatico differenziarsi dal mondo in cui era “gettato” dell’individuo come tale, come presenza, concetto cruciale in De Martino che sta a significare la pienezza della persona nella partecipazione e nell’azione nel mondo storico. Tali studi erano confluiti nel libro Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948).

E proprio a questo libro, e «alla prima formulazione del rapporto problematico con il mondo», nucleo originario della stessa riflessione che ritroveremo in La fine del mondo, si ricollega l’apprezzamento di Ginzburg, che «propone di inserire Il mondo magico, [ ] così come Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adornoassieme a Paura della libertà di Carlo Levi, Apologia della storia o mestiere di storico di Marc Bloch e Una storia modello di Raymond Queneau in una costellazione europea di libri dell’«anno zero» scritti sotto la minaccia nazista del crollo di un mondo». L’apprezzamento si estende poi oltre, perché le differenti linee teoriche idealiste o ispirate a un’«antropologia maussiana di addomesticamento del mondo», riconducono una lettura storica di De Martino a «un contesto culturale non esclusivamente italiano», oltre a dimostrare un confronto serrato con lo storicismo e i suoi limiti. 

 

 

A quest’attività, e in continuità di senso, era poi seguito il lavoro sul campo nel sud d’Italia cui si accennava all’inizio, culminato nei libri della grande trilogia meridionale: Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria (1958), Sud e magia (1959), La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud (1961). 

 

Ernesto De Martino aveva una mente geniale e due occhi “celestini” in un volto “ossuto, squadrato a linee dure”. Occhi “abituati a scrutare al di là dei confini del nostro tempo, del conoscibile”, e a guardare in faccia la morte. Come ricorda Clara Gallini nella prefazione all’ultima edizione di Morte e pianto rituale — libro di “tragica bellezza”, emblematico della sua potenza d’indagine, che avrebbe vinto sollevando inquietudine il premio Viareggio del 1958 — era un tale uomo che più di tutti poteva apprezzare la vita. Di fatto egli studiò sul terreno del nostro Sud con profondità e accuratezza di dottrina i modi sedimentati nei tempi dal lavoro della cultura per difenderne l’assoluto valore dagli attacchi del negativo storico. Del male che poteva assumere allora, fra le popolazioni studiate di un mondo arcaico e povero agro-pastorale, sostanzialmente pagano anche se nominalmente cristiano, la forma della malaria, della mortalità infantile, della grandine e della siccità, del fulmine che uccide il prezioso mulo di un contadino, della carestia, ma anche della volontà di dominio o addirittura della malevolenza altrui generate dalla brama amorosa o dall’invidia e portate ad effetto attraverso fatture e altri sortilegi come la pratica del malocchio, insomma da una magia aliena o ostile al soggetto, di cui De Martino non manca di cogliere l’analogo opposto, suo antagonista almeno altrettanto potente. Esso sarà descritto nelle sue opere come una magia benevola al servizio della vita e della permanenza del gruppo umano, come arsenale di incantamenti e rimedi, che non sono altro che dispositivi di funzionamento e atti rituali e psichici costitutivi di un sistema teorico che si sviluppa e si compie tuttavia nella sua complessità, facendo presto rilevare come non sia tanto la bassa magia cerimoniale a proteggere, ma l’idea che esista un principio al servizio del bene e della salvazione non solo dell’individuo, ma dell’intero gruppo umano di appartenenza. Con il distacco delle ipotesi soteriologiche come sistema di pensiero dalla magia come fenomeno circoscritto e situato nel campo della “metapsichica” il cui significato si esaurisce in singoli atti e scopi, viene introdotto il superamento della dimensione destinale dell’individuo nella sua finitezza, e l’ingresso in un sistema che sfugge alla presa del tempo storico — destorifica cioè il negativo sottraendolo al piano inesorabile della realtà contingente e a un tempo irreversibile — e apre a un diverso piano di realtà, al tempo ciclico della natura e della religione, alla reintegrazione della presenza e alla salvezza di tutti in un tempo mitico-religioso e in un escaton di là da venire, ma promesso, che supera la prospettiva della fine senza riscatto del singolo, o l’apocalisse di una civiltà. Questo tempo nell’orizzonte cristiano coincide con la parusia e la palingenesi, e non vi è la prospettiva dell’eterno ritorno, mentre nell’orizzonte laico, nella prospettiva marxista si vuole che la salvezza sia frutto dell’affermarsi di un pensiero razionale, e di un progresso forse da tutti idealizzato e dato per certo sul modello evoluzionistico o della progressione escatologica cristiana che si inscrive nel tempo irreversibile della storia. 

 

Ritroviamo tale dispositivo e le sue articolazioni anche nella Fine del mondo. Ed è esattamente fra queste polarità che si muove sempre De Martino, con tutte le difficoltà, le contraddizioni, le aporie del caso, proponendo tuttavia modi alternativi o di integrazione delle due visioni, che nel suo progetto e nel libro trovano espressione e un accurato approfondimento da parte dei curatori.

 

In una fase successiva De Martino, quella che porta a La fine del mondo, e ancora una volta in continuità di senso a mio avviso, si aprì a una ricerca più astratta di sapore fenomenologico-esistenzialista — permeata dalla riflessione filosofica e dalla letteratura, nel riferimento ad autori come Martin Heidegger, Jean-Paul Sartre e Albert Camus — avvertita come necessaria a fronte delle inquietanti incrinature della nostra società occidentale dopo i disastri delle due guerre mondiali. Essa implicava il confronto dell’antropologia con la psichiatria e la psicopatologia per indagare sulla possibilità della fine oltre il dramma del mondo magico, sui momenti critici dell’esistenza e della storia in cui è più forte il bisogno di un dispositivo di protezione per il singolo o per una comunità; sul declino dell’ordine mondano per il singolo uomo, e sull’eclissi di un mondo come evento ciclico o come rischio permanente di naufragio della cultura nell’abisso. Un confronto che serviva anche a riaffermare la differenza e l’autonomia culturale delle figure di espressione etnografica della crisi, come il tarantismo, momento di intenso disagio concomitante con un momento cruciale del ciclo agrario, dai quadri psichiatrici, come quello dell’isteria, e inoltre a rifiutare l’idea che essi possano esistere e determinarsi nel vacuum senza mondo in cui li oggettiva lo sguardo clinico collocandoli al di fuori di ogni dimensione culturale. 

La differenza è assai chiara nella descrizione, ricordata nella premessa di Massenzio, che fornisce De Martino di una crisi di tarantismo “in statu moriendi”, cioè spogliata del supporto coreutico-musicale indispensabile per inscriverla in una partitura culturale e quindi in un’efficacia simbolica, cui assistette il 28 e 29 giugno 1959 nella Chiesa di San Paolo a Galatina. 

Il quadro etnografico privato dell’integrità del suo corredo di colori e di partecipazione rituale con danze e suoni, ben noto allo studioso, si appiattisce riducendosi a disgregazione della presenza e del senso, a quadro clinico di un evento psicopatologico (secondo la clinica) irrelato: «Avevamo ancora nella memoria l’esorcismo musicale visto pochi giorni prima a casa di Maria di Nardò, così ordinato e regolare: [ ] ma ora davanti ai nostri occhi non vi era che un intrecciarsi di crisi individuali senza orizzonte, il disordine e il caos. In cappella non c’erano né la musica, né i nastri colorati, [ ] né tutto il vario simbolismo messo in moto dall’esorcismo musicale in azione: e in assenza di questo tradizionale dispositivo di evocazione e di deflusso i tarantolati naufragavano. [ ] Le scene che vedevamo dall’alto della nostra tribuna ad audiendum sacrum ci davano l’impressione di pietruzze colorate in un caleidoscopio in frantumi: inerti abbandoni al suolo, agitazioni psicomotorie incontrollate, [ ] scatti di furore aggressivo, e ancora archi isterici, lenti spostamenti striscianti sul dorso, abbozzi di passi di danza, tentativi di preghiere, di canti, conati di vomito».                                     

 

Il passo immediatamente successivo del pensiero di De Martino è il confronto fra le apocalissi culturali e le apocalissi psicopatologiche. 

Infatti, come rilevano ancora i curatori, «Situazione storica da un lato, condizione umana dall’altro: la tensione oppone dunque storia e ontologia, e De Martino avrebbe definitivamente posto l’accento su quest’ultima”. Il che autorizza a paragonare fra loro delle apocalissi culturali prive di connessioni storiche [ ] e soprattutto a introdurre la correlazione con le apocalissi psicopatologiche, i “deliri da fine del mondo”, vissuti individualmente». 

Da un lato il mondo estraniato della Nausea di Sartre, in cui l’uomo è spaesato, dall’altro la perdita della “patria culturale”, la scomparsa della familiarità e riconoscibilità dell’ordine mondano, come nel caso della psicosi del contadino bernese. 

 

Quella prospettiva, leggiamo oggi nell’introduzione di Charuty e Massenzio, assumeva “a oggetto d’indagine la condizione umana in generale”, nella consapevolezza che «Il Dasein, la presenza al mondo, è minacciata di dissoluzione per ogni uomo e ogni società, in ogni tempo e in ogni luogo».

Come fa notare Massenzio, De Martino ha individuato la radice del male di vivere “nella condizione umana in sé”, nell’angoscia del divenire, “nella relazione che l’uomo intrattiene col tempo e il suo fluire”, estendendo il rischio della crisi al di là del mondo magico, fra noi.

De Martino peraltro, con il criterio di trascendimento di sé nel valore, fornisce una cornice soteriologica laica attraverso la valorizzazione di un’intersoggettività culturale fra gli uomini, che può prescindere dalla perdita di contatto col sacro di oggi. Se ne avvantaggia l’uomo isolato dal divino, come pure lo schizofrenico che ha perso il legame col mondo, dunque l’uomo implicato nel passaggio “dall’abisso di Agostino e dei mistici all’abisso caotico e vuoto che inghiotte, il gouffre di Pascal e di Baudelaire”. 

 

Il valore attuale della sua svolta epistemica per la comprensione delle apocalissi culturali sta anche nella ridefinizione della piattaforma e della prospettiva del proprio lavoro. Come osservano Charuty e Massenzio, essa non è più soltanto lo studio delle società arcaiche, ma l’incontro etnografico «in sé, nel contesto delle società contemporanee, in situazioni di ineguaglianza, di violenza, di dominio simbolico». 

«L’oggetto intellettuale che ne scaturisce» osservano ancora Charuty e Massenzio, è «un progetto di “antropologia della storia” incentrato sulla relazione tra l’Occidente e l’“alterità”, piuttosto che un’antropologia della cultura con i suoi universali, come nel programma levi-straussiano». 

E non c’è collisione fra i dispositivi salvifici delle società arcaiche e la prospettiva storicistica di progresso. È vero, come avverte l’autore, che «Il tempo ciclico è tempo della prevedibilità e della sicurezza: il suo modello è offerto dal ciclo astronomico e stagionale». Ed è vero anche che «nell’ambito della storia umana questa tendenza della natura diventa un rischio, perché la storia umana è proprio ciò che non deve ripetersi e non deve tornare, essendo questo ripetersi e questo tornare la catastrofe della irreversibilità valorizzatrice. Il tempo della prevedibilità e della sicurezza è per la storia il tempo della pigrizia, il rischio della naturalizzazione della cultura». Ma il tempo ciclico del mito non si oppone alla storia. La reversibilità del tempo e il ritorno dell’uguale, modi che segnano il tramonto e il risorgere dei mondi culturali nella concezione della fine come evento storicamente determinato, a fronte della fine come rischio antropologico permanente, sono solo un modo per “stare nella storia come se non ci si stesse”, proteggono la “storicità del divenire”, e preparano a un recupero valorizzante nella storicità di ciò che in un primo momento deve essere temporaneamente destorificato, sottratto nella dimensione mitica alla responsabilità e decisione umana.

 

De Martino ha cercato la difficile unificazione di saperi diversi in un vasto orizzonte di riflessioni che collega l’individuo al mondo, entro la cornice di un trascendimento di sé come possibilità morale e senso ulteriore rispetto alla trascendenza e alla sponda del sacro. Sempre entro la cornice delle possibilità dell’umano, ci ha mostrato che razionalità e irrazionalità non si contrappongono ma si integrano in magia e miti, forze e strutture capaci di creare realtà ulteriori rispetto a quella storica immediata. Come osservano Charuty e Massenzio, De Martino «sovverte l’opposizione fra individuale e collettivo, psicologico e sociologico, per legare insieme le trasformazioni della società e quelle dell’economia psichica come in Michel Foucault, come in Marcel Gauchet, quando analizza la crisi dell’individuo», e come in Norbert Elias quando si interroga sui processi di decivilizzazione». 

La sua posizione rimane equidistante fra razionalismo e irrazionalismo, fra rielaborazioni laiche e religiose. Come rileva Cesare Cases nella sua introduzione a Il mondo magico, De Martino ha crocianamente considerato “l’importanza dell’individuo come una fonte di innovazione spirituale”; mentre il suo modo di correlare crisi e cultura lo ha avvicinato non a Freud, rimasto chiuso nella dannazione della coazione a ripetere, ma a Jung per aver questi mostrato il dinamismo del simbolo, che rompe l’isolamento del sintomo e apre la crisi alla reintegrazione attraverso il contatto col mondo dei valori culturali. 

Non troviamo in De Martino semplificazioni pronte all’uso sul da farsi e sul nostro destino, ma un cosmo in cui muoversi in tutte le direzioni, in cui sono scardinati certezze e il tempo stesso come siamo abituati a pensarlo, e siamo chiamati alla consapevolezza dei nostri valori e limiti per costruire un mondo nuovo. 

E allora dovremmo forse riflettere sulle parole ancora di Cases, quando sostiene che la fine del mondo non è nella fine, che paventiamo, della nostra civiltà occidentale, “nella forma del capitalismo e dei valori cristiano-borghesi da esso propugnati”, ma nella sua “spasmodica conservazione”, e che la sua fine soltanto, invece, “può rendere possibile la sopravvivenza e il dispiegamento dell’umanità”. L’apocalisse allora rappresenterebbe la rivelazione del nulla sul cui bordo già siamo, in attesa di un nuovo inizio. 

 

Nota: Ho affrontato questi temi anche in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, Vol. CXXIX, N. 2/2005, Psicopatologia e cultura nel pensiero di Ernesto de Martino, saggi di E. De Martino: Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, e Il problema della fine del mondo; saggi di: Clara Gallini, Marcello Massenzio, Bruno Callieri e Mauro Maldonato, Roberto Beneduce. Numero monografico (con mio Editoriale).

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Le virtù del virus

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Difficile non farsi prendere dal demone dell’analogia quando ci si misura con l’enormità dell’evento pandemia. Nelle riflessioni che accompagnano il suo diffondersi a macchia d’olio, il Covid 19 è diventato una sorta di metafora generalizzata, quasi il precipitato simbolico della condizione umana nella post-modernità. Era già successo, quarant’anni fa, con l’Hiv e si ripete puntualmente oggi. La pandemia si presenta come una sorta di experimentum crucis, grazie al quale sono verificate ipotesi che dalla politica vanno agli effetti della globalizzazione, alla trasformazione della comunicazione nel tempo della rete fino a raggiungere le vette della più rarefatta considerazione metafisica. Per l’isolamento, la diffidenza e il sospetto a cui induce, il virus è infatti ora “populista” o “sovranista”. Per le pratiche emergenziali a cui costringe sembra universalizzare quello “stato di eccezione” che il Novecento teologico-politico ha lasciato in eredità al presente, confermando inoltre la tesi di Foucault sul carattere biopolitico del potere sovrano nella modernità (un potere che avrebbe il suo correlato nella produzione, gestione e amministrazione della “vita”). Per il suo essenziale anonimato sembra poi condividere l’immaterialità che si denuncia nel vituperato dominio del capitale finanziario. Per la sua capacità di contagio si coniuga perfettamente con la natura preriflessiva e “virale” della comunicazione in rete. Last but non least il virus è il segno dell’eterna condizione umana. Casomai ci fossimo colpevolmente scordati della nostra mortalità, finitezza, contingenza, mancanza, ontologica deficienza ecc. ecc., ecco che il virus ce le rammenta, coartandoci alla meditazione e rimediando così alla nostra distrazione di consumatori compulsivi. Queste considerazioni non sono affatto illegittime. Sono, anzi, tutte pienamente fondate. In questo consiste però anche il loro difetto. Se funzionano è perché riducono l’ignoto al noto. Esse fanno del virus l’evidenza intuitiva che, per dirla con la lingua della fenomenologia, viene a “riempire” una attesa d’ordine teorico. Per l’intelligenza critica che si esercita sul fenomeno virus, Covid 19 è per lo più il nome da film di fantascienza con cui si certifica un sapere pregresso.


Ma se il virus ha la caratteristica dell’evento (e sarebbe veramente molto difficile negargli questo tratto) dell’evento deve avere anche la “virtù”. Gli eventi sono tali non perché “accadono” o, almeno, non solo per quello. Gli eventi non sono i “fatti”. A differenza dei semplici fatti, gli eventi hanno una “virtù”, una forza, una proprietà, una vis, cioè fanno qualcosa. Per questo l’evento è sempre traumatico al punto che si può dire che se non c’è trauma non c’è evento, se non c’è trauma non è successo letteralmente nulla. Ora, cosa fanno gli eventi? Gli eventi producono trasformazioni che prima del loro aver luogo non erano nemmeno possibili. Cominciano infatti a esserlo solo “dopo” che l’evento ha avuto luogo. L’evento, insomma, è tale perché genera del possibile “reale”. Si tenga presente che “possibile” non vuole qui dire altro che praticabile. Possibilità significa poter fare qualcosa. La possibilità non è niente di astratto, non è la libera immaginazione di altri mondi migliori di questo. Se si rimane su un piano pragmatico, senza indulgere alla metafisica, possibilità è solo “potenza” e potenza non è nient’altro che azione, attività determinata. La “virtù” dell’evento consiste allora nel rendere possibile modalità operative che, “prima”, erano semplicemente impossibili, addirittura impensabili. Ne consegue che l’evento può essere pensato solo a partire dal futuro che genera (e non dal passato), perché trasforma, perché crea del reale e con esso del possibile. Il senso comune è dunque nel giusto quando pensa l’evento come “occasione” per “fare di necessità virtù”.


Noi siamo troppo vicini all’evento Covid 19 per poter scorgere il futuro che reca in grembo e la nostra umanissima paura ci rende dei testimoni inaffidabili, ma alcuni segni del cambiamento di paradigma che esso comporta ci sono e mostrano un senso inatteso. Il più eclatante è probabilmente l’improvviso tracollo dell’ideologia del “muro”. Il virus è arrivato nel momento in cui il pianeta sembrava convergere nella condivisa persuasione che la sola risposta alle “minacce della globalizzazione” consistesse nella ridefinizione di confini armati e di identità forti. Il populismo, che detesta i libri, crede però, dogmaticamente, nel primato della “cultura” nel senso antropologico del termine. Il suo senso della comunità è infatti storico, romantico e tradizionale. La sua comunità è locale per definizione, il suo nemico giurato è l’astrazione frigida del cosmopolitismo. Ancora più estranea alla sua sensibilità è poi la natura: nient’altro che una risorsa da sfruttare per il benessere della comunità (vedi Bolsonaro e la deforestazione dell’Amazzonia, Trump e la sua indifferenza alla questione del riscaldamento globale, l’odio salviniano per Greta…). Il populista non ha dubbi sulla tesi della “eccezione umana”. Ne fa, anzi, un articolo di fede. Aggiungerei che se bacia il crocifisso è perché vi vede confermata teologicamente proprio quella eccezione. Ebbene, il virus, nel giro di pochissimi giorni, ad una velocità veramente pazzesca, ha costretto tutti, volenti o nolenti, a farsi carico, financo nei comportamenti più quotidiani (lavatevi le mani…), del destino della comunità mondiale e, ben oltre ad essa, della comunità dell’uomo con la natura. Per sradicare il pregiudizio culturalista e antropocentrico non c’è stato bisogno del lento e quasi sempre inefficace lavoro dell’educazione: è bastato qualche colpo di tosse perché improvvisamente diventasse inaggirabile la responsabilità che ogni individuo ha nei confronti del creato per il solo fatto di essere (ancora…) al mondo e se vuole continuare a restare al mondo...


Con la forza oggettiva del trauma, il virus mostra che il tutto è sempre implicato nella parte, che “tutto è in qualche modo in tutto” e che non ci sono nell’impero della natura regioni autonome che facciano eccezione. Non ci sono nella natura “imperi negli imperi” come li chiamava Spinoza per irridere la pretesa superiorità dello “spirito” sulla “materia”. Il monismo del virus è selvaggio e la sua immanenza crudele. Se la “cultura” desolidarizza, se erige steccati e costruisce generi, se definisce gradazioni nella partecipazione al titolo di essere umano e istituisce orrendi confini tra “noi” e i “barbari”, il virus “accomuna” e costringe a pensare a soluzioni “comuni”. Nessuno nel tempo del virus può più pensare di salvarsi da solo né può pensare di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Si dirà che la pandemia genera zone rosse, clausure domestiche, militarizzazioni del territorio. E questo è indubbio. Ma qui il muro assume un senso completamento diverso dal muro che il ricco costruisce per tenere lontano il povero. È un muro costruito per l’altro, chiunque esso sia. Nel tempo del virus il “prossimo” è infatti ridotto radicalmente alla dimensione del “chiunque”. Il muro, in tutte le sue forme compreso il metro di distanza al bar, viene allora costruito per supplire la stretta di mano impossibile con quel “chiunque”. È una via di comunicazione e non il segno di una esclusione. Prova ne è che la retorica fascista non ha potuto sbandierare quei muri come conferma della bontà della sua proposta segregazionista. Di fronte alla strapotenza del virus ha dovuto riporre, almeno momentaneamente, la sua più efficace arma.
Siamo troppo vicini all’evento anche per valutarne gli effetti sul piano politico. C’è tuttavia un fatto che va registrato. Il virus sembra restituire alla politica il suo perduto primato. Il pensiero classico metaforizzava questo primato del politico nell’immagine del pilota della nave che deve destreggiarsi in un mare ostile. Essendo spiriti realisti, i classici sapevano che non c‘erano porti sicuri ove approdare per porre fine al viaggio. La navigazione, dicevano, è necessaria, vivere non è necessario. L’“elemento” in cui bagna il politico è una natura dove la fortuna, il caso, l’alea giocano un ruolo ineliminabile. La “virtù” politica consisteva allora nel misurarsi con la strapotenza di questo elemento, governandolo con astuzia (metis) e resilienza. Il politico è tale proprio perché depone l’illusione “umana, troppo umana” di poter disporre della potenza degli elementi naturali, che invece ha rappresentato il sogno metafisico dell’umanità “moderna”, quell’umanità che ha pensato il rapporto con la natura nei termini di una guerra dello spirito contro la materia bruta. Primato del politico significa governo della natura non dominio. E bisogna aggiungere, per chiarire la natura tutta “politica” di questo governo, quella formula così cara a Platone: kata dynamin, per quanto è possibile a un mortale. Ebbene, non c’è dubbio che è proprio l’ipotesi del dominio a venire ridicolizzata da un colpo di tosse a Wuhan ed è all’intelligenza pragmatica del pilota che si fa appello per governare, per quanto è possibile, la spontaneità di un processo che si fa in barba alle nostre intenzioni. Covid 19 ha anche questa virtù: richiama la politica alla sua specifica responsabilità, le riconsegna quel primato che aveva illusoriamente lasciato ad altre istanze sovrane, alle quali si era subordinata, dichiarando la propria impotenza e accontentandosi di svolgere un ruolo esclusivamente tecnico. Dopo Wuhan, invece, l’agenda non può che essere fissata da una politica che deve “barcamenarsi” (la virtù politica era detta “cibernetica” dai greci, vale a dire nautica) nel mare in tempesta di un contagio progressivo e apparentemente inarrestabile. Tant’è che ciò che fino a poche settimane sembrava solo una irrealistica pretesa, è divenuto una sorta di parola d’ordine. La politica, si dice, deve avere la priorità sull’economia. È questa che si deve piegare alle esigenze del Principe che ha cuore il destino del suo equipaggio.


Il virus, infine, dispone alla meditazione. Non credo però che l’oggetto di questa meditazione sia la contingenza dell’esistenza e la precarietà delle cose umane. Non abbiamo certo bisogno del Covid 19 per riflettere sulla nostra fragilità. Questa angoscia non ci ha mai veramente abbandonato (checché ne dicano i giornalisti che dagli studi televisivi pontificano sul fatto che, grazie al virus, un’umanità istupidita dai media, cioè da loro, avrebbe finalmente “riscoperto” la sua ontologica insicurezza). Il virus declina piuttosto l’esistenza, la nostra come quella di tutti gli altri, nel modo del “destino”. Improvvisamente ci siamo sentiti trascinati da qualcosa di strapotente, che si fa nel silenzio degli organi, ignorando la nostra volontà. La libertà è così compromessa? Si deve avere una ben mediocre idea della libertà per pensare che essa confligga con la fatalità dell’accadere. Tra le virtù del virus bisogna annoverare la sua capacità di generare una idea più sobria di libertà: la libertà che si realizza nel fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi. Essere liberi è fare ciò che, nella situazione, si deve fare. Non è una astrazione da filosofi, questa. La vediamo incarnata nell’operosità, nella serietà, nella dedizione con cui migliaia di persone lavorano quotidianamente per rallentare il contagio.

 

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L’arte della prossemica

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“Una società lasciata a se stessa non mostra alcuna tendenza naturale a progredire […]; per smuoverla almeno un po’ occorre che essa riceva una moltitudine di piccole scosse che rappresentano i contatti fra le differenti nazioni […] Il progresso umano può esistere solamente nella misura in cui tutti i differenti centri della cultura umana hanno dei contatti fra loro. Le società isolate sono società inerti, soltanto le società in contatto fra loro progrediscono”. Così il giovane Claude Lévi-Strauss in una delle sue prime uscite pubbliche, Parigi 1937, adesso nel libretto Da Montaigne a Montaigne: il contatto, la relazione, la reciprocità sono alla base d’ogni cultura umana. 

 

A distanza di quasi ottant’anni sembra fargli eco uno dei principali antropologi odierni, lo scozzese Tim Ingold, che in Siamo linee (appena tradotto da Treccani) scrive: “ci sarebbero buoni motivi per supporre che nell’aggrapparsi – o, più prosaicamente, nello stringersi l’uno all’altro – stia l’essenza della socialità: una socialità, naturalmente, che non si limita all’umano, ma si estende alla vasta gamma di creature che si aggrappano e delle persone o delle cose a cui si attaccano”. Come dire che, se pure siamo esseri filiformi (linee, appunto), il nostro destino sociale è quello di abbarbicarci l’un l’altro, di intrecciarci di continuo formando grovigli, nodi, reticoli: da cui l’esistenza dei gruppi sociali, delle collettività organizzate, delle culture. Anche qui il predominio basilare del legame, del rapporto vicendevole.

L’emergenza del nuovo, micidiale virus che sta colpendo, a ritmi sfasati, mezzo mondo (o forse tutt’intero), porta e riflettere su questo genere di convincimenti – i quali, sino a pochissimo tempo fa, consideravamo niente più che ragionevoli, indiscutibili. Ma che ne è del contatto ai tempi del contagio, come dire del coronavirus (pardon, Covid19)? e con esso della socialità, delle culture, di quel vivere insieme che consideriamo – a ragione – umano e non solo? Molto poco, a prima vista. La possibile contaminazione impone una presa di distanza, un regime topologico di sicurezza minima, dunque un riassesto complessivo delle relazioni spaziali fra individui singoli o intere società.

 

In molti, in questi giorni, parlano di uno spegnimento della socialità dovuto alla progressiva eliminazione dei contatti fisici, causata dal panico da infezione o da espresse disposizioni di legge. Almeno un metro l’uno dall’altro, dicono esperti e loro avatar, che sarebbe la distanza supposta necessaria per evitare – o quanto meno scoraggiare – il diffondersi del virus. Ma c’è chi preferisce evitare del tutto i contatti: niente baci, strette di mano, abbracci, pacche sulle spalle, effusioni d’ogni tipo. Tutti rigidi, tutti frigidi. E niente assembramenti in aule scolastiche o universitarie, teatri e cinema, ascensori e ristoranti, ospedali, palestre e così via. Da sostituire alla bisogna con relazioni interpersonali mediate da adeguate tecnologie comunicative, dal banale telefonino ai servizi di delivery prenotati on line fino alle più sofisticate applicazioni smart per un e-learning tanto forzato quanto benedetto. 

 

 

Così, non è mancato chi ha indicato il solito complotto del capitale per ingabbiare le masse controllandone a menadito gli spostamenti sul territorio. E chi ha profetizzato l’apocalisse prossima futura dovuta a una biopolitica sparizione della corporeità per opera di una tecnologia disumanizzante. L’eliminazione dei contatti porterebbe alla disgregazione sociale. Niente più amori giovanili nei corridoi scolastici, strusci al centro commerciale, carezze clandestine negli anfratti dell’ufficio. Per non parlare delle assemblee di fabbrica, delle adunate di piazza, dei rave notturni nei terrain vague periferici. Nessuna sardina potrebbe oggi sopravvivere al timore da pandemia. 

Ecco, insomma, riemergere la vecchia idea che oppone la fisicità alla digitalizzazione, il corpo alla tecnologia, il reale al virtuale, l’esperienza diretta a quella mediata. Stereotipo duro a morire. Pronto anzi a risorgere nella bocca del solito apocalittico in servizio permanente effettivo. Pensiamo ogni volta d’aver mostrato e dimostrato come queste opposizioni siano più caricaturali che altro, dato che la mediazione è sempre e dovunque, ma – sembra – invano.

 

Potrebbe allora venirci in soccorso (lo ha indicato giorni fa Paolo Fabbri al Tg1) la vecchia prossemica, studio antropologico delle distanze fra le persone e dei loro relativi significati prospettato negli anni 60 del Novecento da Edward T. Hall in libri dimenticati come Il linguaggio silenzioso o La dimensione nascosta che mai come oggi varrebbe la pena riaprire. Termini come ‘vicino’ e ‘lontano’, diceva Hall, sono del tutto relativi, dato che cambiano non solo a seconda delle relazioni che intercorrono fra le persone ma anche a partire dalle culture in cui costoro si trovano a vivere. I territori del sé, come poi li ha chiamati Erving Goffman, mutano parecchio e senza sosta: c’è una distanza critica (l’amore o la lotta), una personale (la confidenza amicale), un’altra sociale (al lavoro o fra estranei), un’altra ancora pubblica (con icone dello spettacolo o uomini politici). Il problema è che queste distanze non si possono misurare una volta e per tutte: basta viaggiare un po’ per rendersene conto. È noto per esempio che negli Stati Uniti la distanza media fra persone è enormemente superiore a quella che esiste fra le popolazioni mediterranee e, soprattutto, fra gli arabi. Così, quando noi europei andiamo in America ci sembra che le persone, allontanandosi sistematicamente dal nostro corpo, vogliano schizzinosamente evitarci, mentre se andiamo nel Maghreb, dove la gente ci sta a pochi centimetri, crediamo che tutti vogliano farci delle profferte sessuali. I codici culturali regolano anche questo genere di situazioni: basta saperli padroneggiare per adattarci al meglio un po’ dovunque.

 

Sappiamo inoltre, da McLuhan a Baudrillard a Meyrowitz, quanto i media, vecchi e nuovi, abbiamo lavorato per modificare non tanto le distanze fra le persone quanto i loro significati. Oggi una star del cinema o un uomo politico entrano a casa nostra regolarmente attraverso lo schermo televisivo: stanno con noi a una distanza personale, fanno parte della nostra famiglia (al punto che, se ci capita di incontrarli per strada, tendiamo a salutarli affettuosamente). E, d’altra parte, se i social network si chiamano così è perché non negano la socialità ma ne instaurano un’altra, diversa quanto si vuole, ma pur sempre tale.

Tornando alla nostra situazione contingente, il tema da discutere non è l’abolizione del contatto – e del contratto – sociale ma la forte modificazione delle distanze fra le persone. Abolita la distanza critica, tutte le altre, come per un effetto domino, si trasformano a loro volta. Esigendo nuove codificazioni, attendendo nuovi significati. Più che lamentarci per la fine dello struscio o inneggiare al dominio del virtuale, solita sterile dialettica, meglio monitorare le semantizzazioni possibili delle nuove distanze che si sanno imponendo fra noi. Non sappiamo bene cosa accadrà, ma possediamo i mezzi per pedinare la nascita, l’affermazione e la trasformazione delle ulteriori forme prossemiche che il maledetto virus – o chi per lui – ci sta imponendo. Magari dando qualche suggerimento, proponendo qualche correttivo, avanzando qualche critica sensata. Provando a ripensare le quarantene come opportunità. 

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Un umanesimo rigenerato

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Con l'esplosione del Coronavirus siamo assoggettati a un isolamento fisico ma disponiamo di mezzi di comunicazione in parole (telefono), immagini (i video su Whatsapp e sui social, Skype), testi (email) e disponiamo di radio e TV che ci mettono in comunicazione con gli altri e con il mondo; allo stadio attuale, in risposta alla segregazione, ci siamo aperti e siamo diventati più attenti e solidali gli uni con gli altri. La vita di coppia o di famiglia migliora, a parte le coppie infernali. Sono i solitari senza telefono né televisore, e soprattutto i non confinati, vale a dire i senzatetto, a essere le vittime assolute dell'isolamento, tanto più che sono dimenticati dal potere e dai media.

 

Per quanto mi riguarda, pur subendo l'isolamento fisico, mi sono sentito proiettato psichicamente in una comunicazione e una comunione permanenti. Non solo attraverso gli scambi sms, email, telefoni e videochiamate con le mie figlie, i miei familiari, le persone che amo, i miei amici, ma anche attraverso informazioni che non solo ricevo dalla TV ma che continuo a ricercare in numerosi documenti su internet, ovviamente medici ma anche riguardanti tutti gli aspetti della crisi. Mi sono sentito intensamente partecipe, non foss'altro che per lo stesso isolamento, al destino nazionale e al cataclisma planetario. Mi sono sentito più che mai proiettato nell'avventura incerta e sconosciuta della nostra specie. Ho sentito più forte che mai la comunità di destino di tutta l'umanità.

 

Attualmente siamo di fronte a una tripla crisi.

 

La crisi biologica di una pandemia che minaccia indistintamente le nostre vite e supera le capacità ospedaliere, soprattutto là dove le politiche neoliberiste non hanno mai smesso di ridurle. 

 

La crisi economica, nata dalle misure di restrizione assunte contro la pandemia che rallentano o arrestano le attività produttive, di lavoro, di trasporto, non potrà che aggravarsi se l'isolamento diventasse durevole.

 

La crisi di civiltà: passiamo bruscamente da una civiltà della mobilità a un obbligo di immobilità. Vivevamo principalmente all'esterno, al lavoro, al ristorante, al cinema, agli incontri, alle feste, ed eccoci costretti alla sedentarietà e all'intimità. Consumavamo sotto l'influenza del consumismo, cioè la dipendenza da prodotti di qualità mediocre e virtù illusorie, l'incitamento all'apparentemente nuovo, alla ricerca del più invece che del meglio. L'isolamento potrebbe costituire un'opportunità di disintossicazione mentale e fisica che ci permetterebbe di selezionare ciò che è importante e rifiutare ciò che è frivolo, superfluo, illusorio. Ciò che importa è naturalmente l'amore, l'amicizia, la solidarietà, la fraternità, la fioritura dell'Io in un Noi.

 

Sotto questo profilo l'isolamento potrebbe suscitare una crisi esistenziale salutare in cui rifletteremmo sul senso delle nostre vite.

 

Queste crisi sono interdipendenti e si alimentano a vicenda. Più si aggrava una, più questa aggrava le altre. Se una diminuisce, essa diminuirà le altre. Così, finché l'epidemia non regredirà, le restrizioni saranno sempre più forti e l'isolamento sarà vissuto sempre di più come un impedimento (di lavorare, di fare sport, di andare alle riunioni e agli spettacoli, di curarsi la sciatica o i denti ecc.). 

 

Edgar Morin, Riccardo Mazzeo


Più profondamente, questa crisi è antropologica: ci rivela il lato debole e vulnerabile della formidabile potenza umana, ci rivela al tempo stesso che l'unificazione tecnoeconomica del globo ha creato non solo un'interdipendenza generalizzata, ma anche una comunità di destino senza solidarietà. Questa crisi molteplice dovrebbe suscitare una crisi del pensiero politico e del pensiero in senso stretto. L'economia che fagocita la politica, l'ideologia neoliberista che fagocita gli aspetti economici, l'intelligenza del calcolo che fagocita l'intelligenza riflessiva, tutto ciò impedisce di concepire gli imperativi complessi che si impongono: combinare la mondializzazione (per tutto ciò che è cooperativo) e la demondializzazione (per salvare i territori desertificati, le autonomie di sussistenza e sanitarie delle nazioni); combinare sviluppo (che comporta quello, positivo, dell'individualismo) e coesione (che è solidarietà e comunità); combinare crescita e decrescita (determinando quel che deve crescere e quel che deve decrescere). La crescita porta in sé la vitalità economica, la decrescita porta in sé la salvezza ecologica e il disinquinamento generalizzato. L'associazione di ciò che sembra contraddittorio è qui logicamente necessaria.

 

Ancora una volta siamo in guerra contro un nemico esterno, ma questo nemico è spalleggiato da un nemico interno dell'homo sapiens/demens, che lo rende incessantemente cieco o delirante. Non vedo come si potrebbe esortare gli spiriti e le intelligenze ad affrontare la complessità dell'umano, della vita, della società, del mondo, senza una riforma dell'educazione e della formazione.

 

Non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, abbiamo bisogno di un umanesimo rinvigorito e rigenerato.

 

L'umanesimo ha assunto due volti antinomici in Europa. Il primo è quello della quasi divinizzazione dell'umano, destinato a padroneggiare la natura. L'altro umanesimo è stato formulato da Montaigne in una frase: “Riconosco in ogni uomo un mio compatriota”. Bisogna abbandonare il primo e rigenerare il secondo. 

 

Innanzitutto la definizione dell'umano non può limitarsi all'idea di individuo. L'umano si definisce con tre termini altrettanto inseparabili l'uno dall'altro di quelli della trinità: l'umano è al tempo stesso un individuo, una parte, un momento della specie umana, e una parte, un momento di una società. È al tempo stesso individuale, biologico, sociale. 

 

L'umanesimo non potrebbe ormai ignorare il nostro legame ombelicale con la vita e il nostro legame ombelicale con l'universo. Non potrebbe dimenticare che la natura è in noi così come noi siamo nella natura.

 

Il fondamento intellettuale dell'umanesimo rigenerato è la ragione sensibile e complessa. Non bisogna seguire soltanto l'assioma “Non c'è ragione senza passione, non c'è passione senza ragione”, ma la nostra ragione deve sempre essere sensibile a tutto ciò che riguarda gli esseri umani. 

 

L'umanesimo rigenerato si abbevera coscientemente alle fonti dell'etica, presenti in tutte le società umane, che sono la solidarietà e la responsabilità. La solidarietà suscita la responsabilità e la responsabilità suscita la solidarietà. Queste fonti restano presenti, ma in parte prosciugate e inaridite nella nostra civiltà per effetto dell'individualismo, della dominazione del profitto, della burocratizzazione generalizzata. L'umanesimo deve mostrare la necessità di rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità.

 

L'umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario. L'umanesimo di prima ignorava l'interdipendenza concreta fra tutti gli umani divenuta comunità di destino, creata dalla mondializzazione e che questa accresce continuamente.

 

Poiché l'umanità è minacciata da pericoli mortali (moltiplicazione delle armi nucleari, esplosione di fanatismi e moltiplicazione di guerre civili internazionalizzate, deterioramento accelerato della biosfera, crisi e deregolamentazioni di un'economia dominata da una speculazione finanziaria scatenata), a cui si aggiunge ormai la pandemia virale che aumenta questi pericoli, la vita della specie umana e, inseparabilmente, quella della biosfera, diviene una priorità.

 

Affinché l'umanità possa sopravvivere, essa deve effettuare una metamorfosi. Jaspers aveva detto poco tempo dopo la Seconda guerra mondiale: “Se l'umanità vuole continuare a vivere, deve cambiare”.

 

L'umanesimo, a mio avviso, non è soltanto la coscienza della solidarietà umana, ma anche il sentimento di trovarsi all'interno di un'avventura sconosciuta e incredibile. 

 

In questa avventura sconosciuta ciascuno fa parte di un grande essere costituito da sette miliardi di umani, come una cellula fa parte di un corpo fra centinaia di miliardi di altre cellule.

 

Ciascuno partecipa a questo infinito, a questa incompiutezza, a questa realtà così profondamente intessuta di sogno, a questo essere fatto di dolore, di gioia e di incertezza che è in noi così come noi siamo in lui...

 

Ciascuno di noi fa parte di questa avventura inaudita, all'interno dell'avventura a sua volta stupefacente dell'universo. Reca in sé la sua ignoranza, il suo inesplorato, il suo  mistero, la sua follia nella sua ragione, la sua incoscienza nella sua coscienza, e ciascuno porta in sé l'ignoranza, l'inesplorato, il mistero, la follia, la ragione dell'avventura più che mai incerta, più che mai terrificante, più che mai esaltante.

 

Ecco il testo che mi è arrivato ieri sera da Edgar Morin e che ho tradotto per doppiozero, lasciando inalterato il suo tono oracolare. Con lui ho scritto un dialogo per il libro Parlare di Isis ai bambini e un altro dialogo per la prefazione della mia traduzione de L'uomo e la morte. Di lui ho tradotto, oltre a quest'ultimo, altri quattro libri e adesso sto traducendo la sua opera spumeggiante e ciclopica (768 pagine) Les Souvenirs viennent à ma rencontre, che uscirà in novembre per Raffaello Cortina (Riccardo Mazzeo).

 

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Marco Aime, Classificare, separare, escludere

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In un dibattito pubblico-mediatico ossessionato dal sensazionalismo e dall'emotività più irragionevole e infestato da sensibilità populiste, sovraniste, conservatrici, neo e post-fasciste, una questione sociale biologica e sanitaria come il rischio di diffusione di coronavirus Covid-19 si è fin da subito avvinghiato, in modo irrazionale e isterico, al tema della “razza” o dell'etnia. A partire dalla (probabile ma non certa) incubazione “cinese” la vicenda si è colorata di immagini razziste stereotipiche di promiscuità con il mondo animale e con la massa umana, di scarsa igiene e bassa qualità della vita, per poi assumere altre diramazioni che in ogni caso hanno a che fare con il tema del panico da contaminazione e con la metafora della purezza. Peraltro – sia inteso come un'aggravante – avallata da rappresentanti istituzionali, esponenti di partiti di estrema destra: inqualificabili l'uscita televisiva del governatore leghista del Veneto e la sua eco che lasciano esterrefatti per il tasso congiunto di ottusità e razzismo in un solo discorso – "tutti abbiamo visto i cinesi mangiarsi topi vivi"– ; la cosa ha suscitato giuste reazioni di sdegno e irritazione e conferma ulteriormente l'inadeguatezza e l'impresentabilità di troppi vertici della classe dirigente italiana. Il tutto è avvenuto lungo le ormai consuete linee di faglia della società civile, considerato che lo stile retorico populista vive di trovate come questa che hanno i loro difensori, i loro elettori e i loro strateghi. Leggi l'articolo.

 

Quasi come atteso a diradare le nebbie tossiche di questa nebulosa di immaginario e di storia recente della mentalità, complicata da una fase di grande reviviscenza del pensiero mitico nella sua versione sociale digitale telematica, giunge il nuovo libro di Marco Aime: Classificare, separare, escludere sintetizza ottimamente una vasta mole di lavori sul tema e fornisce strumenti intellettuali di grande pregio e finezza, non solo per la comprensione del presente e della sue derive cognitive e sociali ma anche perché già politicamente orientato e finalizzato in modo dichiarato a una difesa della convivenza democratica. 

A mio avviso, dopo molti anni di un continuo smarcamento dall'impegno civile da parte di giornalisti ed editori, fatto di sciatteria e piaggeria verso i potenti quando non di vera e propria adesione politica in senso conservatore, è consolante constatare una presa di coscienza della gravità della situazione in cui versa lo stato dell'etica pubblica del mondo dell'industria culturale e notare, dal mio punto di osservazione, un ritorno dell'impegno da parte di alcuni editori tra i titoli rivolti a un pubblico non specialista. Penso inoltre, da docente di scuola superiore e ricercatore che si occupa sistematicamente di temi di educazione alla cittadinanza, che il libro andrebbe studiato da insegnanti ed educatori: se il progetto di Educazione civica come ora curriculare da integrare nel monte ore annuale ha un senso e avrà un'efficacia sarà perché docenti e dipartimenti disciplinari saranno capaci di ripensare canoni e saperi essenziali per una programmazione e di imprimere un orientamento culturale impegnato a una azione didattica e interdisciplinare condivisa.

 

Grazie alla ricchezza dei riferimenti il libro risulta particolarmente importante, utile e versatile strumento di raccordo tra diverse biblioteche specialistiche. Classificare, separare, escludere affronta infatti il tema razzismi e identità (come indica il sottotitolo programmatico) intrecciando i tre assi disciplinari, storico, antropologico e politico, articolandoli in tre macro-capitoli che vanno da L'invenzione delle razze, attraversano lo scenario che va Dalla razza all'identità fino a delineare I volti nuovi del razzismo

In tutti e tre gli ambiti Aime si muove con grande disinvoltura, richiamando classici e ricerche nuove di riferimento (molti i titoli non in italiano) con un felice uso della citazione saliente che ne aumenta la leggibilità per il lettore non specialista; fornisce una disamina dei diversi razzismi nella storia, a partire dalle dinamiche di xenofobia note al mondo antico per giungere fino alla razzializzazione che in età moderna vede sorgere le categorie stesse di razza, etnia e cultura che servono per definire e costruire le relazioni con soggetti altri, minoranze e subalterni, lungo le principali direttive che il pensiero europeo-occidentale ha utilizzato per catalogare e costruire rapporti, sostanzialmente di dominio, che si intersecano con le geometrie variabili della classizzazione e della sottoproletarizzazione dei gruppi: trovano così ampio spazio una storia dei colori della pelle umana, della giudeofobia e dell'antisemitismo, dell'avversione per l'indigeno e del buon selvaggio, dell'antiafricanismo e della schiavitù, dell'antiziganismo e dell'antinomadismo, dell'antiasiatismo, della sinofobia e del pericolo giallo, il tutto in stretta relazione alla storie che hanno prodotto tali dispositivi socioculturali e al dibattito storico teorico di riferimento.

 

 

Viene così presentata una vera e propria fenomenologia storica che mostra come il razzismo sia un «idioma culturale» che «si presenta sotto forme diverse e si esprime con diverse modalità», che distingue e mostra i legami tra avversione, dominio, sfruttamento, separazione ed eliminazione come modalità di rapporto con l'Altro, declinati nei diversi contesti dello spazio e del tempo.

Risulta di particolare interesse la presenza nella bibliografia di autori coinvolti dal tema a partire dalla loro postura scientifica e autobiografica: tra i tanti che mi sono ripromesso di conoscere meglio per una prospettiva di decolonialità di ampio respiro J-L. Amselle, T. N. Cohates, A. Appadurai, A. Mbembe, A. Hampâté Bâ, É. Glissant; così come di rilievo mi è parso il settore legato ai razzismi degli altri intendendo con questo le concezioni etnocentriche e i relativi addentellati di differenziazione tramite pregiudizio negativo che riguardano ambiti non europei: emergono così «diverse articolazioni» del fenomeno razzista rilevabili in Brasile, Giappone, Cina o nel mondo musulmano. Sensi di appartenenza territoriale e logiche del sangue – discendenza, parentela, tradizione – con relative forme di xenofobia sono ugualmente diffuse e si modificano nel tempo in relazione alla nascita e alla reinterpretazione dei nazionalismi dell'Ottocento.

 

Pur senza nulla togliere alla centralità della prassi imperialista “bianca” ed europea che sostanzia la concezione di modernità, Aime mostra come popolazioni e intellettuali extraeuropei abbiamo interiorizzato, reinterpretato in modo originale o analizzato e elaborato in piena autonomia a seconda dei casi, concetti di marca europea.

Allo stesso modo appare chiaro che l'ossessione illuminista e moderna per la tassonomia sia radicata storicamente nel gesto tipico di Sapiens, a partire dall'esigenza di conoscere, ordinare e classificare la totalità degli oggetti e soggetti del mondo e, in primis, ciò che si presenta come alterità, ogni altro, sulla base di un bisogno primario di padroneggiamento del caos e dell'«assolutismo della realtà» (Blumenberg); questo riguarda ogni forma di conoscenza come risorsa di ogni gruppo umano nella storia dai tempi più remoti. Il che, invece di essere un’attenuante, risulta piuttosto un invito a mantenere alto il tasso di consapevolezza e di sorveglianza sulla “volontà di potenza” che ogni produzione culturale è in grado di esprimere ed esercitare. 

In questo senso, per riprendere i versi di Pessoa (Il guardiano di greggi) «ci sono alberi, fiori, erbe/e ci sono fiumi e pietre/ma che non c'è un tutto a cui questo appartenga» e «un insieme reale e vero/è una malattia delle nostre idee».

 

Sul terreno antropologico e della teoria antropologica Aime dà il meglio di sé, arrivando a mostrare con forza come l'identità non esista, non sia una cosa, e in ogni caso non possa essere considerata una né fissa, ma sia il nome improprio assegnato storicamente a un intrico di processi riflessivi e di sentimenti soggetti a storicità e costruzione sociale. Trovo straordinaria l'espressione in lingua bambara (Mali)«maa ka mmaya ka ca a yere kono» di Hampâté Bâ che viene reso con “le persone di una persona sono numerose in ogni persona”.

Tale rete dinamica di relazioni riflessive, se tolta dal contesto idealtipico e privata del suo carattere mobile, viene – come accade da tempo – ridotta e utilizzata consapevolmente come una nozione escludente e stigmatizzante. Una simile concettualizzazione, che riconfigura in modo radicale il senso del linguaggio costringendoci a scegliere con accuratezza tutte le parole, risulta tanto più significativa quanto restituisce lo scenario di una stagione di profondo cambiamento delle scienze umane e dei fondamenti epistemologici in cui, dichiarata impossibile ogni neutralità, l’oggetto di studi è inteso come il risultato della disciplina che se ne occupa, capace nelle sue forme di scrittura di una sovradeterminazione che può giungere sino all’invenzione. Categorie come cultura, popoli, razza, etnia, nazionalità mostrano così la loro attuale inservibilità, se non nel modo avvertito, problematico e decostruente che si deve agli strumenti concettuali, e si rivelano soggette a smobilitazione, esposte alla mancanza di peso ontologico e di fissità essenzialistica a favore di una concezione oscillante e instabile delle identità, irriducibili a categorie metafisiche e oggetti di continua rinegoziazione da parte degli stessi soggetti che se ne fanno portatori. Viene ribadito ancora una volta come le identità siano sentimenti di appartenenza divenuta e riflessiva, risultato di processi di identificazioni nei quali i soggetti stessi sono attivi e, simili ai sentimenti, non possano mai essere oggettivabili, e di come invece risultino reificati, manipolati e strumentalizzati nei diversi contesti del loro utilizzo. Leggi l'articolo.

 

La dimensione politica si fa infine prioritaria. Emerge in modo chiaro in queste pagine quanto sia storico e mutevole il confronto continuo di elementi di cultura materiale che confluiscono nell'auto-concezione che i soggetti hanno di sé; normalmente tali elementi vengono adottati e adattati, fatti propri e naturalizzati fino a essere incorporati in una concezione organica di cultura, a sua volta concepita come il tratto fondamentale dell'identità. La cultura non è una realtà di tipo super-organico rigida e definita: al contrario risulta dinamica, fluida, mutevole all'interno di rapporti di continua negoziazione che i diversi soggetti intrattengono con sé e tra di loro all'interno delle cornici culturali.

Nella sfera della comunicazione mediatica, invece, prendono vita rappresentazioni delle società culturali costruite sull'idea secondo cui le culture sarebbero sostanze definite tali da realizzarsi in individui che ne sono rappresentanti, incrementando quel razzismo, implicito anche nelle posizioni che simpatizzano verso il primitivismo, costituito dall'idea che gli uomini di un gruppo nascano, senza possibilità di mutamento, portatori di una data cultura e soggetti a un dato destino.

L'immagine ulteriormente sbagliata che ne risulta nella percezione della storia recente è che le società occidentali smetterebbero solamente in questa particolare congiuntura storica, ovvero con la “globalizzazione”, di essere pure e identiche a se stesse: un , o un NOI, che è un'inesistente e presupposta versione data e stabilita da chi ha il potere di farlo, irrigidita e cristallizzata in una determinata serie di immagini. Come sintetizza Francesco Remotti: «L'identità è un espediente ideologico per contrastare tutto ciò che può essere chiamato instabilità, precarietà».

 

Ora, «gli studi di genetica ci hanno dimostrato che non solo non possiamo essere classificati in razze nel senso stretto del termine», che «la cultura di un gruppo [...] si forma sulla base di cause ambientali e storiche nonché sul continuo scambio di idee» e che «possono essere la cultura e la storia a condizionare la biologia» (Aime). L'individuo dunque non è sovradeterminato dalla cultura e le società non sono mai state mono-culturali, in nessuna epoca fin dai tempi più antichi, e si sono invece costruite sullo scambio, sull'incrocio e sull'osmosi, nell'incontro come nel conflitto. Risulta decisivo da questo punto di vista il fatto che lingua, cultura e identità siano sempre state al centro di veri e propri progetti politici e di strategie discorsive radicate nella storia: Le appartenenze nazionali e regionali non sono solo concetti problematici che andrebbero trattati con guanti e pinzette, soprattutto quando si insegna storia o la si maneggia in pubblico, ma sono fenomeni storicamente fondati sulla lotta per il potere tra gruppi rivali a livello sociale, culturale e politico (e non posso per questo non richiamare l'importanza del classico lavoro di Hobsbawm e Ranger su L'invenzione della tradizione).

 

Utilissima dunque, accanto alla denuncia dei razzismi triviali, l'analisi che il libro propone dei nuovi identitarismi e di forme più sofisticate di differenzialismo culturale che stanno alla base delle teorie degli ideologi delle nuove destre radicali, giunte alla presentabilità e alla visibilità attraverso strategie di conquista dell'egemonia culturale, anche con titoli universitari e pubblicazioni.

Dietro «parole dai toni futuristi – scrive Aime – sta il nodo centrale: cosa si intende per “forma etnica” se non la razza, seppure camuffata da dato culturale?».

Nel nuovo «fondamentalismo culturale» (Verena Stolcke) siamo di fronte a uno scivolamento del vecchio razzismo, dalla razza all'etnia alla cultura, verso una nuova versione dell'avversione per il diverso da sé in salsa bio-storica o etnico-culturalista o identitaria che dir si voglia, in base a una logica che fa della fissità e della destorificazione ipostatizzante l'ennesima affermazione dell'indisponibilità a comprendere e ad accettare le differenze.

Pare banale dirlo ancora una volta: i movimenti di integrazione transnazionale politica ed economica hanno portato cambiamenti che molti hanno vissuto con inquietudine e disagio, mutamenti strutturali negli assetti sociali ed economici che vengono percepiti (perché dipinti) come spossessamento dell’identità, una identità tradizionale nostalgica e mai realmente vissuta o esistita, che hanno provocato una reazione di risentimento, paura e rabbia fino a quella esplosione e torsione sulle pratiche identitarie che è diventata ricerca isterica del noi, mito unificante e rito di legame. «L'identità etnica e culturale – sintetizza Tatiana Petrovich Njegosh – altro non sono che postmoderne versioni della razza a difesa di diritti concepiti come beni limitati».

 

Per questo è ancora più odiosa ogni autoassoluzione o misconoscimento del razzismo che si associa alla vittimizzazione da parte delle retoriche nativiste, in Italia una pratica diffusa e legittimata dall'alto, che si è vista in ogni occasione in cui il tema delle migrazioni e del multiculturalismo è stato oggetto di narrazione pubblica; e che ha contribuito alla normalizzazione del discorso su razzismi e fascismi, come se fossero realtà di fatto semplicemente da accettare perché nell'ordine delle cose.

Ancora una volta la semplificazione della realtà e la negazione della complessità dell'esistenza possono diventare la strada maestra per l'affermazione delle pratiche antidemocratiche e antipluraliste, autoritarie e violente; allora, proprio dalla messa in discussione di cosa (non) sia l'identità e dal ripensamento del presunto vincolo tra nascita e nazione, sulla base di una diversa concezione di essere al mondo, ci arriva chiaro l'invito a riconfigurare il rapporto tra idea di cultura ed educazione pubblica. Come ricorda Aime, citando Bauman, “straniero” indica «chi non si adatta alle mappe cognitive, morali o estetiche del mondo e con la sua semplice presenza rende opaco ciò che dovrebbe essere trasparente».

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Una tempesta perfetta

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L’espressione “andrà tutto bene” è diventata ormai inopportuna, persino insopportabile. 

Come può essere diversamente se l’esperienza nega una frase a lungo esibita come un mantra sulle vetrine, sui balconi, sui media, sui social. 

Un’espressione diventata rapidamente virale... cos’altro è se non un meme?

Nient’altro che un espediente contro l’oscurità che abbiamo intorno.

 

Bisognerebbe essere Jorge Borges per poter distillare in versi la paura del buio, lui destinato infine a diventare cieco, consapevole di essere di padre, nonno, bisnonno divenuti ciechi. “Questa penombra è lenta e non fa male; scorre per un mite pendio e somiglia all’eterno. Gli amici miei non hanno volto, le donne son quello che furono in anni lontani... non hanno lettere i fogli dei libri”.

Una paura che il grande scrittore argentino ha distillato in versi come nelle sue ossessioni narrative: il tempo, lo specchio, i labirinti reali e quelli della metafisica con cui ha accompagnato i suoi racconti. Sono ossessioni diverse per la stessa paura, confuse e sovrapposte nelle forme dell’invisibile, dell’ignoto, dell’incomprensibile o delle sue deformazioni (lo specchio).

Per chi Borges non è, resta sempre la necessità di venire a patti con la paura. Ognuno con le sue e solo alcune innate. Tra queste quella del buio appunto, quella dei serpenti, dei ragni, degli estranei: queste sarebbero per tutti certe. 

Perché sembra che ancora portiamo con noi l’eredità atavica dei geni paleolitici, epoca in cui per un tempo lunghissimo siamo stati comunità di cacciatori raccoglitori fatte di poche centinaia di individui: fino a diecimila anni fa, un niente per i tempi dell’evoluzione. 

Lungo quel tempo lunghissimo siamo stati nomadi, camminando il mondo in piccoli gruppi alla ricerca di quanto necessario alla vita: gli “estranei” e gli animali velenosi tra i maggiori timori. Questi ultimi erano il pericolo per una morte che arrivava “invisibile” come lo è sempre il veleno. Perché la paura dell’invisibile se si vuole è la paura del buio travestita nella luce del sole. Perché l’invisibile e il buio sono simili all’occhio umano; entrambi ci rendono ciechi, entrambi in fondo sono la stessa paura.

 

Tra i timori e le angosce di queste settimane, confusa a quella del morbo c’è stata la paura dell’invisibile, legata a doppio filo a quei geni paleolitici rimossi dalla nostra modernità, ma a cui siamo ancora vicini. Sempre di fronte alle grandi epidemie che abbiamo vissuto nell’epoca pre-scientifica – quando la nostra “cecità” era tale da rendere impossibile anche solo immaginare i microorganismi – la paura della malattia è stata anche la paura dell’invisibile. 

Ma l’auto conservazione vuole che la paura debba avere uno sfogo, un bersaglio visibile e poco allora restava se non la magia, se non terapie inventate ai confini di quella, mentre il bisogno di certezze che scuotessero quel buio faceva guardare ai nemici, agli untori, e si scansavano i malati, gli amici, persino i familiari diventavano sospetti...

Poco dunque sembra essere cambiato.

 

Si deve a Richard Dawkins geniale e irregolare biologo, etologo ed altro ancora la nozione di meme. Un meme sarebbe per l’evoluzione culturale quello che è un gene per l’evoluzione naturale. Ovvero “un’unità di informazione” in grado di auto-riprodursi e di trasmettersi. Una riproduzione accurata quella dei geni per una loro trasmissione alla generazione successiva, più o meno veloce, secondo il ciclo biologico di ogni specie (lentissima nella specie umana che si riproduce dopo i vent’anni, velocissima quella di tutti i microrganismi). Come una trasmissione velocissima è quella dei memi, verticale attraverso l’insegnamento, e soprattutto orizzontale attraverso la popolazione e il presente che viviamo. Qui non è tanto l’accuratezza quella che conta – le relative storpiature e deformazioni dei passaggi di bocca in nocca – ma conta la diffusione detta non a caso “virale”, vale a dire una diffusione rapida e utile nell’immediato seppur non accuratissima. Il meme sarebbe per una popolazione un’improvvisa modifica e accelerazione della informazione disponibile.; un luogo comune, una moda, un comportamento, l’espressione di un sentimento possono essere memi, ovvero un’informazione da trasmettere ma anche da selezionare certo in base all’utilità, ai vantaggi o alla sua capacità di essere persuasiva, di rendersi “mimetica”, vale a dire facilmente accettabile. 

Non esistono memi per le paure innate ma esistono le immagini e le risposte con cui confondiamo quelle paure. Il meme “andrà tutto bene” è stato l’equivalente di un balletto x spiriti benigni, è un esorcismo di fronte all’invisibile, è espressione che i social possono amplificare fino a far diventare idiozia più che una consolazione.

 

 

Eppure... eppure oggi non siamo completamente “ciechi” e tutti siamo in grado almeno di immaginare gli invisibili microrganismi che si sovrappongono ai morbi infettivi. 

Eppure, nostro malgrado non sembra restare ancora troppo vicina la Milano del Manzoni?

Forse perché in fondo ancora pochi conoscono le differenze tra batteri e virus e pochissimi sanno dei meccanismi di replicazione di questi ultimi, il loro essere “parassiti obbligatori” delle cellule di cui sfruttano le strutture e il metabolismo. Oggi come secoli fa, sembra essere ancora la paura dell’invisibile il problema...

Del resto, tutto questo è il regno della biologia, o meglio, come ha scritto Luigi Luca Cavalli Sforza (Genova, 25 Gennaio 1922 – Belluno, 31 Agosto 2018), a partire dal Novecento è il regno della genetica, che della biologia è la disciplina sovrana, quella decisiva nello svelare i meccanismi della vita e della sua trasmissione. È la genetica che può spiegare il passaggio per cui dei virus ospiti di una specie (pipistrello, scimpanzé o altro animale, improvvisamente saltino di specie – spill over – riconoscendo e riproducendosi nelle cellule umane. È la genetica che ci può dire perché in un tempo sufficientemente lungo un virus generalmente riduce la sua letalità adattandosi alla specie ospite, pur continuando ad esistere e a riprodursi. È la genetica che potrebbe spiegare la differente incidenza del Covid 19 sull’uomo rispetto alla donna o quella, perlomeno supposta, di una minor sensibilità al virus di talune popolazioni africane. Sarà soprattutto la genetica a dire una parola definitiva nella scoperta e nella realizzazione di un vaccino. È ancora è la genetica che può dare ragione e spiegazione della complessità della vita – dalla cellula umana a un’unità infettante elementare quale è un virus – che può spiegare come questa complessità si evolva nel tempo adattandosi alle diverse condizioni ambientali.

 

Luigi Luca Cavalli Sforza è stato un medico e uno scienziato geniale, i cui interessi per molti decenni hanno spaziato dalla genetica, all’antropologia, alla statistica medica, all’evoluzione della specie umana ricostruendone la storia attraverso i geni come il linguaggio.

Un suo libro recente, L’evoluzione della cultura (2019 Codice Edizioni) può fare luce su molti dei meccanismi e sulla storia che ci rendono una specie così particolare, una specie in grado di evolvere e adattarsi all’ambiente non solo geneticamente ma anche culturalmente, modificando ampiamente quello stesso ambiente in cui vive,

L’incertezza, l’ansia, la vulnerabilità attuale conseguente all’epidemia da Covid 19 è in gran parte scritta nella storia genetica e culturale della nostra specie, così come in quella dei virus, per i quali l’evoluzione è solo genetica. 

Quell’incertezza, quell’ansia, quella vulnerabilità sono sì parte della genetica, della biologia, della storia della nostra specie. ma in questi giorni sono state anche la conseguenza di una relativa diffusa incapacità di cogliere la complessità della vita in tutte le sue forme. 

Nelle città tecnologiche e certe in cui ci avvolgiamo, in cui tutto sembrava noto, raggiungibile, acquistabile, condivisibile, abbiamo riscoperto la sfuggente complessità dei fenomeni vitali e la nostra fragile ignoranza.

Perché viviamo ancora una scarna consapevolezza rispetto alle conoscenze necessarie a comprendere la complessità della vita nella sua “invisibilità”.

 

Così, è come se fossimo rimasti travolti da una tempesta perfetta: da una parte la realtà genetica e culturale della nostra specie – siamo quello che siamo e quello che “siamo diventati evolutivamente” – dalla stessa parte la realtà genetica dei virus, che da milioni di anni possono riprodursi solo infettando cellule viventi, dall’altra, improvvisamente e inaspettatamente, l’emergere di paure ancestrali e delle relative immagini con cui proteggersi: le une e le altre, a torto, immaginate come scomparse. 

Tra evoluzione naturale ed evoluzione culturale, tra geni e memi può esserci molto della complessità della vita di una popolazione e di quella delle sue comunità.

Chi in questa tempesta cercasse una qualche luce per rischiarare il buio, anche quando questa emergenza sarà passata, può trovarla – in cambio solo di un po’ di attenzione e della consapevolezza di cui sopra – nelle parole, nel libro e in genere in tutta l’opera di Luigi Luca Cavalli Sforza.

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Il virus che sfugge alla presa dei saperi

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L’antropologo Clifford Geertz parla dell’uomo come di “un animale sospeso a ragnatele di significato che lui stesso ha filato”.

Che cosa accade quando la trama di queste ragnatele viene lacerata? Non è difficile immaginarlo, è già accaduto, e non smette di accadere: l’animale-uomo precipita, con le sue costruzioni e i suoi azzardi mentali, nell’abisso che da sempre è aperto sotto i suoi piedi. 

Augusto Placanica, storico e filosofo delle catastrofi, parla di un’onda lunga dei terremoti, un effetto a distanza, una crepa invisibile nel tessuto del pensiero, che spinge a riconsiderare il suo ambito d’azione e le sue stesse possibilità.

Prendiamo il terremoto di Lisbona del 1755, di cui ha recentemente parlato anche Gabriele Pedullà su “L’espresso” del 19 aprile. Nel 1751, inizia la grande fioritura dell’Illuminismo, con il monumentale disegno dell’Encyclopédie diretta da Diderot e d’Alembert. La luce dei Lumi comincia a diffondersi fino al momento in cui, nella città di Lisbona, alle 9.30 del 1 novembre, la terra trema, torna l’oscurità, e la Storia pare scivolare all’indietro. L’orizzonte si fa buio: “Che può lo spirito vedere all’orizzonte? Nulla: il libro del Destino si chiude alla sua vista”, scriverà Voltaire nel suo Poema sul disastro di Lisbona

Uno schianto improvviso, l’intera città e la sua vita annientate nel giro di pochi minuti. Un brivido di morte attraversa l’Europa, dalla penisola iberica fino all’estremo Nord. E non ha fomentato soltanto le paure dell’uomo del tempo, ha polverizzato le sue certezze. Per anni, il fantasma di Lisbona agita il sonno dei grandi pensatori europei, che si applicano al funesto evento in una meditazione serrata e dal tono drammatico: Diderot, Kant, Rousseau, Voltaire. Il grande pensiero europeo transita per Lisbona, o per quello che ne resta. 

 

Prima di ricadere a terra, Lisbona ondeggia come “grano al vento”. Vengono abbattute le sue fondamenta, con tutto quello che, nel tempo, ci è cresciuto sopra, i palazzi sontuosi, le chiese, il più ampio cerchio delle umili case, il tracciato delle strade e delle piazze, i tortuosi arabeschi dei suoi vicoli, vale a dire lo spazio dell’umano e i suoi segni. Lisbona non c’è più. Dalla poltiglia polverosa e fumante delle rovine affiorano le spoglie della vita che ha animato la città. E si alza una nube densa di dubbi e domande, pensieri irrequieti, e parole in movimento.

Il terremoto di Lisbona (un “terremoto filosofico” è stato definito) ha messo a soqquadro il pensiero, ha rovesciato le sue tavole, stravolte le mappe, con il corredo dei suoi nomi altisonanti: Dio, Natura, Uomo, Male, un intero lessico della mente sbriciolato, con le sue triangolazioni, i suoi riti, le sue cerimonie. 

Lisbona è una lama conficcata nel corpo del pensiero, dritta al suo cuore. La diffusa convinzione che il mondo sia ordinato al bene, o comunque sia ordinato, disposto in armonia di cause ed effetti, scritto in “lingua matematica”, tutto questo va in frantumi insieme ai palazzi e alle case della città, inabissato con i suoi morti.

Nel suo Poema, Voltaire, che ha patito la scorreria devastatrice del disordine, raccoglie l’enorme portata interrogativa dell’evento. Non c’è ragione che lo possa contenere, o comprendere: esso eccede ogni umana misura.

 

“Filosofi che osate gridare tutto è bene,

venite a contemplare queste rovine orrende, 

muri a pezzi, carni a brandelli, e ceneri.

Donne e bambini ammucchiati uno sull’altro

sotto pezzi di pietre, membra sparse; 

centomila feriti che la terra divora, 

straziati e insanguinati ma ancora palpitanti.”

 

“Confessiamolo pure, il Male è sulla terra…La ragione profonda resta sconosciuta”, così Voltaire conclude il suo canto accorato e dolente. 

 

Ho evocato, e sommariamente ricostruito, questo tragico passaggio storico per arrivare a dire che, mutati tempi e circostanze, l’epidemia del Coronavirus, di cui stiamo facendo esperienza, può essere il nostro “terremoto filosofico”, un luogo di domande, che affiorano dalla “voragine” in cui siamo precipitati. Che esito dare ai pensieri assediati delle nostre quarantene? E al borbottio mentale, quando, murati nel “distanziamento”, ci mettiamo in fila al supermercato? Uno sciame di pensieri insonni, per nulla saldi, schizzi d’ansia nel generale smottamento psichico, e nella combustione dei cuori.

Scrutando la fila al supermercato, oggi abbastanza lunga, ho il tempo di chiedermi come può una società come la nostra, che era già prossima alla stagnazione, mantenersi in vita con l’immobilità, con la sincope sociale, e come può il ridotto orizzonte delle mura domestiche diventare la nuova frontiera dell’immunizzazione, l’ultimo baluardo da cui difendere la nostra vita.

Me lo chiedo, e provo a rispondermi, come credo facciano molti, che, almeno per il momento, sono le sole misure efficaci per piegare il virus, o attenuare la sua invadenza aggressiva, sfuggendo al suo abbraccio, lasciandolo precipitare nel vuoto. 

 

 

Mi rispondo che non c’è altra strada da percorrere, sperando che non sia un vicolo cieco, dove ci spinge la forza della Necessità, come in una rappresentazione tragica. La mia parte più diffidente rumoreggia, inducendomi a sospettare che dall’insieme di queste misure possa sortire una specie di sovranismo domestico. Diffidenza inopportuna? Può darsi. Devo però dire che mi prende lo smarrimento, quando sento la dissoluzione di ogni relazione sociale considerata come una forma di solidarietà, l’autoisolamento come attenzione all’altro. Mentre i corpi vengono aspirati dalla vertigine digitale, s’inneggia a una nuova sensibilità. Virtuale, naturalmente.

Noto poi che nelle lunghe file per accedere al supermercato, nessuno parla con chi gli sta attorno, davanti o dietro, come se fosse svanito nella distanza prescritta: un metro è un oceano, dove il mio vicino naufraga, evanescente come un fantasma. E sono io a spingerlo in quelle acque. Quantomeno non lo trattengo.

 

Il cellulare regna sovrano (si parla solo con il proprio simile), tronfio nel suo protagonismo. Se no, silenzio, in un surplus di prudenza, o di paura. Perché? Forse perché l’altro è ritenuto un antagonista, un’ipotetica fonte d’infezione, il sociale stesso è visto come una fonte d’infezione, la soglia del pericolo, zona rossa; oppure semplicemente perché, quando il virus si è avventato su di noi, la società era già finita, disgregata per effetto dello tsunami individualista. Da tempo, Alain Touraine parla della “fine del sociale”, e segnalo che s’intitola La morte del prossimo un libro di Luigi Zoja del 2009 (“L’uomo metropolitano si sente sempre più circondato da estranei”, scrive Zoja). Ed eccoli qua gli estranei, sigillati nel silenzio, eccoli inquadrati, nel loro sinistro splendore, in una fila abbastanza ordinata di un supermercato romano, il cui nome sembra una presa in giro: “Élite”.

È pur vero che l’emergenza sanitaria ha riportato in vita un desiderio di prossimità, che da tempo versava in pessime condizioni. Durerà?

Rientrando a casa, resto impigliato nelle mie domande. Ma trovo un buon appoggio (si può trovare sostegno in uno sguardo limpido) nel passaggio di un libro di Vladimir Jankélévitch di oltre quarant’anni fa (“Quelque part dans l’inachevé”). Nonostante le tante piroette della nostra storia, francamente le sue parole non mi sembrano tramontate:

“Sostengo che noi siamo in uno stato d’indigenza. E che il nostro sapere, esso stesso indigente, ci priva di ogni punto fisso, di ogni sistema di riferimento, di contenuti facilmente decifrabili, in grado di farci tirare delle conclusioni, alimentare il discorso e aprire un lungo avvenire di riflessioni. Questo nostro sapere che non sa è piuttosto una prospettiva, un orizzonte… Eccoci improvvisamente muti di fronte all’irriducibile”.

 

Credo di poter dire che “Doppiozero” stia dando un contributo importante per orientarci nel paesaggio di rovine mentali che andiamo accumulando, e quotidianamente ci capita di esplorare. Strappando qualche parola al “mutismo” “di fronte all’irriducibile” (è una forma di mutismo anche il frastuono dei media). 

“Qualcosa è accaduto, ha scritto Rocco Ronchi in “Teologia del virus”, segnando una discontinuità radicale e irreversibile nelle nostre vite, ma non ha un contenuto da offrire al sapere. Restiamo attoniti, istupiditi, senza un discorso capace di trasformare il colpo subito in un sapere comunicabile”.

Il virus sfugge alla presa dei saperi, non conosce il galateo scientifico, rifiuta ogni intento classificatorio. Indocile, non si fa trovare dove lo si aspetta. Ed è curioso, ma significativo, che ad essere spiazzati siano stati proprio quei saperi della vita che, fino a ieri, sembravano vicini a un esteso dominio sul vivente. 

Per risollevarsi dopo questo “terremoto filosofico”, occorre destreggiarsi nelle forme monche di un sapere dalle verità ridotte, un “semi-sapere”, il solo, mi pare, cui si possa, oggi, legittimamente aspirare. Servono pensatori acrobatici, funamboli, che non temano l’infezione dell’anomalia, i salti e le rotture del discontinuo.

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Pensatori acrobatici e funamboli
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Leiris fantasma

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Guardiamola anzitutto come una storia di oggetti. Oggetti rituali e d’uso comune nelle vetrine e negli archivi del Musée d’Ethnographie del Trocadéro. Un museo fondato nel 1878, in pieno evoluzionismo antropologico, in forte concorrenza con altri musei più noti, e presto meta di artisti incuriositi dall’arte “negra”. Quel museo, demolito nel 1935 e ricostruito nel 1937 in occasione dell’Esposizione Universale, sarebbe diventato il Musée de l’Homme, un luogo unico a Parigi almeno fino alla creazione del Musée du Quai Branly. Ma intorno agli anni Trenta era solo un dignitoso museo minore al quale mancava l’energia per farsi notare. Mancavano i “pezzi”, insomma, perché le raccolte provenienti dalle passate spedizioni etnografiche non erano sufficienti per allestire un luogo memorabile. Bisognava fare qualcosa ed erano gli anni giusti per farlo. La Francia coloniale, come il resto d’Europa, andava volentieri a braccetto con l’antropologia, e una grande spedizione etnografica in Africa avrebbe sostenuto tanto il nazionalismo imperialista quanto lo sguarnito Musée d’Ethnographie. Così, nel 1931, il Parlamento francese votò i finanziamenti alla Missione Dakar-Gibuti. Dietro al progetto c’era nientemeno che il grande e influente Marcel Mauss, ma la conduzione venne affidata a una nuova generazione di etnologi, primo tra tutti Marcel Griaule. Questo dovrebbe farci drizzare le orecchie.

 

 

Griaule è infatti l’autore di Dio d’acqua (1948), una memorabile monografia sulla cosmogonia Dogon, un libro in grado di esplodere ben oltre la bolla degli specialisti e una crux epistemologica per l’antropologia. Mentre insomma la nuova etnografia francese, con una spedizione molto mediatizzata per l’epoca, gettava le basi per fissare quello che poi sarebbe diventato il dogma scientifico della ricerca sul campo, contemporaneamente generava il contesto che avrebbe portato a un’opera in cui è piuttosto arduo distinguere tra soggettività e oggettività delle fonti. In altre parole, l’africanistica francese generò un’ambiguità cognitiva per molti versi fertile, e non è casuale che Michel Leiris facesse parte proprio della Missione Dakar-Gibuti del ’31-’33. Non era certamente un caso per quei giri di conoscenze che a volte danno una spinta al destino di una persona. Nel 1929 Leiris trovò infatti un impiego come segretario di redazione della rivista d’arte Documents, fondata da Georges Bataille e Georges Henri Rivière, guarda caso vice-direttore del Musée d’Ethnographie del Trocadéro. Fu appunto Rivière che mise una buona parola perché Marcel Griaule assumesse il ventottenne Leiris come segretario d’archivio della Missione Dakar-Gibuti. Non sapeva partendo che avrebbe scritto uno dei capolavori assoluti del XX secolo, oggi finalmente ristampato in una nuova, ricca edizione italiana (Quodlibet/Humboldt) con postfazione a cura di Barbara Fiore, traduzione del 1984 di Aldo Pasquali e 40 fotografie in parte inedite della Missione Dakar-Gibuti, una restituzione accurata, minuziosa, che prende in conto le nuove edizioni francesi e correda il testo di un ricco e indispensabile apparato di note. Ma torniamo un momento a Documents. La rivista visse per così dire il tempo di una stagione, dal 1929 al 1931, ma i suoi quindici mirabolanti numeri ci aiutano a capire meglio questo nodo epistemologico dell’etnografia francese. In coerenza con l’amore di Bataille per le giustapposizioni eclettiche tra immagini e idee, il principio alchemico della rivista era quello di incrociare l’etnografia con le avanguardie artistiche del tempo, tanto che Picasso, Miró, Klee e Dalí venivano presentati a fianco dell’arte preistorica e tribale. Nel comitato di redazione della rivista c’era André Schaeffner, altro membro della Missione, e lo stesso Marcel Griaule ne fu il segretario di redazione nel 1929, sostituito appunto da Leiris in attesa che tornasse da un viaggio etnografico in Etiopia.

 

 

La Missione Dakar-Gibuti partì il 19 maggio 1931 da Bordeaux con il battello a vapore Saint-Firmin e arrivò a Dakar il 31 maggio. Il 30 gennaio 1933 arrivò a Gibuti e con il battello a vapore D’Artagnan fece ritorno a Marsiglia il 17 febbraio. Annota Leiris il 19 maggio 1931 nel suo diario: “Partenza da Bordeaux alle ore 17 e 50. Gli scaricatori mettono un ramoscello sul Saint-Firmin per indicare che il lavoro è finito. Alcune puttane salutano gli uomini dell’equipaggio con cui hanno dormito la notte precedente. Sembra che, all’arrivo della nave, fossero venute sulla banchina per visitare gli uomini e passare la notte con loro. Alcuni lavoratori negri del porto guardano partire i compagni. Uno di loro, con un completo blu marina doppio petto à trois étages, un berretto a quadri e scarpe di vernice nera e daino bianco, è molto elegante”.  E il 16 febbraio 1933 scrive: “Ho rimesso i documenti nella cassetta, chiuso le valigie, preparata la biancheria per domani mattina. Scrivo queste righe nella cuccetta. La nave beccheggia leggermente. Ho la mente sgombra e il respiro tranquillo. Non mi resta altro da fare che chiudere questo taccuino, spegnere la luce, allungarmi, dormire – e fare dei sogni…”. I semiologi ci dicono che per capire un libro bisogna cominciare dalla fine. Ricordiamoci dunque di questi sogni. Intanto, in mezzo alla prima e all’ultima annotazione, si estende il monumentale diario che con il titolo L’Afrique fantôme, pubblicato nel 1934 da Gallimard, Michel Leiris firmerà con le parole di Ugo Fabietti “un magnifico quanto problematico resoconto”. Magnifico per tutti, problematico per gli antropologi, perché infatti il difficile usage del resoconto di un tardivo studente di etnologia nonché segretario della spedizione Griaule difficilmente ha garantito al suo autore qualcosa in più di due righe nei manuali di antropologia.

 

 

Perché? Erano i primi anni Trenta del Novecento, quando una disciplina sociale provava a farsi scienza e alcuni tentativi eclettici non potevano rientrare in un canone accademico? O il problema è quello di una storia dell’antropologia che forse oggi farebbe fatica ad accettare anche un capolavoro come Il mio museo della cocaina (Milieu 2019) di Michael Taussig? Oppure è l’annosa questione dello strange romance tra letteratura e antropologia, sondata con dovizia d’esempi da Alberto Sobrero in Il cristallo e la fiamma (Carocci 2009)? Probabilmente un po’ di tutto, ma sappiamo che l’ostracismo accademico del diario di Leiris fu decretato da Mauss, da Rivière e dallo stesso Griaule, perché lo trovarono sconveniente nei toni e nelle prese di posizione antietnografiche, quando non addirittura esplicitamente ostile verso l’etnografia di rapina e la tipica violenza coloniale nello strappare “ai negri” oggetti e informazioni. Ma il fantasma che abita il testo di Leiris, lo si capisce a poco a poco, è molto più inquietante di una mera critica politica a un sistema di potere accademico, economico e militare. La critica vera, quella profonda e che inquieta anche oggi gli antropologi, ormai concordi nel riconoscere e ricusare le origini colonialiste dell’antropologia, è la messa in discussione del dogma dei dogmi della ricerca etnografica: il campo. Il discorso è annoso e complesso, ma chi a tutt’oggi invoca il campo come discrimine scientifico-valutativo in ambito accademico, e magari in operazioni concorsuali, elogerà per sempre la bellezza “poetica” di un Leiris ma non potrà accettare le sabbie mobili della sua “autoetnografia”, perché mescolare osservato e osservatore significa smantellare il mito positivista della conveniente distinzione ontologica tra soggetto e oggetto della ricerca.

 

 

“25 febbraio [1932] Parlo egoisticamente. Ma se penso agli altri, ciò non può non confermarmi nell’idea che lo stato di cose in cui viviamo è ignobile e che (è il minimo!) non deve essere consentito il più piccolo sacrificio per obbedire a parole d’ordine le cui conseguenze più evidenti sono la miseria della maggioranza, lo sfruttamento – non riuscitissimo, certo, ma pur sempre sfruttamento – di milioni di individui colonizzati. Per tutto il giorno ho visto nero. Stasera sono furioso. Ma preferisco così!”. Il fantasma che ha inquietato Leiris nel suo viaggio africano è tentacolare: razzismo, colonialismo, cinismo economico, ma anche erotismo. Nel suo diario Leiris riporta una sessantina di sogni. Nella stessa notte tra il 25 e il 26 febbraio sogna che “due negre palpeggiano un eunuco albino (più che albino, bianco alabastro), completamente glabro, sul corpo del quale fioriscono come bubboni delle capocchie di chiodi d’argento. […] Sotto le carezze delle donne, che toccano i chiodi, sviene per l’emozione, inarca il busto sul sedile imbottito, gonfia il ventre e rovescia la testa sulla capote ripiegata del veicolo. Questo movimento gli fa emergere i seni, che sono seni di donna”. Il perturbante si tinge dei colori dialettici dell’antropologia e della storia: Neri e Bianchi, fertili e sterili, schiavi e padroni. E in questi strati psichici e politici, che devono aver disturbato profondamente gli accademici francesi, aleggia un altro fantasma capace di turbare l’accademia odierna: un’ostinata solitudine epistemologica in cui l’unico strumento ermeneutico davvero ammissibile, davvero penetrante, è la persona nella sua solitudine. E la visione, l’onirismo, il trauma, come terreno aumentato della ricerca.

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Lo straniero che viene

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Tracciando la genesi del potere statale nel suo Trattato politico, Spinoza indica come sua prima fonte la forza dirompente della moltitudine dei cittadini che, intercettata dai regnanti o dalle istituzioni, è cristallizzata nelle loro figure. Ma l’intercettazione non si risolve in una conquista definitiva e il potere della moltitudine è sempre un potere in prestito. È quindi compito dei regnanti o delle istituzioni il mantenimento dell’imperium giorno dopo giorno, senza alcuna certezza assoluta, cercando di sovrastare gli affetti centrifughi dei sudditi. E cosa succede quando il potere dei regnanti non s’impone più? Succede che l’istituzione collassa. Come ci ha indicato un filosofo spinoziano, Frédéric Lordon, un esempio di collasso lo si trova nel film La Corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn: l’ammutinamento dell’equipaggio, indignato per aver ricevuto del pane pieno di vermi come rancio, rompe i rapporti di forza sovrano-moltitudine, rendendo così visibile la morte di un’istituzione. L’indignazione, scrive Spinoza, è la forza che per eccellenza dissolve la sovranità. Il suo motto è: tutto piuttosto che questo!

 

Nel suo Lo straniero che viene. Ripensare l’ospitalità l’antropologo francese Michel Agier si propone di analizzare come alcuni gruppi di cittadini abbiano risposto alla domanda di accoglienza delle persone migranti in Europa, nel ventunesimo secolo. Il testo è stato recentemente tradotto da Raffaello Cortina Editore ed è stato già commentato su questo sito da Pietro Barbetta. 

 

Per affrontare la presenza di migliaia di persone arrivate negli ultimi anni per vie irregolari, lungo le rotte del Mediterraneo e quella dei Balcani, esistono, oltre all’iter statale, altre pratiche di accoglienza. Si tratta di pratiche di volontariato assunte come «engagement» ossia come impegno personale. Queste pratiche, non dettate dallo Stato, sono sorte proprio in parallelo all’accoglienza delle strutture ufficiali. Sono spesso motivate proprio dalla «vergogna» e dall’«indignazione» verso tale accoglienza ufficiale degli Stati, avvertita come inumana nei confronti in primis dei migranti e dei profughi, ma anche della nostra stessa democrazia e della civiltà dei diritti. Si è trattato di chiedersi come rispondere alla cosiddetta emergenza migratoria. La risposta è stata una serie di azioni immediate: l’offerta di un letto su cui passare la notte; la distribuzione di cibo e vestiti; l’assistenza medica e di ogni genere per chi è costretto a vivere in strada, ecc. Ecco cos’è l’ospitalità privata dei singoli cittadini. Essa rappresenta un gesto quasi sovversivo in cui aprire la porta di casa diventa una sorta di opposizione tanto alle ristrettezze dell’accoglienza statale, quanto alla xenofobia del populismo europeo.

 

Questi gesti – ci avvisa Agier – non sono completamente assimilabili all’ospitalità come rituale che «gioca per la tradizione antropologica un ruolo essenziale nella comprensione dello scambio sociale». Non possiedono, infatti, quelle funzioni sociali che lo stesso antropologo francese ha potuto riscontrare durante le sue ricerche in Africa occidentale – presso i migranti e i commercianti haoussas – o anche presso le tribù Inuit o i contesti rurali del Brasile. Qui l’ospitalità svolge la funzione di accrescimento sociale: accogliere lo straniero a casa propria, adottarlo, significa trovargli uno spazio nella comunità e, così facendo, creare all’interno di essa «i canali o il tessuto sociale di un’apertura – attraverso l’accoglienza e lo spazio dato ai circolanti (bambini, migranti) – che si prolunga (…) in maniera reticolare verso il limite e all’esterno della società». In altre parole, da una parte l’ospitalità è uno dei tanti fili che collegano gli uomini, una relazione che non può mai formarsi incondizionatamente – c’è bisogno, ad esempio, di una stanza libera per accogliere qualcuno – e che permette di riconoscere l’altro in maniera concreta, quando bussa alla porta di casa. Dall’altra essa accresce, con l’accoglienza di individui stranieri, la società. In cosa si discostano, allora, le pratiche attuali di quest’altra ospitalità europea che dipende dall’iniziativa dei singoli?

 

 

Cédric Herrou, contadino della Val Roia, tra Liguria e Provenza, è indagato dalla magistratura del suo paese per aver aiutato illegalmente dei clandestini a penetrare in territorio francese. Condannato nel 2017, è stato assolto nel 2018 dal consiglio costituzionale in nome di quel « principio di fraternità» secondo il quale «un aiuto disinteressato ai migranti, che sia individuale o organizzato, non deve essere perseguito». Sentenza ribaltata all’inizio di marzo 2020, quando Herrou è stato richiamato in appello e l’accusa ha chiesto una detenzione da otto a dieci mesi, con la condizionale. La motivazione si basa sul fatto che l’imputato ha fatto «la scelta di essere al di là della legge», non avendo un obiettivo solo «umanitario», ma «ideologico». Questa storia è uno degli esempi citati da Agier per inquadrare le pratiche di ospitalità odierna come una «declinazione della solidarietà». Oggi non preme ospitare lo straniero per ricalcare, coscientemente o meno, una tradizione, ma per dare un seguito all’indignazione provocata dalle politiche statali. Infatti, soprattutto a partire dal 2015, la maggior parte dei governi nazionali «hanno voluto mostrarsi protettori dei loro cittadini e hanno designato i migranti come una minaccia». La politica migratoria europea si è risolta in un elenco di decisioni – i muri, le espulsioni, i controlli di massa, la presenza dissuasiva della polizia –, conseguenze di quell’atteggiamento che vede la nazione come una casa privata. Ciò comporta che il proprietario accoglie chi vorrà lui e «aprirà la porta o costruirà dei muri secondo la sua sola decisione autoreferenziale, il suo buon senso».

 

La solidarietà di alcuni cittadini cerca allora di discostarsi da questa posizione e si articola come l’esigenza di decidere autonomamente sulla modalità d’accoglienza dello straniero. Un’esigenza che si traduce in un gesto immediato perché la stessa domanda − l’essere accolti e ascoltati − chiede una risposta immediata e concreta, anche se provvisoria e insufficiente: l’antropologo ci ricorda che l’ospitalità privata non è esente da condizioni, come abbiamo già detto, e si avvicina pericolosamente proprio a quella condizione proprietaria che lo Stato assume per sé: anche il cittadino, di fronte al migrante, decide se accoglierlo in base alla sua buona volontà. Agier intravede delle possibili evoluzioni di quest’accoglienza, come le città rifugio, ma tiene a sottolineare la forza dirompente di questo fenomeno, fino a definirlo un vero e proprio «movimento sociale».

 

Questo sintagma richiama nuovamente alla mente Spinoza. L’ospitalità come risposta indignata non rimane ferma su se stessa nel rancore, ma si sostituisce a chi considera lo spazio politico come proprietà dei soli “aventi diritto” − evitando le conseguenze di espulsione, reclusione, naturalizzazione dello straniero − e s’impone come sintomo della riappropriazione di un’attività politica, spesso considerata irraggiungibile nelle mani della categoria dei politici

Come se quei gruppi di cittadini di varie parti d’Europa avessero inconsciamente fatto proprie le parole di Spinoza, quando questi afferma che pensare in termini di Speranza contempla già da sempre il timore del fallimento della nostra capacità di azione singola e condivisa: «Quanto più, dunque, ci sforziamo di vivere sotto la guida della ragione, tanto più ci sforziamo di dipendere meno dalla Speranza e liberarci dalla Paura, e di comandare, per quanto possiamo, e di dirigere le nostre azioni secondo il consiglio certo della ragione».

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Cosmopoliti e comunitari

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Come diventare cosmopoliti in effetti nessuno lo sa. Per certi aspetti si tratta di un paradosso, perché cosmopoliti lo siamo già, eppure allo stesso tempo dobbiamo ancora diventarlo. Ci manca di certo un “mantello antropologico”, che in parte sta già sorgendo, e constatiamo che in una certa misura è già sorto, anche se per la maggior parte è da creare. È la natura di quel “mantello”, sono le sue caratteristiche, che corre l’impegno di indagare. È soprattutto l’affermazione pre-intenzionale del “mantello” o habit che ancora una volta, e con spessore planetario e da infosfera, sollecita fino al limite di tenuta la nostra capacità di contenimento e elaborazione. Le insorgenze, i tentativi di reazione, il profilo basso delle molteplici azioni delle reti sociali orizzontali, che certamente esistono, sembrano non incidere e diventare presto funzionali alla macro-tendenza e al potere dei processi sovra-legali dominanti che, per ora, globalizzano solo le merci e la finanza. In proposito, si può sostenere che “la fine del mondo” intuita genialmente da De Martino abbia non solo messo in crisi la “presenza”, ma segnali, congiuntamente, un’altra questione: forse non siamo in grado di contenere la dimensione planetaria senza una presenza appartenente a una communitas, che tuteli l’autonomia necessaria per quel contenimento. I regressi ai localismi identitari e la xenofobia potrebbero essere una risposta selettiva alla crisi della presenza e della contenibilità del cosmopolitismo. Quella verso il cosmopolitismo, insomma, è una strada impervia, difficile e necessaria. Accanto alla tutela delle presenze appartenenti e all’accettazione del fatto che il dialogo tra le differenze esige attraversamenti del tutto impegnativi, forse bisognerebbe lavorare sui temi comuni, pur nel rispetto delle molteplici variazioni. Ci sono prove copiose di tipo comparativo che mostrano come, al di là di ogni ragionevole dubbio, culture e sistemi di valori molto distanti storicamente, siano caratterizzati da principi formali che hanno tra loro elevate affinità e che limitano i tipi di regole. Si pensi, inoltre, a proposito di fattori accomunanti, all’essenziale insieme di modalità di allevamento dei bambini. Al di là delle variazioni tra le culture, che agli adulti possono apparire molto diverse anche in termini di complessità, i bambini seguono itinerari di apprendimento molto simili e di fatto mirati e circoscritti. Infine, ma solo per limitarci a poche questioni, sappiamo oggi che prima di ogni esperienza, vi sono nei comportamenti umani importanti determinanti espresse dall’architettura del cervello umano. La svolta del paradigma corporeo ci consente di riconoscere l’importanza di ricondurre il comportamento umano al sistema sensorimotorio, all’intersoggettività e alla neurobiologia, che ci accomunano. La convergenza di tutte e tre queste componenti da considerarsi in modo integrato crea una base comune che, se riconosciuta, potrebbe aiutarci a farci sentire cittadini di un unico mondo fatto di diversità integrate. 

 

Quello che emerge è che è importante essere comunitari per diventare cosmopoliti. Vi è un rapporto che forse abbiamo trascurato tra psicoigiene e istituzione. Dove per la prima questione si intende il valore della condivisione collettiva in gruppi o comunità, e per la seconda questione si fa riferimento ai contenitori istituzionali e alla loro interiorizzabilità. Vi è, insomma, una questione di contenibilità, siccome l’istituzione non è solo qualcosa che se ne sta là fuori, ma è un dato originario interno che noi possiamo interiorizzare, appunto, o non sentire nostro. Esiste, riguardo alle istituzioni, e per motivi psicologici e culturali, una questione di particolare rilevanza: le istituzioni possono essere incontenibili da parte delle persone che dovrebbero in qualche modo appartenervi o non riuscire a contenere le differenze e le molteplicità. Ciò tende ad accadere quando l’ansia che suscitano, per la loro distanza o per la non comprensibilità dei loro codici e delle loro regole, supera le capacità individuali e collettive di elaborazione. In queste circostanze le istituzioni possono giungere a creare stati di paura e meccanismi di difesa, fino ad essere negate da coloro che dovrebbero sviluppare appartenenza e partecipazione. 

Martha Nussbaum definisce il cosmopolitismo un ideale nobile ma imperfetto, nel suo ultimo libro, La tradizione cosmopolita, Bocconi Editore, Milano 2020. Emerge, come sempre nel caso di Nussbaum, un approccio morale alla politica “che si fondi sull’umanità che abbiamo in comune”. Il suo è un contributo che si propone di andare oltre il perimetro della razionalità politica. Quel terreno è consueto ad una delle pensatrici più rilevanti della nostra contemporaneità che all’imperfezione, intesa come tratto costitutivo che considera noi esseri umani in base alle nostre potenzialità e alle nostre fragilità, ha dedicato così tanta parte delle sue attenzioni. Basti ricordare la fulminante riflessione sulla fragilità dell’amore contenuta in quell’importante libro del 1986 che è La fragilità del bene, [Il Mulino, Bologna 1996]:

 

“La bellezza di un vero amore umano non è la stessa dell’amore fra due déi immortali, soltanto più breve. Il cielo limpido che racchiude gli uomini e circoscrive le loro possibilità dona a questo mondo un rapido e scintillante splendore che non ci aspettiamo di trovare nel paradiso degli dei. […] L’eccellenza umana viene vista nell’ode di Pindaro come qualcosa che […] non può essere resa invulnerabile senza perdere la sua peculiare bellezza. Odisseo scelse l’amore di una donna mortale e destinata ad invecchiare invece dello splendore immutabile di Calipso” (p. 47).

 

Nussbaum inizia il libro con una citazione di particolare suggestione: “Quando gli chiesero di dove fosse, Diogene il Cinico rispose con una sola parola: kosmopolitês, ossia ‘cittadino del mondo’ [Diogene Laerzio, DL – VI, 63]” (p. 1). “…l’unica cittadinanza è quella del mondo intero” [ivi, VI, 72]. 

 

 

La capacità di immaginazione politica dell’Occidente dipende in buona misura dalla influenza dell’idea che la politica debba trattare tutti gli esseri umani come uguali. La dignità umana come valore è ancora una volta indicata dall’immagine che ci fornisce l’aneddoto noto, relativo a Diogene il Cinico. Un giorno Alessandro Magno andò in piazza del mercato, si pose dinanzi a Diogene che prendeva il sole e gli disse: “Chiedimi quello che vuoi”. Il filosofo rispose: “Non farmi ombra”. Da quel gesto di dignità, secondo Nussbaum, “si diparte una linea che conduce al moderno movimento per i diritti umani” (p. 2). L’intero percorso dell’analisi di Nussbaum si affida in modo esplicito agli stoici e alle loro posizioni e, in particolare a Cicerone che, pur non essendo pienamente stoico, sul terreno etico era molto vicino agli stoici. Saranno poi due figure del cosmopolitismo protestante, Grozio e Smith, ad accompagnare l’analisi verso le ipotesi portanti sostenute dall’autrice. La chiarezza della sua proposta può essere così sintetizzata:

 

- La dignità umana non rimane intatta, come una lunga tradizione ha cercato di sostenere, anche se mancano i beni materiali. La disuguaglianza materiale è una realtà evidente nell’esperienza umana e i suoi effetti sono troppo eclatanti per poter passare inosservati. Non si può sostenere, quindi, che la dignità insita nella capacità morale sia indipendente dalla capacità materiale e sia compiuta in se stessa.

- Il valore moralizzante della nazione, senza scadere nel nazionalismo, è raccomandato dalla tradizione e “la vicenda nazionale può essere letta come un esperimento volto a promuovere il rispetto della dignità umana anche nel resto del mondo” (p. 187). La nazione, insomma, sarebbe il contenitore in grado di svolgere una funzione di preparazione e di funzionamento del cosmopolitismo.

- L’approccio filosofico-morale, anche in base ai due punti indicati precedentemente, pur con il riconoscimento di qualche limite e di qualche necessaria integrazione, sarebbe la condizione e la via per correggere le imperfezioni dell’ideale cosmopolita e renderlo realizzabile. L’approccio delle capacità, che è il cavallo di battaglia di Martha Nussbaum, mutuato e condiviso con Amartya Sen, è quello a cui l’autrice affida le possibilità stesse del cosmopolitismo.

 

Per gli stoici, come è noto, una rilevanza notevole ce l’ha il senso comune, nei nostri modi di vivere e abitare il mondo. Secondo Aëtius “il senso comune è una specie di tatto interno, grazie al quale noi riusciamo a cogliere noi stessi” [Placita, IV, VIII, 7]. Siamo qui, di fronte a qualcosa che mentre è una possibilità è anche un vincolo. In base al “tatto interno, su cui Daniel Heller-Roazen nel 2007 ha scritto un approfondito lavoro [Il tatto interno. Archeologia di una sensazione, Quodlibet, Macerata 2013], il rapporto fra sensazione e coscienza è una via per sentire di esistere. La consistenza di sé è anche inevitabilmente una forma di chiusura, forse necessaria, come ogni autonomia. Se a questo si aggiunge il vincolo dell’habit, già individuato da William James, che non ne ha certo trascurato i vantaggi e l’importanza, diventano non poche le questioni da trattare per parlare di cosmopolitismo, integrandole con un approccio di filosofia morale, quale è quello di Nussbaum. L’ habit in particolare pone non poche riflessioni. Qual è la sua dimensione che, mentre è accomunante riesce a non divenire separante? Come vedremo, per Nussbaum sembra essere la nazione, quel livello, a partire dalla questione della lingua, fino ai valori distintivi e caratteristici. Non è solo la crisi dello Stato-Nazione, una delle emergenze più evidenti del nostro tempo, a far ritenere come critica una simile indicazione, ma anche l’esigenza di tenere conto degli habit che si stanno formando in questi anni e che stanno rivoluzionando le modalità tradizionali di costruzione dell’appartenenza. Se si considera come si formano gli habit, ma soprattutto perché è così difficile cambiarli, conviene prestare molta attenzione agli orientamenti e alle scelte. Secondo approfondite analisi [The Neuroscience of Habits. How they form and why they are so hard to change, Scientific American, June 2014], il livello dimensionale più appropriato di un habit esigerebbe una maglia più contenuta, che lascerebbe pensare a comunità locali anche con confini non tradizionali e performati dalla contemporaneità, la cui rete potrebbe costituire la base di una prospettiva cosmopolita.

La questione dei confini, difatti, non è di poco conto.

 

Riflettendo sulle crisi geopolitiche del xx secolo, Charles S. Maier [in Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi, Einaudi, Torino 2020] presta molta attenzione al nostro presente, chiedendosi in che modo le nazioni moderne e le economie vivano ancora all'interno dei confini, e in quale misura le nostre società si siano mosse verso un mondo post-territoriale. Nel corso della storia, le società umane sono state organizzate soprattutto come territori, regioni politicamente limitate, i cui confini definiscono la giurisdizione e il movimento dei popoli; mentre oggi le tecnologie della globalizzazione stanno facendo cadere sempre più le barriere della comunicazione, dei trasporti e del commercio. Seguendo i cambiamenti epocali che hanno continuamente ridefinito i territori per oltre cinque secoli, l’autore richiama l'attenzione su idee e tecnologie che contribuiscono a fornire strumenti di resistenza alla territorialità. I confini territoriali trasformano la geografia in storia, forniscono un quadro entro cui viene organizzata la vita politica, giuridica ed economica. Nei secoli dell'età moderna, le proprietà del territorio – i loro significati e le loro applicazioni – sono cambiate considerevolmente nello spazio e nel tempo. In Occidente, la territorialità moderna si sviluppò in parallelo con le idee di sovranità nel XVII secolo. I sovrani presero provvedimenti per fortificare i confini, mappare e privatizzare la terra e centralizzare la loro influenza sulle popolazioni e le risorse all'interno del loro dominio. L'arrivo delle ferrovie e del telegrafo permise l'espansione territoriale nella propria patria e all'estero, nonché l'estensione del controllo di ampi spazi. Verso la fine del XIX secolo, l'estensione del territorio di una nazione diventò un indice del suo potere, con i possedimenti coloniali d'oltremare che aumentavano il prestigio e la ricchezza e ridefinivano la territorialità. Oggi le cose risultano del tutto cambiate. Quello che si può dire è che sembra accaduto un movimento contemporaneo tra restrizione e estensione. La crisi della presenza emergente dal disfacimento di un mondo, quello tradizionale, come evidenziata da Ernesto De Martino, mostra di non trovare appigli nella dimensione planetaria se non può riconoscersi in un paesaggio originario di portata comunitaria. Un bisogno di appartenenza comunitaria, per affrontare l’angoscia da dispersione, e una connessione planetaria, riconosciuta necessaria, che sembrano scavalcare il livello dello Stato-Nazione, sembrano affermarsi come fonte di convivenza possibile sul pianeta Terra.

 

Certo Martha Nussbaum critica l’appropriazione sovranista del concetto di nazione, cercando di evidenziare il lato positivo della nazione in chiave di giustizia globale. Così come tende a proporre la necessità che l’etica cosmopolita si ponga in alternativa alla religione tradizionale (p. 190).

Sia per quanto riguarda l’auspicare un lato positivo della nazione, sia per l’attesa di affermazione di un’etica cosmopolita, il contributo di Nussbaum risente della prevalenza di un approccio basato quasi esclusivamente sulla filosofia morale.

È noto che gli studi sull’antichità siano diventati per Nussbaum delle fonti di ispirazione per una teorizzazione in campo morale che l’ha posta al centro del dibattito contemporaneo. Insieme ad Amartya Sen ha elaborato la teoria e l’approccio basati sulla capacità, con cui conclude anche questo libro. Lo studio del pensiero dello stoicismo ellenistico, fino a Cicerone, le ha consentito di elaborare una prospettiva che mostra importanti implicazioni per il presente. L’attenzione al pluralismo e al ragionevole disaccordo sui valori ultimi e sul significato della vita, con una presa di distanza dalle posizioni aristoteliche, hanno portato Martha Nussbaum a sostenere una politica che si limiti a promuovere le capacità, non l’effettivo operare, lasciando spazio a scelte diverse in fatto di religione e di altre concezioni generali della vita. Per lo stoico, infatti, il semplice possesso delle capacità di scelta morale dà a ognuno un’infinita e eguale dignità.

 

 

Non solo, ma era convinzione dello stoicismo, in base alla tradizione cinica, che siamo tutti, in primo luogo e soprattutto, kosmopolitai, cittadini del mondo intero, con conseguenze per i nostri obblighi etici. Nussbaum approfondisce la nostra appartenenza a quella che chiama “una comunità morale globale”, quando sostiene che: “È la nostra capacità di interagire attraverso la parola e la ragione, il nostro essere – profondamente – interdipendenti e interattivi, a renderci concittadini, in senso morale; ciò significa che qualsiasi male arrecato a un qualsiasi cittadino del mondo può essere colto da qualsiasi altro cittadino del mondo, inducendolo a un intervento appropriato” (p. 183).

La stessa autrice riconosce l’esistenza di alcuni gravi problemi irrisolti sia in quella che lei chiama l’area della psicologia morale, che in quella della riflessione normativa sugli aiuti immateriali. La sua proposta di un liberalismo politico globale materialista basato sulle nozioni di capacità e funzionamento dell’uomo (p. 186) deve misurarsi con una domanda di base: se la filosofia morale e l’approccio normativo corrispondente siano sufficienti a promuovere e a concorrere a realizzare l’ideale cosmopolita. Quello che Nussbaum tratta come uno dei problemi, la complessità del comportamento umano, ampliando lo sguardo in prospettiva interdisciplinare, è forse “il” problema.

 

La visione moralizzante della nazione “che non avalla in alcun modo il nazionalismo del “prima noi” (p. 187), si confronta con un problema che la stessa autrice si pone, e che rappresenta, forse, la questione critica principale del suo importante contributo, insieme al richiamo alla nazione di cui abbiamo già parlato. Quel problema riguarda il fatto che “per creare società che possano davvero aspirare alla giustizia globale e al rispetto universale, bisogna partire da una visione realistica delle debolezze e dei limiti degli esseri umani, delle forze che rendono la giustizia un obiettivo tanto difficile da perseguire nella vita umana” (p. 188).

L’impegno continuativo posto da Nussbaum a riconoscere le capacità umane centrali sfocia, in questo contributo, in una lista di dieci capacità, che vanno dalla salute fisica; all’integrità fisica; ai sensi, all’immaginazione e al pensiero; ai sentimenti; alla ragion pratica; all’appartenenza; alle altre specie; al gioco; al controllo del proprio ambiente. I problemi che è necessario affrontare per perseguire una civiltà cosmopolita basata sulla giustizia sociale sono almeno cinque, secondo la nota filosofa, e vanno dal pluralismo e liberalismo politico, ai limiti del diritto internazionale dei diritti umani, all’inefficacia e alla difficoltà morale degli aiuti all’estero, all’asilo e migrazioni. Sembra che queste quattro aree problematiche, anche per relativo riconoscimento di Nussbaum, dipendano decisamente dal primo problema, quello psicologico. 

 

La stessa Nussbaum, infatti, sostiene che per accedere a una civiltà cosmopolita “dobbiamo riuscire a spiegare adeguatamente fenomeni quali la paura, il disgusto, la rabbia e l’invidia, o la mentalità tribale e la subordinazione di gruppo, la misoginia, il razzismo e le altre tante forme di stigma e pregiudizio. E dobbiamo cercare di comprendere come si sviluppino queste forze nefaste, studiando i contributi in tal senso del corredo evolutivo umano, dello sviluppo infantile e della cultura, tutti aspetti che interagiscono tra loro in modi complicati” (p. 188). E incalza: “Dobbiamo dunque imbarcarci in un progetto che gli stoici non solo ignorarono, ma molto probabilmente avrebbero respinto: lo studio sistematico dei legami affettivi della prima infanzia nella loro evoluzione in un’interazione continua con le norme e percezioni culturali. Una sorta di psicoanalisi antropologica (il corsivo è mio), se vogliamo. Se non faremo questo, molto probabilmente le nostre proposte, pur animate da nobili intenzioni, si riveleranno infruttuose, in quanto non si rivolgeranno alle persone come sono realmente” (p. 188).

Riconoscendo a Martha Nussbaum una più unica che rara attenzione a un approccio interdisciplinare ai problemi, con lo specifico riferimento alla psicoanalisi, questo punto del suo lavoro, con l’invito alla considerazione di noi persone come siamo realmente, con le nostre resistenze e le nostre difese, le nostre emozioni e la nostra affettività, sembra quello da cui muovere verso un cammino cosmopolita.

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Anna Tsing e il fungo della fine del mondo

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Un fungo ingovernabile

 

Quando si pensa a Hiroshima viene subito in mente l’immagine del funghetto che si erge verso il cielo, emblema del cosiddetto sublime atomico. Tuttavia pochi sanno che a Hiroshima, dopo la catastrofe, la prima forma di vita a spuntare tra le macerie è stato un fungo matsutake. Ad agosto comincia del resto la sua stagione di maturazione. Lo stesso è accaduto a Fukushima nel 2011. Questo fungo infatti non è conosciuto solo per il suo odore pungente (per alcuni un puzzo insopportabile), per essere una prelibatezza della cucina giapponese o per assorbire il cesio e i radionuclidi, ma anche per crescere – esclusivamente e spontaneamente – sui suoli degradati dall’azione umana. Poco importa che si tratti di catastrofi nucleari o della lava delle eruzioni vulcaniche come in Oregon, che è diventato un importante esportatore di funghi sin dal 1986, quando quelli europei erano contaminati da Chernobyl. 

 

 

Ogni tentativo di coltivare il matsutake è fallito; cresce dove e quando vuole lui, anche sui terreni in cui le attività agricole e industriali hanno causato mutamenti irreversibili. È il fungo della crisi del capitalismo, che rimette in gioco vecchi modelli biologici, ecologici e antropologici. A suggerirlo è l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing in The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton University Press 2015, tradotto in francese nel 2017, edizione qui citata).

416 pagine, sette anni di ricerche sul campo (2004-2011): cosa avrà mai da dire Tsing su un singolo fungo? E perché questa lettura – articolata in tanti brevi capitoli come un grappolo di funghi – dovrebbe interessare chi, come me, di funghi ne ha colti pochi e non è neanche certo di aver mai assaggiato il matsutake in questione? 

 

 

La vita dei funghi è certo prodigiosa. Riprendendo le ricerche del micologo Alan Rayner, Tsing ci ricorda che, se il corpo umano raggiunge presto una forma determinata, i funghi continuano a crescere e a cambiare forma lungo l’arco della loro vita, a seconda dell’ambiente e degli incontri. Potenzialmente immortali, non muoiono di vecchiaia. Ora, se gli appassionati di micologia troveranno pane per i loro denti, The Mushroom at the End of the World – uno degli studi più influenti finora usciti sull’Antropocene – ci aiuta anzitutto a orientarci nel mondo. 

Al riguardo, Tsing ha già diretto l’AURA (Aarhus University Research on the Anthropocene), un programma di ricerca trans-disciplinare sui paesaggi “human-disturbed” e sulla vita che si genera sulle rovine della modernizzazione. Ha coinvolto biologi, antropologi, storici dell’ambiente e di science studies, geografi e climatologi, al di là della divisione sclerotizzata tra scienze della vita e scienze umane, tra mondo e rappresentazione del mondo. Chi vuole saperne di più avrà presto a disposizione uno strumento prezioso: Feral Atlas. The More-Than-Human Anthropocene, curato assieme a Jennifer Deger, Alder Keleman e Feifei Zhou (Stanford University Press 2020).

 

 

Fabbricare mondi

 

Per immergerci nel cuore del problema basta seguire il ciclo di produzione del matsutake, raccolto nelle foreste dell’Oregon da immigrati del Sud-est asiatico e poi importato in Giappone da dove è scomparso negli anni settanta a causa di vent’anni di urbanizzazione: i combustibili fossili prendono il posto della legna e del carbone, le foreste rurali sono abbandonate dalle aziende agricole e dai contadini che si trasferiscono in città, l’agricoltura intensiva s’impone come nuovo modello e così via.

Quella del matsutake è insomma una storia che coinvolge diversi continenti (altre coltivazioni sono in Cina e in Finlandia). Una connessione globale già trattata da Tsing in un libro sulla distruzione delle foreste pluviali dell’Indonesia negli anni 1980-90 e sulla salvaguardia dell’ambiente promossa da popoli indigeni, associazioni e vari attivisti (Friction. An Ethnography of Global Connection, 2005, un terreno di studio già esplorato nel precedente In the Realm of the Diamond Queen: Marginality in an Out-of-the-Way Place, 1994). 

 

 

Più che ai conflitti Tsing s’interessa alle connessioni globali che investono le cause ambientali. E non c’è matsutake senza i tentativi di coltivazione, la raccolta, la messa in commercio, la filiera con i suoi intermediari, un complesso sistema di dono e contro-dono che si sottrae alla logica della merce e costituisce la spina dorsale di quel sistema mercantile ora in rovina. E non c’è matsutake senza la comunità di rifugiati dell’Indocina (Laos e Cambogia) che, nelle foreste dell’Oregon, lavora a fianco di veterani bianchi della guerra del Vietnam, Latinos e indiani d’America. Nessun inganno, nessun melting pot: qui come altrove negli Stati Uniti le comunità vivono gomito a gomito senza alcuna conoscenza – e curiosità – dell’altro.

 

Nel corso degli anni, la comunità asiatica di raccoglitori si è evoluta: fino alla Seconda guerra mondiale i giapponesi immigrati abbracciavano lo stile di vita americano pur mantenendo una sensibilità giapponese. La guerra mette in moto un processo di assimilazione forzata, indotta dall’educazione pubblica e da politiche di discriminazione positiva, che coinvolgono direttamente la famiglia dell’autrice. La lingua giapponese non è più studiata e viene dismessa o vista con sospetto l’alleanza biculturale. Ogni giapponesità è abbandonata, coltivata tutt’al più come hobby. Diversa la situazione attuale, all’epoca del multiculturalismo liberale: l’accoglienza dei raccoglitori, immigrati del Sud-est asiatico, dipende da un solo fattore: l’amore per la libertà promossa dalla democrazia americana.

 

 

Infatti se tra queste comunità e quelle dei bianchi ci sono a volte delle tensioni, a unirli è l’anti-comunismo, il valore della vita all’aperto, l’assenza di padroni e il fatto di non essere impiegati da alcuna impresa. Vivono nelle pieghe del sistema capitalistico, o meglio dipendono globalmente dalle sue fluttuazioni ma si sottraggono alla sua organizzazione, nel bene come nel male (non hanno stipendio né vantaggi sociali). Vendono i funghi che trovano e, non essendo coltivabili, vivono nella precarietà.

La precarietà è uno dei modi in cui, secondo Tsing, si declinano le rovine del capitalismo: “cosa ne è della vita”, si chiede, “quando mancano le promesse di stabilità” (p. 32)? La precarietà “designa la condizione in cui ci ritroviamo vulnerabili agli altri”, in “un mondo senza teleologia” (p. 56) che infrange i sogni legati alla modernizzazione e al progresso. Ma per quanto queste ultime due nozioni siano obsolete, crediamo che l’economia cresca, le scienze progrediscano, le nostre vite migliorino, “gli umani si fabbrichino attraverso il progresso” (p. 57). Ma “fabbricare mondi non è riservato agli umani” (p. 58), per questo è necessario rivolgersi a modi di fare mondo o a modi di esistenza che non sono solo quelli dell’umano, che si è storicamente prodigato a imporre il suo modello di vita a tutti gli altri. Solo così possiamo imparare, come suggerisce Tsing, a guardare intorno a noi piuttosto che davanti a noi. 

 

 


Ecologie della perturbazione

 

“Cosa fare quando il vostro mondo comincia a collassare? Io vado a spasso e, se ho fortuna, trovo dei funghi” (p. 31): così si legge nel prologo di The Mushroom at the End of the World. Accennavo prima alle esplosioni nucleari e alle eruzioni vulcaniche, ma le rovine su cui cresce il matsutake sono così estese da coincidere con il nostro paesaggio. Noi viviamo già in mezzo alle rovine, che non sono al di qua o al di là del nostro orizzonte; non mostrano un tempo remoto, non sono appannaggio dell’archeologia ma parlano del– e al– nostro presente. 

Tsing rigetta così le soluzioni tecnologiche alla crisi ecologica, quelle del capitalismo verde o della geo-ingegneria, che vagheggiano un controllo del cambiamento climatico e degli effetti nefasti dell’Antropocene, come se avessero accesso alla stanza dei bottoni del pianeta Terra. Oppure le soluzioni eco-moderniste che millantano un “buon Antropocene” secondo il quale basta un’implementazione di tecnologia e di capitale, ovvero di ciò che ha precisamente causato il problema.

Il matsutake invece ci mostra quanta vita può esserci in queste rovine, che non coincidono col regno dell’abbandono, dell’inorganico o della morte. Realizzare che ci troviamo già alla fine del mondo costituisce una chance per agire – e all’azione vuole spingerci Tsing, come dimostra la mancanza di ogni condiscendenza verso l’apocalissi e la sua estetizzazione.

 

Secondo Tsing, il problema non è nella perturbazione degli ecosistemi. In Giappone “le persone e gli alberi sono coinvolti in storie irreversibili di perturbazione. Ma alcuni tipi di perturbazione sono stati seguiti da ricrescite che, nel frattempo, hanno favorito vite multiple. Le foreste rurali di pino cembro sono state dei piccoli vortici di stabilità e convivenza. Ma sono state spesso scatenate da grandi cataclismi come la deforestazione che ha accompagnato l’industrializzazione nazionale” (pp. 282-283). È contro-intuitivo, ma a volte bisogna perturbare per ripristinare. Alcuni ecosistemi non sopravvivono senza l’azione dell’uomo, decisiva quanto l’azione dei non-umani. I matsutake crescono sulle rovine grazie ai danni provocati dagli umani i quali, paradossalmente, sono incapaci di coltivarlo.

 

 

Più che la perturbazione, nociva è la piantagione o quella che Tsing chiama, su suggerimento di Donna Haraway (sua collega all’università della California Santa Cruz), Piantagionocene. Assieme al fungo atomico e al matsutake, Tsing contempla anche i funghi patogeni che proliferano in modo incontrollato nelle monocolture, ad esempio in quella di banane, causando malattie a piante e animali. È uno degli effetti della piantagione, un modello di produzione ad alto impatto ecologico che risale al XVI secolo, in cui si coltiva una sola specie di pianta – ad esempio la canna da zucchero – eliminando altre forme di vita, e che anticipa l’agricoltura industriale. Come ha ben riassunto Isabelle Stengers nell’introduzione a The Mushroom at the End of the World: “Piantate delle canne da zucchero (che si riproducono identiche per clonazione) in una terra lontana, dove non incontreranno piante affini o insetti familiari; da questa terra avrete precedentemente cacciato o sterminato gli abitanti e vi avrete messo a lavorare degli schiavi, ignari della memoria del luogo in cui sono trapiantati almeno quanto la canna da zucchero” (p. 15). In questa agricoltura hors sol l’alienazione vale tanto per i prodotti coltivati che per i lavoratori. 

Siamo agli antipodi della foresta di matsutake, che è multi-specifica, si nutre di contaminazione ed è indifferente all’economia industriale. Rispetto alla biologia del XX secolo, “ora realizziamo che i corpi della maggior parte degli organismi sono paesaggi multispecie. Nessun organismo può diventare se stesso senza l’assistenza di altre specie” (Aura’s openings, More than Human. AURA Working Papers, vol. 1, 2015, p. 46). Il matsutake contribuisce infatti alla vita vegetale nel suo complesso, rendendosi indispensabile per la crescita degli alberi in terre ostili o povere di nutrienti. Una storia del genere non merita di essere raccontata?

 

 

Pensare come funghi

 

Tsing non si limita a ricostruire vita, morte e miracoli del matsutake, ma c’invita invece a pensare con i funghi, ovvero a ricomporre il mondo assieme ai non-umani. A considerare da vicino quelle narrazioni e quelle visioni in cui l’umano e il non-umano s’intrecciano. A prendere sul serio l’art of noticing, l’arte della descrizione, rispetto agli approcci quantitativi e alle modellizzazioni verso cui si orientano le scienze sociali, le scienze della vita e in parte le scienze umane. 

Abbiamo bisogno di un nuovo sguardo e di una nuova parola, per questo il contributo degli artisti è decisivo quanto quello degli scienziati. Un punto di The Mushroom at the End of the World che Frédérique Aït-Touati ha colto appieno: “la narrazione non è il mezzo per diffondere un sapere stabilizzato, [ma] partecipa alla costruzione di questo sapere essendo una ‘pratica di conoscenza’ e, così facendo, registra nella sua stessa forma l’evoluzione del rapporto con la Terra, i suoi esseri viventi e i suoi paesaggi”. Insomma, “le storie della Terra hanno cambiato di natura e di scala: non scriviamo più storie per raccontare la creazione o il corso del mondo, ma per scongiurarne la fine. È al momento in cui il mondo che abbiamo conosciuto sembra sfuggirci di mano che si moltiplicano i tentativi di coglierlo” (Récits de la Terre, in “Critique”, 860-861, 2019, pp. 5-16).

 

Come vivere tra le rovine? Per rispondere Tsing non si affida alle teorie di qualche grande scienziato, non filosofa sui massimi sistemi, non offre soluzioni tecniche per governare cambiamenti che sfuggono al nostro controllo. Si limita invece a ripercorrere ad ampio raggio la storia, le vicende e le alterne fortune di una singola specie di fungo. Ci rende così partecipi delle storie non umane che racconta. Pratica l’arte di “raccontare storie in cui gli esseri umani non sono al centro, ma in cui non svolgono neanche il ruolo di intrusi contro i quali la ‘natura’ dovrebbe essere protetta” (Stengers, p. 18).

“Siamo tutti compost, non postumani”, esclama Haraway (Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero 2019, p. 146). Tsing sembra farle eco invitandoci a fabbricare mondi sulle rovine del capitalismo. Come? Pensando – e agendo – con e persino come un fungo matsutake.

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La passione del razzismo

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Abbiamo a lungo pensato che l’idea di un tempo ciclico fosse cosa da “primitivi”, da selvaggi, a cui contrapporre il nostro tempo lineare, una linea retta, che corre in avanti verso un futuro sempre più radioso. Invece no, tristemente sembra che cose già viste e che speravamo dimenticate, ritornino ad affacciarsi. Così la Minneapolis del giugno 2020, sembra la Selma del 1965, ancora violenze della polizia su individui dalla pelle scura, ancora discriminazioni. Possibile che nulla sia cambiato? Sì, è possibile. «È accaduto, potrebbe accadere ancora» aveva scritto Primo Levi e infatti accade. E non si tratta solo di un episodio, del gesto folle di un poliziotto criminale, ma di uno stillicidio di violenze contro gli afroamericani, che si perpetuano da sempre. Una segregazione che la legge non ha cancellato, che passa attraverso gli sguardi, il rifiuto di un lavoro, di un alloggio, nella diffidenza delle forze dell’ordine.

«Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro strana: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri» ha detto Albert Einstein. Una malattia che ha radici profonde e antiche, capace di mutare continuamente, di assumere volti diversi e diverse declinazioni, ma sempre letale. Alla base di tutto c’è l’innato atteggiamento etnocentrico che caratterizza ogni gruppo umano. Basti pensare a come la maggior parte degli etnonimi – i nomi che ogni popolazione si attribuisce, esprimono una superiorità intrinseca: inuit significa “gli uomini” così come bantu o apache. In Mesoamerica gli huicholes chiamano se stessi wirrarika, ovvero “persone”, che ha lo stesso significato di ndee, il vero nome di quelli che noi chiamiamo apache. Come a dire che gli altri sono meno uomini o non uomini. Peraltro, proprio gli inuit vengono chiamati eschimesi, “mangiatori di carne cruda”, in senso spregiativo dagli algonchini; tuaregè l’appellativo dato dagli arabi agli uomini del deserto e significa “miscredenti”, mentre loro si definiscono imohag, “uomini liberi”, e la lista degli esempi sarebbe molto lunga

 

Secondo Claude Lévi-Strauss: «L’umanità cessa alle frontiere della tribù, del gruppo linguistico, talvolta perfino del villaggio», anche se attribuisce all’etnocentrismo addirittura un valore positivo, in quanto svolge una funzione di conservazione e di differenziazione, anche se questo rischia di condurre a una incomunicabilità tra culture diverse: «Ogni creazione implica una certa sordità nei confronti di altri valori, la quale può arrivare sino al loro rifiuto, se non alla loro negazione».

Il problema sta nelle pratiche dell’etnocentrismo, che può essere declinato in modi diversi: l’Altro può essere oggetto di scherno, di antipatia, di indifferenza oppure può accadere, come in certe parti d’Africa, che l’etnocentrismo si traduca in una relazione scherzosa di reciproca presa in giro delle due parti, giocata proprio sullo stereotipo dell’altro. La xenofobia ha molti volti, ma non necessariamente questi volti si traducono in violenza. 

 

Come ha scritto Zygmunt Bauman, quasi parafrasando l’incipit di Anna Karenina: «Tutte le società producono stranieri: ma ognuna ne produce un tipo particolare, secondo modalità uniche e irripetibili». Infatti, c’è un altro elemento fondamentale nella costruzione dell’Altro: la sua traducibilità. Nel mondo greco e romano il pregiudizio era soprattutto legato al lignaggio e alla discendenza. Si è detto della distinzione che gli antichi greci facevano nei confronti dei barbari, letteralmente “balbuzienti”, gli stranieri che non conoscevano bene la lingua. Si trattava però di un confine essenzialmente culturale e come tale superabile: un barbaro che avesse imparato bene il greco non veniva più considerato tale e analogamente il figlio di un barbaro, di quelli che adesso chiameremmo di seconda generazione, non si portava dietro il marchio del padre: purché sapesse parlare correttamente era greco a tutti gli effetti.

La divisione era culturale e quindi revocabile. Qualcosa cambia quando invece si iniziano ad attribuire alla natura le differenze umane, che in questo caso diventano allora irrevocabili.

 

Etnocentrismo e xenofobia sono certamente dei punti di partenza, delle fondamenta su cui si può costruire un’idea di razzismo. Neppure l’intolleranza religiosa può essere definita come espressione razzista, perché il bigotto o l’integralista condannano e perseguitano gli altri per ciò che essi credono, non per ciò che intrinsecamente sono. Possiamo parlare di razzismo in senso lato, quando le differenze di carattere culturale vengono considerate innate, un prodotto della natura, indelebili e immutabili.

 

 

I primi sintomi del razzismo, inteso in questo senso, li troviamo nella tristemente nota legge della Limpieza de sangre, applicata nella Spagna del XV-XVI secolo, ma l’idea di “razza” vera e propria nasce con i primi studi classificatori di epoca illuminista. Catalogando, peraltro con risultati quanto mai diversi tra di loro, le presunte razze umane, i primi scienziati gettano le basi su cui poi le politiche di vari Stati erigeranno le discriminazioni su base razziale. Se lo spirito di quegli studiosi era principalmente scientifico (anche se le loro conclusioni erano fortemente viziate dall’etnocentrismo), l’applicazione delle loro classificazioni sarà segnato da una costante volontà di sottomissione, di esclusione se non di eliminazione. Il razzismo, inteso come pratica discriminatoria, ha assunto volti diversi: negli Stati Uniti si è sviluppato un razzismo di sfruttamento, il nero era schiavo, forza lavoro gratuita, mentre nella Germania nazista l’ebreo era una minaccia per la società tedesca e pertanto andava eliminato. Ancora diverso il caso dell’apartheid sudafricano, dove la linea del colore della pelle coincideva con quella della classe sociale: una élite bianca che dominava su un proletariato nero.  

 

Dopo la liberazione di Nelson Mandela nel 1992 ci eravamo illusi in molti che il razzismo fosse finalmente stato relegato nei polverosi scaffali della storia, per essere finalmente archiviato per sempre. La scoperta del DNA (1953) e i successivi studi di genetica ci hanno dimostrato che non è possibile classificare l’umanità su base razziale, ma questo non è bastato a far scomparire il pensiero razzista. La razza è stata messa alla porta dalla scienza, il razzismo no. Non è sufficiente convincere la gente che la razza è un concetto irrilevante e incoerente, perché il razzismo scompaia. Il rapporto tra razza e razzismo, infatti, non è lo stesso che corre tra materia e materialismo o idee e idealismo. In questi casi tendiamo a pensare i primi termini come radici e i secondi come derivati. Nel caso del razzismo il rapporto si inverte: è il razzismo la causa scatenante, che spinge a teorizzare o più semplicemente a concepire la razza. La razza non è la causa del razzismo, ma il suo pretesto, il suo alibi. La razza non è una pura e astratta idea, ma un “concetto iconico”, una parola e una nozione che funzionano come un talismano carico di magia. Al punto di fare scrivere a Jean-Paul Sartre, che l’antisemitismo, come il razzismo in generale è soprattutto una passione, che viene nutrita fino a diventare una concezione del mondo.

 

La razza è tanto una illusione quanto una realtà, che resiste alle demolizioni critiche e ai tentativi di rimpiazzo con concetti come etnicità, nazionalità, civiltà o cultura, perché, come sostiene William J. Mitchell: «la verità è che non c’è nient’altro al mondo o nel linguaggio che possa fare tutto ciò che chiediamo alla razza di fare per noi».

Il nuovo “razzismo”, a cui forse dovremmo dare un nome diverso, passa attraverso il concetto di cultura e del suo derivato, l’identità. Negli ultimi decenni si è posto così fortemente l’accento su un concetto di cultura fin troppo «culturale», fondato su diversità concettuali che non sempre superano in consistenza e valore le affinità o le somiglianze pratiche. Alla concezione biologica della razza, intesa come elemento determinante le differenze culturali si rischia di sostituire un’enfatizzazione radicale delle caratteristiche culturali. Il “razzismo” culturale elabora categorie analoghe, gerarchiche e finalizzate anch’esse alla distinzione e all’esclusione, ma fondate sui tratti culturali. Entrambi finiscono per diventare spinte alla differenziazione che pretendono di spiegare se non addirittura di prevedere le attitudini, le disposizioni e gli atteggiamenti delle persone o dei gruppi.

 

Se proviamo a schematizzare le retoriche politiche espresse dai principali partiti e movimenti identitari, notiamo che il modello è pressoché lo stesso e si fonda su concetti come popolo o etnia, autoctonia, radici, tradizione. Uno schema che potremmo riassumere così: poiché ogni popolo ha diritto alla sua cultura, si dichiara che va difesa e tutelata, e quindi, per evitare il pericolo delle contaminazioni che nascono dal contatto con altre culture, che occorre che ciascuno rimanga a casa sua.

Il termine popoloè stato espropriato al dizionario tradizionale della sinistra per essere declinato in una nuova accezione, che in realtà risulta assai antica. Se per i gruppi e i movimenti di sinistra il popolo rappresentava il ceto più basso della società, quello che avrebbe dovuto conquistare il potere negatogli dalle classi abbienti, per i neo-razzisti il popoloè un’entità formata da autoctoni, legati indissolubilmente alla loro terra. Una terra che ne determinerebbe i caratteri fondamentali: gli individui appartenenti a quel popolo avrebbero determinate attitudini, tradizioni, comportamenti, in altre parole avrebbero una certa cultura, perché nati in quel determinato luogo. 

Naturalizzando l’essenza umana, la cultura, e vincolandola alla terra, il «noi» diventa inevitabilmente un «non-loro». L’ethnos ha sostituito il demos

 

L’autoctonia diventa così una nuova interpretazione della razza, una declinazione basata sulla terra di nascita. Quella terra che attraverso le radici fornisce il sangue a un determinato popolo.  Un’equazione che sa molto di tribalismo e che sta alla base di una narrazione che si fa sempre più forte da parte dei partiti e dei movimenti xenofobo-razzisti, i quali sempre più prepotentemente rivendicano un «noi» fatto da gente nata qui, figlia di gente nata qui, nipote, pronipote, discendente di altra gente, che di qui non si è mai mossa. Si afferma una continuità, che non solo prevede un filo ininterrotto di sangue che lega le generazioni nei secoli, nei millenni, ma nega ogni apporto esterno.

Di qui la fortuna della metafora delle radici. Non a caso nelle retoriche dei molti sovranismi emergenti, radiciè uno dei termini più ricorrenti, il che fa supporre che gli esseri umani siano simili agli alberi, il cui legame con il suolo che li ha prodotti è pressoché inscindibile. Una concezione questa, che esprime chiusura nei confronti dell’altro e che contiene i germi della concezione nazista del Blut und Bloden, terra e sangue.

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