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A cena con Darwin

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È nato prima l'uovo o la gallina? Quesito esistenziale e scientifico insieme, cui è difficile rispondere per quanto riguarda i risvolti esistenziali, mentre la scienza dell'evoluzione ha chiarito molto bene l'aspetto scientifico: è nato prima l'uovo. I primi animali a deporre uova fuori dall'acqua furono gli anfibi, ma erano gelatinose come quelle delle rane; troppo fragili e delicate, erano esposte a molti pericoli, primo tra tutti quello di essiccarsi rapidamente. Che fare? Mentre lentamente trasformava l'anfibio in rettile, come il feroce Tyrannosaurus rex autorevole antenato della gallina, l'evoluzione inventò l'amnio, una sacca piena di liquido contenente un embrione e attorno vi pose un guscio molto, molto resistente. 

Inizia dall'uovo, “vera e propria metafora delle origini”, l'interessante e divertente saggio A cena con Darwin. Cibo, bevande ed evoluzione (Bollati Boringhieri), del biologo evoluzionista scozzese Jonathan Silvertown, docente di ecologia all'università di Edimburgo, in cui l'autore ci invita a “un pranzo ispirato all'evoluzione” giacché, spiega, tutto quello che mangiamo ha la sua storia evolutiva e, d'altra parte, la stessa evoluzione umana è proceduta di pari passo con quella del nostro cibo. Nel menù proposto per questa “cena della mente” compaiono le pietanze abituali: dalla carne ai dolci, dal formaggio alla frutta, il tutto annaffiato da buone razioni di vino o di birra, a piacere. E la cena comincia con la presentazione al lettore dei vari commensali, dei loro gusti e delle loro abitudini alimentari. Gli invitati sono i rappresentanti della famiglia degli ominini, la tribù (termine tecnico) cui apparteniamo noi e le antropomorfe a noi strettamente legate.

 

 

La prima è Lucy, una Australopithecus apharensis (vissuta tra 3,8 e 2,9 milioni di anni fa), ritenuta ancestrale alla biforcazione fra la sua specie e la nostra. La sua dieta, ci spiega Silvertown, prevedeva “crudités e macedonia”, qualche boccone di carne cruda oppure, occasionalmente se se ne presentava la possibilità, anche cotta, ma non da lei stessa. Il primo degli invitati a mangiare abitualmente carne cotta, sembra sia stato Homo erectus, il primo della nostra specie (ma non del nostro genere). Gli scienziati sono concordi nel ritenere che questa sua passione per la carne cotta sia stata molto importante per la nostra evoluzione. Già nel 1785 il diarista scozzese James Boswell definì l'uomo “un animale che cucina” (però va detto, onestamente, che l'uomo è stato definito 'un animale che' fa un sacco di cose…). Prima di cucinare eravamo animali spazzini, come le iene (cfr. G. Manzi, Il grande racconto dell'evoluzione umana), che ripulivano le carcasse delle vittime di altri predatori più forti di noi. La cottura della carne ci aiutò certamente a compiere un balzo evolutivo in avanti, perché ci permise di consumarne molta di più e questo, a sua volta, cambiò il nostro fisico riducendo la lunghezza dell'intestino (la carne cotta è più digeribile, quindi se ne può consumare di più, ed è libera da molti parassiti) a favore dell'aumento del cervello; “cuocere il cibo – spiega Silvertown – ci ha dato l'energia necessaria per alimentare un cervello di grandi dimensioni” e l'aumento costante delle dimensioni del cervello negli ultimi due milioni di anni è “la trasformazione che più di ogni altra ha segnato il corso dell'evoluzione umana”. 

 

Il dominio sul fuoco, ossia la capacità di accenderne uno ogni volta che si voleva, è stato conquistato da un altro dei nostri antenati, Homo heidelbergensis che sicuramente cucinava il suo cibo, come anche faceva il nostro cugino Neanderthal, cacciatore di animali di grossa taglia. Dunque, siamo stati vegetariani e forse addirittura vegani in un passato estremamente remoto, ma da almeno 3 milioni di anni fa mangiamo carne con gusto e vantaggio, e da 1Ma cuciniamo e digeriamo tutto molto meglio. A questo punto del banchetto mentre “su ogni teschio campeggia un ghigno soddisfatto … [e] nella sala da pranzo risuonano rutti sinistri”, Jonathan Silvertown continua il suo racconto di “gastronomia evolutiva” approfondendo la reciproca relazione tra l'evoluzione di Homo sapiens e quella del suo cibo.

 

La dieta di Homo sapiensè sempre stata molto varia. Ritrovamenti di cumuli di conchiglie a Pinnacle Point, in Sudafrica, attestano che già da almeno 165 mila anni fa eravamo forti consumatori di molluschi e frutti di mare, laddove era possibile, cioè sulle coste del mare. Mentre il pane, tanto fondamentale da essere diventato sinonimo di cibo, è il frutto della prima grande rivoluzione operata dall'uomo, la rivoluzione agricola del neolitico, avvenuta attorno a undici o dodicimila anni fa. La coltivazione di cereali – prima il farro, poi in un ordine incerto l'orzo, la lenticchia, il pisello, i ceci, la vecciola, il lino e la fava, ci racconta il biologo scozzese – ha cambiato la nostra vita radicalmente. A questo proposito, i ritrovamenti di Göbleki Tepe, nella Turchia sud-orientale, spingono a gettare uno sguardo diverso sulle cause della rivoluzione agricola. Si tratta di un enorme sito, datato attorno a diecimila anni avanti Cristo, in cui sono stati trovati i resti monumentali di costruzioni decorate superbamente da figure di animali. L'ipotesi formulata è che si tratti di un luogo religioso costruito da antichi, e molto avanzati, cacciatori-raccoglitori, i quali avrebbero sviluppato l'agricoltura (attorno al sito sono chiari i segni di grandi coltivazioni) allo scopo di fornire il cibo necessario a un grande numero di lavoratori necessariamente stanziali, per il lungo tempo necessario a completare l'opera. La motivazione fondamentale per la sedentarietà sarebbe stata, pertanto, di carattere religioso e lo sviluppo dell'agricoltura ne sarebbe derivato come conseguenza, anziché esserne la causa (cfr. Klaus Schmidt, Costruirono i primi templi, 2007/2011). Un'ipotesi molto interessante da diversi punti di vista e ancora in corso di studio.

 

Qualunque ne sia stata l'origine, la rivoluzione agricola del neolitico ha determinato un incremento della popolazione che, da allora, pur rallentato da pandemie e disastri, non si è più interrotto. Quando, poi, la seconda grande rivoluzione operata dall'uomo, la rivoluzione industriale, iniziata nel XVIII secolo, ha portato progressivamente a un continuo incremento esponenziale della popolazione globale, la situazione ha cominciato a mostrare i suoi lati problematici. Siamo già più di sette miliardi e in futuro, per sfamarci tutti, saranno necessari diversi aggiustamenti nella produzione e distribuzione del cibo. E probabilmente anche importanti revisioni della dieta cui le società più opulente sono abituate. 

Il ricco menù proposto da Silvertown comprende molte portate, delle quali non possiamo offrirvi che un piccolo assaggio. Esso comprende zuppe – per primo un brodo primordiale, “il piatto preferito nel menù della vita” –; pesce che, siccome puzza in fretta, gli offre l'opportunità di parlarci di alcune peculiarità, poco note ai più, del rapporto tra gusto e olfatto; spezie ed erbe aromatiche, potenti antimicrobiche i cui profumi e sapori ci aiutano a distinguere quelle commestibili dalle velenose. Ma anche il veleno non sempre fa male, è tutta una questione di dosi e lavorazione: la manioca, ad esempio, pur contenendo cianuro “è l’alimento principale di più di 800 milioni di persone”. 

 

Il latte ci mette davanti a un quesito simile a quello dell'uovo e della gallina. Infatti, per quanto sembri assurdo, “le ghiandole mammarie e il latte sono più antiche dei mammiferi proprio come le uova sono più antiche degli uccelli”. In un passato talmente remoto che l'evoluzione dei mammiferi era ancora in un momento cruciale e incerto, “ci fu sicuramente una fase intermedia in cui i mammiferi deponevano uova e producevano latte”. Si può dire che è il più naturale degli alimenti e che si è evoluto proprio per noi. Dal latte al formaggio, il passo è breve, ma la storia è lunghissima. Biologicamente il formaggio è un microbioma, “cioè una comunità di microbi. In natura, il microbioma equivalente più simile al formaggio è la terra…”, mentre nessun altro alimento gli assomiglia. Per questo motivo, al contrario del latte, il formaggio è l'alimento più artificiale che esista. Mangiarne troppo fa male, lo sappiamo tutti, ma fa male anche mangiare troppa frutta, e questo lo sanno in pochi. La frutta è ricca di fruttosio, uno zucchero che può essere metabolizzato solo dal fegato, a differenza del glucosio (un altro zucchero) definito “il combustibile biologico universale” perché, viaggiando disciolto nel sangue, viene condiviso da tutto il corpo. Il fruttosio – il cui consumo è raddoppiato negli ultimi trenta anni – ha le stesse calorie del glucosio, ma il corpo non lo percepisce come uno zucchero perciò non attiva gli ormoni che ci avvertono: basta, non ne hai più bisogno!  Così continuiamo a mangiare e bere frutta, e ingrassiamo. Il problema non è solo questo, avverte Silvertown; la cosa grave è che assunto in dosi eccessive, il fruttosio è una tossina vera e propria, e favorisce il diabete. Nel futuro, prosegue, è possibile che l'attuale epidemia di diabete si trasformi in pandemia. Lo stesso discorso vale per i dessert, bombe di carboidrati e zuccheri, che amiamo con universale passione, probabilmente ereditata da un tempo lontano in cui accumulare calorie come riserva per far fronte ai giorni in cui non si riusciva a mangiare abbastanza, era una necessità vitale e una scelta prudente. 

 

E infine, non si può finire senza un buon bicchiere di vino, frutto della vite e del lavoro dell'uomo, come si dice in ogni messa. La vite è stata domesticata nelle regioni del Caucaso circa diecimila anni fa, e da lì si è diffusa. Ogni vitigno conosciuto viene da quelle aree, tranne uno, quello del lambrusco che pare proprio essere autoctono delle aree emiliane in cui ancora oggi è prodotto (Cfr. Mauro Catena, Il lambrusco, la lunga storia di un vino di successo, reperibile on line in pdf). Alla fine di questa panoramica dai toni scherzosi, ma dai contenuti scientificamente rigorosi, la domanda dello scienziato è la stessa di tutti: cosa mangiamo domani? E si apre un ultimo interessante capitolo attorno a un tema caldo e controverso: gli Ogm potranno aiutarci o apriranno la strada a nuovi, imprevisti pericoli? 

Per cominciare a farvi un'opinione, dovete leggere il libro…

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Leggere il Corano, oggi e qui

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Da lettore e ascoltatore (moderato lettore, moderato ascoltatore) di giornali, di radio e di tivù, ho avuto in questi anni, sempre più spesso, l’impressione che molti parlassero di Islam e di Corano senza aver letto molto al riguardo, anzi – ad essere sinceri – senza aver frequentato per nulla né quel testo né quella teologia né quella storia. E se la cosa poteva apparire “normale” per il comune cittadino (il vecchio “uomo della strada”) avvezzo a dir la sua su tutto senza aver faticato gli occhi su nulla, mi pareva cosa ben più grave che a mostrare lo stesso comportamento fossero riveriti giornalisti, noti politici, perfino potenti maîtres à penser della scena culturale nazionale.

È stata questa sgradevole impressione, molto banalmente, a indurmi, da qualche anno, a tentare se non lo studio almeno la lettura di quel Testo, di quei testi, consapevole fin dall’inizio che ero destinato a non provare mai l’ebbrezza del contatto diretto con la lingua originaria di quel Libro. Libro – come si sa – ancora più decisivo in quanto libro – che non altri testi sacri del monoteismo tanto da spingere qualcuno a dire che se il Cristianesimo è la religione del Dio in-carnato, l’Islam è la religione del Dio in-cartato (Rammento, a questo riguardo, un fatto occorsomi nel 2005 a San’a, Yemen, quando, dopo aver acquistato da un ragazzino la più minuscola edizione del Corano che si potesse immaginare – un libretto di pochi centimetri quadrati – venni avvicinato da un altro più deciso ragazzo il quale mi impose con buone e meno buone maniere di restituire al venditore il minilibro, giusta, forse, la raccomandazione della Sura LVI, vv.77-79: “Eccolo, è un Appello magnanimo, al-Qur’an, in uno Scritto nascosto, solo i puri lo toccano” – dalla traduzione francese di André Chouraqui).

 

Ad accostarne la lettura – anche nell’estrema debolezza e nella “diminutio” inevitabile di una traduzione – ci viene incontro una forza arcaica: avvertiamo (se appena appena siamo dotati di un qualche “fiuto”) la lontananza del testo rispetto a noi lettori del XXI secolo, perdipiù segnati, segnatissimi dagli ultimi tre secoli di storia occidentale. Doppia distanza, quindi: dei tempi e degli spazi. E, subito dopo questa impressione feroce (che può anche disporre il lettore volenteroso a desistere dall’impresa), ci sorprende la compresenza (a volte la convivenza all’interno della stessa Sura) di arditi e poeticissimi voli metafisici e di prosaici precetti, minuziose prescrizioni che a noi parrebbero addirsi più ad un compendio di diritto civile, atte a regolare la vita matrimoniale, le norme di proprietà o di successione: esemplare la lunghissima Sura II detta della “Giovenca”. Non basta la distinzione tradizionale tra Sure meccane (le mistiche, le “verticali”) e Sure mediniane (le “pratiche”, le “orizzontali”) a spiegare tanta varietà di contenuti e toni all’interno dello stesso testo; bisogna rappresentarci un mondo (ma siamo davvero capaci anche solo di immaginarcelo questo mondo?) in cui le nostre distinzioni – ormai da noi vissute come naturali ma in realtà storicamente costituitesi – distinzioni tra “sacro” e “profano”, “religioso” e “laico”, “teologico” e “politico”, semplicemente non si davano né avevano ragione di esistere.

 

 

Altrimenti e inevitabilmente cadiamo in un anacronismo mostruoso, fonte di tutte le (numerose) idiozie che, al riguardo, ascoltiamo tutti i giorni attorno a noi. La prima di tali assurdità riguarda i due eserciti l’un contro l’altro armato degli interpreti di quel testo (e di quella storia): il primo è l’esercito dei letteralisti che rimuovono la dimensione simbolica della lingua arcaica giusta la disposizione puramente denotativa del linguaggio contemporaneo (tecnoscientifico); il secondo è quello che rimuove invece tutto ciò che in quei testi fa per noi (moderni) problema riducendo l’interpretazione a un senso vagamente metaforico-analogico deprivato della sua forza originaria (“è solo un simbolo!”, appunto). Il primo, rappresentato chez nous dai “cattivisti”, si appunta sui versettti “violenti” del Corano e crede di trovarvi l’origine di tutti i mali che quella religione e quella civiltà avrebbero prodotto (in primis, del terrorismo arabo, vista la sua ovvia attualità); il secondo, incarnato dai nostri “buonisti”, ripete ossessivamente “L’Islam è religione di pace!” senza neppure dubitare di riprodurre uno slogan totalmente vuoto di senso. Entrambe le parti ricavano il vantaggio di non dover studiare, di non fare lo sforzo per risalire a una mentalità altra dalla nostra e, soprattutto, di sentirsi nella verità in quanto contrapposti alla parte avversa (giochetto che pare troppo infantile per essere condotto da personalità adulte e che pure continua imperterrito da anni). In realtà, entrambe le parti si candidano all’impossibilità di una qualche comprensione (insieme razionale ed emotiva) di quel Testo che, per la sua arcaicità e potenza, fu concepito a una temperatura linguistica altissima. (Proprio per questo non sarebbe una battuta sostenere che gli interpreti autentici – del Corano come di altri testi delle tradizioni monoteiste – potrebbero essere, oggi, solo i poeti). 

 

L’Arcaico – di cui il lettore occidentale onesto del Corano fa prova – è infatti lo stesso Arcaico che innerva tutti i testi del monoteismo (neo e veterotestamentario) ma che attualmente in Occidente viene perlopiù implicitamente rimosso al fine di attualizzare e sdoganare quegli stessi testi. Si tratta cioè – e non da oggi – di addomesticare quei libri alla mentalità nostra dominante, figlia in verità di un processo di laicizzazione (razionalistico-illuministico) che dura da più di tre secoli ma che viene sottaciuto o offerto come “valore perenne”, quindi indiscutibile.

 

(Una riprova di tutto questo potrebbe essere agevolmente inseguita nelle vicende della Chiesa cattolica degli ultimi sessant’anni e, in modo ancora più manifesto, negli anni di quest’ultimo Pontificato il cui “discorso” teologico è sempre più nell’angolo – chi ci parla più di Verginità e di Incarnazione, di Passione dell’Uomo-Dio, di Resurrezione, di Giudizio, di Ascensione e di Transustanziazione? – e al centro di tutto si accampa sempre più – sempre più prosaicamente – la missione sociale dell’istituzione con la sua lotta contro la povertà, non già Madonna Povertà di Francesco d’Assisi aspirazione massima del Cristiano, ma, molto laicamente, la povertà delle masse in tempo di globalizzazione). 

 

Parlare di o auspicare un Islam “moderato” (come un Ebraismo o un Cristianesimo “moderati”) intendendo con quest’espressione una istituzione religiosa aliena da aggressività (verbale e militar-terroristica) nei confronti delle altre è una cosa; credere invece che il singolo credente possa vivere in modo “moderato” la propria fede è un paralogismo perché qualsiasi “moderazione” (o “giusto mezzo” o “compromesso”) deve inevitabilmente saltare quando si entra – da autentici – in una dimensione di per sé radicale ed estrema come quella delle fedi. Solo un’infinita ipocrisia può allora far parlare di credenti “moderati” (=buoni) di contro a credenti “radicali” (=barbari o cattivi), il vero scopo essendo quello di gestire credenze e attitudini fattesi più docili al vincente secolarismo contemporaneo. 

Come esiste da secoli una “cristianità stabilita” (Kierkegaard), una modalità tranquilla e tranquillizzante di dirsi cristiani, c’è e ci sarà un “Islam stabilito” cioè istituzionale, accettabile e adeguabile alle società del Consumo, inoffensivo nei confronti dei valori omologati richiesti dal Mercato Globale e dal Pensiero Unico delle Società di Massa. Per dirla più brutalmente, quale “moderazione” si può chiedere ad Abramo che parte per la montagna di Moria con Isacco e coltello, ai martiri cristiani che entrano nel Colosseo, ai musulmani cui Maometto ha annunciato il Giudizio? 

 

Per ragioni storiche piuttosto complicate, l’Islam è, dei tre monoteismi, quello che pare meno “compromesso” con la Ragione di origine occidentale (ma in realtà sempre più universale) che richiede consumatori e non credenti, relativisti e non assolutisti, empiristi e non metafisici, convinti praticanti del Qui-e-ora e non dell’Eterno. 

 

Non per nulla se ci sono stati libri dirimenti nel dibattito islamico contemporaneo, questi sono i testi di Mohammed Arkoun (islamologo franco-algerino, 1928-2010); celebre il suo Per una critica della Ragione islamica, 1984, vera e propria proposta di adeguamento dell’Islam al discorso del metodo (storico-critico) attraverso cui sono passati, con i loro rispettivi travagli, gli altri monoteismi: per l’“illuminista” Arkoun si tratta di “recuperare il ritardo culturale” che la religione del mondo arabo ha accumulato rispetto alle religioni praticate in Occidente. Ma, con ciò, ci si ritrova all’interno della categoria storicopolitica di Progresso (o di Ritardo o di Reazione) totalmente sconosciuta alla sensibilità araba di quattordici secoli or sono e di per sé estranea ad ogni fenomenologia del “religioso” in qualunque tempo e qualunque spazio esso si generi. A riprova che lo “scontro di civiltà” è ora davvero tutto interno alla civiltà che noi chiamiamo, per semplicità, islamica. 

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Ricette immateriali. Le virtù

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A lungo gli Appennini sono stati una spina dorsale geografica e umana, inevitabilmente culturale, dell’Italia. Una realtà, secondo la lezione di Fernand Braudel, mediterranea come il mare che li lambisce e quasi mai ne è distante. 

 

Una realtà che tuttavia non è sopravvissuta ai profondi mutamenti economici della seconda metà del Novecento e che la modernità ancora oggi “cristallizza” in un lento e progressivo abbandono, apparentemente irreversibile. 

 

Un punto di equilibrio non si intravede ancora eppure in territori esangui dal punto di vista demografico ed economico sopravvive parte dell’antica cultura tradizionale e, ancora nitida, resta la sua memoria. La “dimenticanza”, quasi la rimozione da parte del nostro paese di un intero territorio, ha permesso di conservare maggiormente quello che in altre zone d’Italia, più fortunate geograficamente, si è inevitabilmente perduto.

 

Oggi resiste in molte comunità il sentimento diffuso di un patrimonio culturale da preservare; insieme a questo, timidamente si fa strada anche la consapevolezza che questo patrimonio ha un suo interesse e un suo valore anche economico, se è vero che nella società odierna appare sempre più evidente una domanda di tradizioni – vaga nelle sue declinazioni quanto certa nel bisogno – di genuinità, originalità, conoscenza...

Di tutto questo il cibo e l’alimentazione tradizionale rappresentano il punto focale, perché autentico distillato della cultura di una comunità e di una popolazione.

Ma un bisogno di genuinità, originalità, conoscenze è innanzitutto una fame immateriale, una fame di storie e di parole ben oltre quella del cibo in sé...

 

In questo quadro, La Sapienza degli Appennini vuole essere spazio in cui riscoprire ricette tradizionali (minime, dimenticate, semi sconosciute) degli Appennini – e del mondo mediterraneo a cui appartengono – ma solo per raccontare storie, vale a dire il distillato umano, sociale, letterario, antropologico di un’antica cultura che, seppur rimossa, è parte della nostra identità.

 

 

Può essere anche un terreno di confronto tra due mondi solo apparentemente distanti: da una parte le città e noi consumatori, il benessere, le urgenze di un tempo senza memoria, le mille forme della modernità, dall’altra la montagna con i suoi vuoti demografici, la sua pochezza economica, i suoi silenzi, il senso profondo del territorio, i tempi millenari e quasi cristallizzati.

 

Un ricettario immateriale, perché se è vero che la dimensione più nobile del cibo è la convivialità tra i presenti, è solo nelle storie che per tutti avviene l’incontro tra il racconto e l’ascolto: le parole antiche di una cultura e di una montagna dimenticata, la fame di parole e storie che ignoriamo ma di cui, paradossalmente, possiamo avere ancora bisogno.

 

Le Virtù 

 

Una ricetta abruzzese di oltre quaranta ingredienti differenti tra legumi, paste, ortaggi, erbe aromatiche e spontanee, carni e “condimenti”. Tra questi si potrebbero considerare tali anche i salumi e appunto le carni (prosciutto crudo, parti del maiale) conservate dall’anno precedente. Queste e le primizie dell’anno nuovo vanno a comporre una minestra forse unica nel suo genere; oltre quaranta ingredienti per un piatto il cui nome richiamerebbe alle virtù femminili necessarie alla preparazione del cibo più consono alla famiglia, in cui ancora il nome virtù riporta alla medicina dispersa nelle erbe (ancora conoscenza soprattutto femminile) e nel creato. Certamente nome che guarda al benessere come vocazione.

Tradizionalmente è consumata il primo maggio; non un caso, se maggio, “da sempre”, attraverso la lunga stagione della società contadina, rappresenta il culmine della primavera.

Ma quaranta e più ingredienti per una minestra che vuole essere salutare sono un'enormità, sono quasi una contraddizione. Più di quaranta ingredienti per comporre un alimento che guarda a prevenire e curare il caos da cui scaturirebbe ogni malattia ma al quale allo stesso tempo un numero così elevato di ingredienti sembrerebbe condannarlo...

 

Detto in altri termini, quaranta ingredienti per una semplice minestra non sono forse una sfida alla cultura e alla cultura alimentare, alla capacità di riconoscere e dare senso a ogni singolo ingrediente?

Quanta condivisione dunque, quanta cura tra danni e benefici, tra male e bene, quante attenzioni nella scelta tra i diversi nutrimenti devono esserci state in un piatto chiamato "virtù"...

Eppure se il rinnovamento primaverile era uno degli elementi più evidenti che segnavano l’antico calendario agrario – e la vita delle persone – questa minestra ne rappresenta forse la metafora più estrema e al tempo stesso la sostanza più confacente. Unire insieme legumi, cereali, erbe aromatiche, erbe spontanee e carni significa unire la dispensa all’orto e ai campi, significa comporre un piatto che fosse il trionfo della dietetica e che ne andasse oltre, significa il tentativo di unire la medicina con la cucina, significa rendere quest’ultima altare gaudente nel celebrare il tempo, la natura e la sua forza ad ogni anno rinnovata.

 

E allora vale la pena di ricordare come per qualunque cultura scegliere il cibo ha sempre significato rischiare tra bene e male, tra "buono e cattivo da mangiare". Un dilemma che accompagna da sempre i nostri giorni: il sospetto per ciò che può essere negativo, l'entusiasmo per ciò che è riconosciuto come “positivo”. Oscillare continuamente tra prudenza ed entusiasmo è paradosso ma anche una delle possibilità della vita: in mezzo solo la conoscenza a fare da bussola e sestante. 

Così, un'antica minestra chiamata Virtù può farci intuire un frammento dell'antica sapienza mediterranea, quella femminile in particolare e quella letteralmente dispersa lungo gli Appennini, che ha attraversato e unito il paese.

 

Poi... ben prima di Darwin e di ogni generazione, già all'origine dei tempi, in un punto indefinito a Oriente del Mediterraneo, il cibo era già conoscenza: "La donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza, prese del suo frutto e ne mangiò poi ne diede anche al marito che era con lei e anch'egli ne mangiò" (Genesi 3,6).

 

Vide, prese, mangiò, diede... già con un piede fuori dall'Eden, Eva, sacerdotessa del vero, era la sintesi del nostro destino...

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Dal cuore del caos

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Questa notte ho avuto un incubo. Credevo di essere sveglio nel mio letto. Il ronzio di un bimotore nel cielo. Le ombre delle fronde degli alberi che si piegavano e polverizzavano, come nell’esperimento atomico del Nevada del 1952. Io non potevo muovermi e un cinegiornale mi bruciava le retine senza il soccorso pietoso delle palpebre. Le immagini mostravano il mio paese in preda a un delirio politico. Vecchi compagni di sinistra mostravano i denti come fantocci fascisti. Nuovi fascisti adottavano temi e retoriche della sinistra storica, ovviamente riorientati e distorti. La gente si fasciava la testa prima di essersela rotta, si autocensurava prima che fosse tornata la censura, alzava il termometro della paura senza minacce dirette. Tutta la stampa cartacea e digitale si arroccava nel proprio canone, nei propri stilemi, nelle proprie abitudini cognitive, come se accogliere una voce diversa dalla propria corrispondesse a un’erosione e a una perdita d’identità.

 

L’isteria collettiva del nuovo indecifrabile tornado politico rendeva gli amici diffidenti verso tutto ciò che non somigliava a quello che già conoscevano, e che ancora li rassicurava. A un certo punto un volto di donna che nascondeva a malapena il terrore confermò a sette miliardi di persone che le teorie del complotto erano tutte false. Lo spettro ormai auspicabile di un ordo oeconomicus universalis si era definitivamente accartocciato. Gli alieni non sarebbero più venuti a salvarci o a regalarci un’Apocalisse risolutrice. Eravamo soli con noi stessi. Poi il cinegiornale si è spento e nel ronzio del ventilatore e nell’oscillare delle fronde sotto il temporale mi sono svegliato e ho capito che non era un incubo. Era semplicemente adesso.

 

Ph Ryan Pernofsky.


Nella confusione mi aggrappavo a qualcosa, come un elefante a un filo d’erba: dal cuore del caos sentivo che era arrivato il momento di rifondare un immaginario politico e un linguaggio adeguato per esprimerlo. Scrittori e poeti. Antropologi e artigiani. Gente capace di esprimere coraggio nella palude di una sconfitta che non era la nostra. Che non era la mia. Pensavo queste cose come un mantra, provavo a fare un’analisi. Le strutture politiche e ideologiche della sinistra intellettuale hanno subito un terremoto, stanno vivendo un disorientamento che tende al silenzio e all’immobilità. La rinuncia a un pensiero utopico e l’impoverimento fino alla sterilità dell’immaginario politico hanno lasciato terreno a una retorica che se ne infischia totalmente delle decostruzioni, delle raffinate disamine intellettuali, di fonti, documenti e prove. Perché le ideologie radicali sono sistemi chiusi.

 

Non si decostruiscono e non si smantellano in modo dialettico. Immagini di bambini morti spiaggiati, di staffettiste nazionali color caffellatte, indignados on line per un ministro fotografato in piscina, spiegoni veteromarxisti scritti a Montmartre, o lo sfottò ridanciano che normalizza e sdogana l’assurdo e l’orrore. Niente di tutto questo funziona più. Anzi, si ottiene lo stesso effetto del sarcasmo snob che è stato lo sport di molti intellettuali nostrani, dai congiuntivi sbagliati, ai sottosegretari che non leggono da tre anni, all’irrisione delle sottoculture. Una tattica perfetta per allontanare la base perché, in fondo, chi non ce l’ha un parente che non legge o che sbaglia qualche volta i congiuntivi? Ma il punto è un altro. Il paradigma di riferimento è cambiato.

 

Non abbiamo più a che fare con la verità, ma con la credenza. Ero in treno l’altro giorno e Simone Ghiaroni, da antropologo, me lo confermava: nessuna religione teme la razionalità o l’empatia, quello che teme è un’altra religione, con nuovi simboli, nuovi miti, nuovi riti. Non si combatte la credenza fascista con la ragione. Bisogna cercare un immaginario vergine da contrapporre a quello egemonico. Ma dove? Lontano? Non è che il lontano, quello dell’altro e dell’altrove, è forse già qui? Pensiamo ad esempio all’Africa. Un immaginario smisurato e ignoto che sta arrivando in Italia sui barconi. Non quello dell’islam o dell’animismo o del cristianesimo sincretico, ma un immaginario quotidiano, a noi praticamente sconosciuto, lontano anni luce dallo stereotipo di povertà e sottosviluppo che incolliamo all’Africa.

 

Non penso tanto all’arte, alla musica, alla letteratura subsahariane, penso a visioni della morte, della malattia, della nascita, della donna e del corpo che abitano già in Europa nei mille ghetti neri da Parigi a Palermo. E poi i nuovi schiavi, come le colf tamil e le badanti rumene. Ma chi sono? Che cosa sognano a parte una vita migliore? Guardo il soffitto da questo letto devastato, e sento che siamo qui, in una specie di breve confuso interregno, un periodo-ponte in cui non si tratterà solo di arginare la marea del catrame fascista, ma di preparare la comprensione di quello che sta per accadere. Le destre nazionali parlano di sostituzione etnica. Ma non sarà una sostituzione. Sarà un’osmosi dialettica. Lenta, dolorosa, violenta. Ci vorrà moltissima immaginazione per restare uomini.

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Carnet geoanarchico | 4
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Singolarità tecnologica

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Westworld e Humans sono solo due tra le più recenti serie televisive che mettono a tema il nostro rapporto con la singolarità tecnologica, cioè con il momento in cui si produrrà quel salto evolutivo caratterizzato dalla realizzazione di un’intelligenza di tipo superiore, artificiale. Se in Westworld i robot intelligenti sono oggetti di intrattenimento di un parco tematico per ricchi, in Humans sono parte della classe operaia che svolge quelle mansioni che gli umani non vogliono più svolgere, sono assistenti familiari con la funzione di domestici e badanti forniti dal servizio pubblico. Entrambe le serie ci mettono di fronte a questioni etiche e al bisogno di una morale capace di affrontare il rapporto con il post-umano ma soprattutto ipotizzano la singolarità, il momento in cui i robot acquisiscono consapevolezza e libero arbitrio, diventando una specie evolutivamente competitiva nei confronti dell’uomo.

 

In tal senso questi prodotti dell’immaginario non fanno altro che mettere a fuoco le inquietudini del nostro rapporto con le tecnologie intelligenti che, sottotraccia, cogliamo già in un presente prossimo con le auto che si guidano da sole o con gli assistenti intelligenti nei nostri smartphone o gli smart assitant domestici, quelli commercializzati da piattaforme come Amazon e Google. Ma ancora di più nei progetti di robotica, che spesso conosciamo perché raccontati nel mondo dell’informazione, che prevedono tecnologia dalle fattezze umane, capace di espressione facciale, di interazione in linguaggio naturale; fatti di umanoidi capaci di assistere gli anziani anche in relazione alla telemedicina. In un mix tra fascino e preoccupazione ci prepariamo sempre di più al “momento robotico”, come lo definisce la psicologa Sherry Turkle, il momento in cui saremo sempre più disposti a considerare le macchine come reali interlocutori per le nostre questioni personali e intime, il momento in cui saremo empaticamente predisposti a relazionarci con loro.

 

 

È così che le questioni legate alla presenza sociale delle macchine e all’esplosione di una loro intelligenza escono dalle speculazioni accademiche per entrare in un ambito di interesse sociale più vasto, tra approccio futurista e un bisogno immediato di mettere a tema qualcosa di inevitabilmente vicino.

Il libro Vita 3.0. Essere umani nell’era dell’intelligenza artificiale (Raffaello Cortina Editore, 2018), recentemente uscito, è in questo senso uno strumento per costruire oggi un pensiero sull’intelligenza artificiale che ci aspetta domani e sui cambiamenti che introdurrà nell’ambito del lavoro, della cura e della giustizia. Max Tegmark, professore di fisica al MiT e presidente del Future of Life Institute, ha il dono di saper raccontare la complessità del futuro dell’artificiale intelligente ponendo le domande giuste per progettare oggi un allontanamento dei rischi domani, analizzando il pensiero di utopisti digitali – per i quali la vita digitale rappresenterà il prossimo passo dell’evoluzione e, quindi, dobbiamo solo lasciarla sviluppare come una cosa naturale –, tecnoscettici – che ritengono talmente complessa la costruzione di un IA dall’intelligenza umana da non rappresentare un problema reale – e appartenenti al movimento dell’IA benefica, di cui Tegmark fa parte, che prende seriamente una visione polarizzata in cui lo sviluppo tecnologico potrebbe aiutare l’umanità a fiorire o diventare un incubo della cybersorveglianza globale e che quindi lavora cercando di tracciare il contesto culturale e morale in cui far sviluppare il futuro delle macchine in una direzione non orwelliana.

Secondo la prospettiva del volume, la vita può essere pensata come un processo complesso di mantenimento e replicazione che evolve per stadi: la Vita 1.0 è quella di tipo biologico, caratterizzata da hardware e software che sono soggetti alle dinamiche proprie dell’evoluzione; la Vita 2.0 è di tipo culturale, costituita dalla possibilità di progettare il proprio software grazie allo sviluppo consentito dall’apprendimento; la Vita 3.0 ha una natura tecnologica e ha a che fare con la possibilità di progettare anche il proprio hardware, progettando così la propria evoluzione. 

 

L’IA oggi è ristretta, opera cioè in campi specifici e contenuti, su fini limitati, a differenza dell’intelligenza umana che ha una natura ampia. Nel 1997 il computer Deep Blue dell’IBM ha battuto a scacchi il campione mondiale Garry Kasparov, ma si tratta di una macchina particolarmente esperta in quel campo specifico. Ma il miglioramento tecnologico consentirà a tecnologia più potente di cominciare a costruire tecnologia più potente, in una una spirale ascendente in cui vedremo reti neurali sempre più complesse capaci di apprendere ad apprendere. Nel 2015 Google ha reso pubblico il metodo di apprendimento profondo con rinforzo della rete neurale usata per l’IA Deep Mind che consente di imparare da sola diversi giochi online. Oggi abbiamo computer che usano reti neurali di questo tipo per “giocare” con altri computer, evolvendo quindi, per ora, all’interno di simulazioni. C’è da chiedersi cosa accadrà se robot con reti neurali di questo tipo verranno lasciati liberi di evolvere in ambienti reali. 

Il punto, quindi, non è la trasformazione malvagia della macchina, che abbiamo esorcizzato in una miriade di prodotti dell’immaginario fantascientifico, ma la sua competenza nel raggiungere i fini che le sono stati dati attraverso la progettazione algoritmica. Come spiega Tegmark: “Probabilmente non odiate le formiche così tanto da andare in giro a schiacciarle per pura cattiveria, ma se siete responsabili di un progetto idroelettrico per l’energia verde e c’è un formicaio nella regione che verrà inondata, tanto peggio per le formiche. Il movimento per l’IA benefica vuole evitare di mettere l’umanità nella posizione di quelle formiche.” (p.67) 

 

Nel volume vengono analizzati diversi contesti in cui l’IA, in particolare quella più robusta, verrà applicata in modi sempre più complessi: dal mondo delle comunicazioni a quello dei trasporti, dall’esplorazione spaziale alla finanza, dalla sanità al mondo dell’energia, passando ovviamente per la produzione. In questi contesti dovremo affrontare diverse questioni relative alla sicurezza, alla privacy, ai rischi dovuti all’automazione, alla possibilità di errore tecnico e di anomalie nell’hardware o nel software. Ma la trasformazione più profonda ha a che fare con il nostro essere umani, col significato che avrà l’essere umano in un mondo con l’IA: “già nel breve termine, molto prima che un IAG (Intelligenza Artificiale Generale) possa essere alla pari con noi in tutte le attività, l’IA potrà avere conseguenze drastiche su come vediamo noi stessi, su quello che possiamo fare affiancati dall’IA e su quello che possiamo fare per guadagnare denaro facendo concorrenza all’IA” (p. 127).

Una delle ipotesi suggestive presentate dal libro su cosa farà scattare la singolarità è rappresentata dalla teoria del caricamento dell’intelligenza umana in una macchina. È un percorso che si colloca lungo la possibilità di produrre dei cyborg, ibridi tra carne e silicio, che non è solo materia fantascientifica cyberpunk ma propria di una riflessione culturale che dagli anni ’90 è stata esplorata proficuamente, pensiamo solo ai lavori di Donna Haraway, e che rimanda all’evoluzione di innesti e protesi sempre più raffinate. 

 

 

Ripercorrendo le suggestioni del pensiero di Ray Kurzweil, autore di La singolarità è vicina, Tegmark racconta – considerandola una prospettiva però minoritaria pur se possibile – come “l’uso di nanobot, di sistemi a biofeedback intelligenti e di altre tecnologie [finirà] per sostituire prima i nostri sistemi digerente ed endocrino, il nostro sangue e il cuore, agli inizi degli anni Trenta del ventunesimo secolo, per poi passare ad aggiornare scheletro, pelle, cervello e il resto del nostro corpo nei due decenni successivi” (p. 205). I cyborg sono quindi letteralmente intelligenze nella macchina, corpi umani che si modificano fino alla sostituzione completa degli organi che prelude al caricamento dell’intelligenza umana nella macchina, una realtà non incompatibile con i limiti posti dalla fisica, quindi che ha a che fare con il campo delle possibilità – “Quando?” si chiede Tegmark, non “se”. Anche in questo caso la serialità contemporanea ha esplorato nella recente produzione Netflix Altered Carbon, tratta dall’omonimo romanzo cyberpunk, spingendosi oltre il limite, quello di intelligenze umane che vengono scaricate in altri corpi umani.

 

Anche qui siamo di fronte a prefigurazioni che i prodotti dell’immaginario trattano in modo emotivo, spesso mettendoci di fronte alle nostre paure – quelle della prevaricazione da parte delle macchine – ma che nell’avvicinarsi concreto della prospettiva IA evoluta, nella sua quotidianizzazione nelle nostre vite – pensiamo alla diffusione di oggetti intelligenti – stanno aprendosi a questioni etiche più complesse, mostrando l’esigenza di parlare di nuovi diritti – quelli dei robot –, esplorando elementi complessi che rimandano a vissuti interrazziali e a un’antropologia del post-umani: tra Terminator e Humans, per capirci, c’è un abisso. La nostra esigenza oggi è abituarci a un pensiero che contempli la Vita 3.0 come prospettiva concreta.

 

Il lavoro che fa Tegmark in questo volume ci porta a pensare l’IA in modo meno reattivo e più proattivo. Abbiamo quindi bisogno di sviluppare un’etica dell’IA che non si faccia guidare da una casistica spicciola o dagli ultimi hype sulle reti neurali. Dobbiamo pensare al nostro modo di relazionarci con le macchine che parta da una consapevolezza sociologica e culturale e non dalle necessità ingegneristiche legate alle interfacce. E abbiamo bisogno di elaborare il pensiero di un rapporto con un’intelligenza diversa com’è quella delle macchine, per cui possono servire anche prodotti dell’immaginario come serie tv capaci di farci porre molte domande più che fornirci sbrigative risposte catartiche.

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Umano e post-umano
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Viaggio a Cuzco

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Inseguiamo gli Ukuku nella Plaza de Armas di Calca, un piccolo pueblo nel “Valle Sagrado” degli Incas che si apre tra le montagne a una decina di chilometri da Cuzco. Sono coperti di una veste di lana a trecce bianche e rosse, divise in due fasce lungo il corpo fino ai piedi. Al volto hanno dei passamontagna di lana con un naso a punta, gli occhi cerchiati. Un’aria di angeli o di demoni.

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Vie di fuga

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Nel cuore dei miti cosmogonici degli aborigeni australiani c’è il sogno. In principio era il Dreamtime, il Tempo del Sogno, poi venne il tempo del racconto. Gli antenati totemici di queste popolazioni iniziarono a cantare il mondo attraversandolo, tracciando con il canto la morfologia delle terre. Cantarono i deserti, gli oceani, i fiumi, le catene montuose, «andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero – racconta Bruce Chatwin in Le vie dei canti– e in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto». Quelle ancestrali guide vagabonde erano stati poeti, dice Chatwin, nel senso etimologico della parola, poiésis, ovvero creazione.

Molti dei loro successori nel corso dei secoli hanno abbracciato la filosofia del walkabout, un vagabondaggio rituale per ripercorrere le rotte di quei canti creativi e tenere in vita la terra e la sua storia, perché «una terra non cantata è una terra morta».

Il nomadismo fertile e demiurgico degli aborigeni australiani si trova nel quarto degli otto passi che Adriano Favole raccoglie in Vie di fuga (Utet, 2018) una guida per uscire dalla propria cultura, ma soprattutto per trovare una ragione di questa urgenza di evadere e valicarne i confini.

Il viaggio, la migrazione dell’uomo lungo le rotte della sua immaginazione, della sua insoddisfazione e della sua curiosità, ha realmente inciso la fisionomia del mondo e si configura come primo sintomo della necessità dell’essere umano di uscire dalla gabbia della propria cultura, del suo atavico bisogno d’altrove che ancora ci pulsa nella testa e ci morde le gambe.

 

Non tutte le migrazioni, però, sono avvolte dalla poesia del sogno. Nello stesso capitolo, infatti, Favole racconta dei Tāvaka di Futuna, un paradiso naturale della Polinesia occidentale. Qui, nonostante la meraviglia del paesaggio e una struttura sociale fortemente inclusiva basata sulla cultura del dono e della condivisione – o forse anche in ragione di questo – si è sempre cercato di fuggire (“E mamafa le agaifenua!” dicono i locali, “La nostra cultura è pesante”, come i cesti pieni di tuberi da portare sulle spalle, come un’offesa).

Già nell’Ottocento le cronache riportavano le tragiche storie dei Tāvaka, ragazzi anche giovanissimi che si lanciavano su imbarcazioni di fortuna (vaka) verso un altrove che spesso coincideva con la morte. Oppure cercavano disperatamente di imbarcarsi come clandestini sulle navi di passaggio, nascondendosi nelle stive e augurandosi di sopravvivere al loro desiderio di fuga.

«Tāvaka, in polinesiano, non è solo il viaggio, quanto piuttosto il desiderio di lasciare l’isola, di esplorare nuovi orizzonti, anche a prezzo della morte» precisa Favole, e da questa “cronica malattia pestilenziale”, come veniva descritta dai missionari europei dell’epoca, l’umanità non è mai guarita. Anche le migrazioni di oggi, benché affondino le radici primariamente in guerra, violenza e miseria, contengono qualcosa di quella peculiarità tipicamente umana che nel viaggio trova la dimensione del nostro esistere nel mondo.

«Abbiamo piedi e non radici» ricorda l’autore, e mentre nel mondo, lontano e vicino a noi, si parla di alzare muri, di irrigidire i confini, di chiudere porte, porti e culture, Favole ragiona sul nostro essere irrimediabilmente aperti, liminari, in fuga, si interroga sul perché nessuna cultura riesca mai a chiudersi veramente, a bastare a se stessa e si chiede perché, nonostante tutto, le culture continuino da sempre a dialogare, a cercare di estendere i propri confini, a ibridarsi e ad aprire vie di fuga.

 

«Cresciamo inevitabilmente in platoniche caverne che nascondono l’orizzonte: siamo tuttavia fatalmente attratti dagli altrove» e la cultura è una caverna piena di fessure da cui filtra la luce. Cresciamo dentro la nostra cultura come in una conchiglia: come i piccoli invertebrati di fiume che si costruiscono il guscio con le briciole del minuscolo spazio che abitano, ci costruiamo una corazza che ci accompagna e che percepiamo come incompleta, provvisoria, arbitraria. Siamo così, ma potremmo essere altro, la nostra corazza non è liscia e compatta bensì screziata, cangiante, la nostra caverna è “un dedalo di cunicoli comunicanti”. Ma se la cultura è un artificio che si innesta sul sostrato biologico dell’essere umano, esiste in noi un’innata tensione alla ricerca di vie d’uscita. 

L’incontro con una diversa cultura apre ventagli di possibilità e ci mette davanti a noi stessi, alla nostra «ridicola posizione tra microbi e stelle» (P.L. Berger, Homo ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana, il Mulino. Bologna 1999), al nostro essere «forme di sogni, un impasto opaco senza disegno» a cui Prometeo ha regalato conoscenza, inquietudine e occhi strabici, un po’ rivolti al passato, un po’ al futuro. 

 

 

Dobbiamo uscire dalla nostra cultura per riconoscerci e per metterci in discussione, perché la conoscenza di sé passa necessariamente attraverso l’altro. E il viaggio è solo una, la più esplicita e immediata, delle vie di fuga praticabili; il libro di Favole ne raccoglie molte altre, come indizi e suggerimenti per rintracciare il movente (e la giustificazione) del nostro bisogno di fuggire.

Altre vie di fuga avvengono tramite l’immaginazione, come il rito, il sogno, la menzogna, il teatro, la danza, la poesia, il cinema, il romanzo e tutti i modi di uscire da sé, rappresentarsi, guardarsi da fuori, fingersi diversi e rintracciare nello scarto che si crea possibilità inesplorate, soluzioni alternative.

Altri esempi perfetti sono il gioco e la comicità, il potere di ribaltare la realtà quotidiana, di stravolgerla per aprire una crepa e poi tirarne i bordi. Il gioco, la satira, il riso, le favole sono “vie di fuga e di ritorno”, creano demistificazione, rompono le catene del sacro: «La società è nuda nel breve spazio della risata. La voragine burlesca ricrea il vuoto, apre spazi divertiti sul carattere vacuo della natura umana, chiamata a ricostruire incessantemente se stessa».

 

Lo spaesamento di Ionesco, lo straniamento brechtiano, anche i miti, contenitori di “grumi di pensiero” e “cellule staminali della realtà sociale”, mettono a nudo le incongruenze della nostra vita, il fatto che siamo così ma potremmo essere diversi. Si tratta di forti smottamenti, capaci di aprire faglie nella realtà ordinaria, suggerire nuove traiettorie e mondi alternativi e per questo, spesso, sono avvertiti come pericolosi dalle forme di potere, vie di fuga come minaccia al loro istinto di conservazione.

Se l’uomo è condannato a ricostruire se stesso continuamente tramite la cultura, le forme di potere economico-politiche nei casi peggiori tentano di manipolare e di ostacolare il processo di “antropo-póiesi” (F. Remotti, Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, Roma-Bari 2013), la costruzione culturale dell’uomo.

L’imposizione di simboli, miti, linguaggi, la manipolazione dell’informazione, l’appropriazione culturale, la ricerca di uniformità, e poi la chiusura dei confini, l’apologia dell’identità (che non è cultura, ma la sua “cintura di castità”) sono solo alcuni dei passi fondamentali del processo di colonizzazione della cultura. Basti pensare alle dittature del Novecento, alla propaganda nazi-fascista, agli enormi tentativi di monopolizzare la fabbricazione dell’essere umano che hanno portato alla Shoah e prima ancora all’olocausto dei nativi americani e che si sono ripetuti in tutti i casi di negazione culturale in America, Africa, Asia, Oceania…

 

Le vie di fuga ci proiettano verso l’altro e guardando l’altro vediamo noi stessi, ciò che siamo e ciò che potremmo essere, come potremmo cambiare: «solo estendendo significati, modi e stili di vita che ci sono familiari in direzioni altrui ci rendiamo conto del loro carattere arbitrario», più lo strano diventa familiare (più ci avviciniamo all’altro, ci sforziamo di guardare attraverso i suoi occhi), più il familiare sembra strano, discutibile, forse anche sbagliato. Per questo le vie di fuga non vanno d’accordo con i totalitarismi.

Ma nessuna cultura è mai riuscita a chiudersi definitivamente e completamente: «siamo esseri meta-culturali, non semplicemente prodotti e produttori di cultura. È la capacità di uscirne che ci definisce. È la capacità di progettare, di guardare al futuro, di immaginare altri mondi. Fugge da sempre Homo Sapiens, [...] l’inquietudine meta-culturale anima il passo e l’immaginazione».

E nel fuggire ci muoviamo gravati dalla nostra cultura, imbrigliati nella nostra ragnatela di simboli. «Le culture sono alquanto vischiose» e non esiste un terreno culturalmente neutro su cui intavolare un dialogo; ogni incontro comporta la fatica di uscire dalla propria cultura per entrare nell’altra, consapevoli delle lenti culturali che colorano il nostro sguardo, degli inevitabili vizi di interpretazione, della distanza da colmare e della possibilità di scoprirsi, nell’incontro con l’altro, un po’ meno saldi e un po’ più fragili.

La proposta di Favole è testare questa capacità di attraversamento culturale, mettere alla prova le proprie parole, i propri linguaggi, le categorie e i sistemi simbolici in cui siamo invischiati per incontrare l’altro in un dialogo che rispetti l’etimologia della parola stessa, che sia un attraversare (dia) i confini, anziché chiuderli. Il movente di questi otto passi per uscire dalla propria cultura viene dalla nostra atavica predisposizione ad andare altrove, ma la ragione per impegnarsi a farlo appare oggi più urgente che mai, in un tempo di assurde chiusure che non tengono conto di quanto i confini culturali siano porosi e labili e di come soltanto nell’attraversamento e nella contaminazione possa generarsi cultura nuova e, rigenerandosi, sopravvivere.

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Esercizi di lettura terrestre

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«Esercizi di lettura terrestre»: così chiama questi suoi Matteo Meschiari, détournando uno dei titoli più celebri – forse in assoluto il più decisivo, anzi – della critica letteraria del Novecento italiano. Sto parlando ovviamente degli Esercizî di lettura di Gianfranco Contini (ossia quello che era stato, per il maestro di Meschiari Ezio Raimondi, forse il maestro-chiave). Proprio in questo libro del 1939 – proveniente dunque da quella che ci appare, è il caso di dire, un’altra era geologica – si trova un passo citatissimo, a proposito delle poesie di Michelangelo, che malgrado petulanti mode avverse continua ancora oggi ad apparirmi la bussola più attendibile: «lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica». Parafrasando Contini, dunque, la lettura terrestre di Meschiari altro non sarà che un modo di conoscere il mondo attraverso quei «documenti spontanei» che sono, per lui, i testi letterari: i quali «registrano, nella storia individuale e collettiva» i «fare spazio» dell’uomo, «cioè modi, strategie e narrazioni del suo stare al mondo nel mondo».

 

In generale, si capisce, un’espressione come conoscere il mondo può voler dire tutto e il contrario di tutto. Nell’ottica di Meschiari mi pare si connoti però di quella medesima «funzione soggettiva e predicativa» che egli attribuisce a un’altra formula-concetto dalla sin troppo estesa e in generale aproblematica occorrenza, quella del paesaggio. La lettura terrestre sarà dunque una conoscenza della terra attraverso la lettura (dei testi letterari) nonché, biunivocamente, una conoscenza (di quei medesimi testi) attraverso la terra. (Un po’ come la cognizione del dolore, nel titolo-chiave dell’autore-chiave di Contini, Gadda – al quale con insistenza guarda, non a caso, pure Meschiari –, significa tanto la conoscenza oggettiva del dolore umano quanto quella soggettiva attraverso il dolore individuale.) 

 

Tanto varrà a operare quella che Meschiari definisce «un’inversione di paradigma», rispetto alla maggior parte dei tentativi di geografia della letteratura incoraggiati dal tanto reclamizzato spatial turn da qualche decennio in corso: e che ai suoi occhi sono forse accomunati, quale più quale meno, dal rigurgito neo-positivista che (ha scritto nel suo ultimo libro, Disabitare, Meltemi 2018) è tipico di ogni «ripiego disciplinare». Contro il quale egli di contro professa – e performativamente pratica – un’«audacia postdisciplinare» (l’espressione è ripresa dallo Jacques Lévy di Inventare il mondo), «panoramica e visionaria». In questa divisa – che è etica e temperamentale, prima che concettuale e “poetica” – gli è phare un altro maestro oggi forse fuori moda, il Gregory Bateson di Mente e natura che, scrive Meschiari sempre in Disabitare, «in antropologia ha saputo decostruire dall’interno e dall’esterno il concetto di campo (facendo della sua stessa vita un “terreno”) e sforzandosi di pensare l’epistemologia più come un punto di vista che come un riflettore da stadio sparato sulle cose».

 

 

Lavorare sul campo– volendo a nostra volta détournare uno dei sintagmi disciplinari più “tecnicamente” connotati – equivarrà allora a decostruire, mediante un contatto più radicato e corporale coi testi, il “campo” non solo delle sempre più asfissiantemente microspecialistiche partizioni delle “scienze umane” ma, più alla radice, dello stesso “modo” discorsivo che chiamiamo “critica”. Di qui la circolarità – che di certo qualcuno non mancherà di rimproverargli – con cui Meschiari affronta problematiche simili, di volta in volta, in sede di lettura ravvicinata di testi (come nel caso presente), di proposta teorica (in pubblicazioni dal taglio quasi pamphlettistico) e di autonoma produzione letteraria (nei testi poetici di Appenninica, per esempio, dopo lunga elaborazione raccolti presso Oèdipus nel 2017; o nella fantasmagoria narrativa di Neghentopia, pubblicata lo stesso anno da Exòrma; forse soprattutto nel suggestivo “fuoriformato” rappresentato da Artico nero, uscito l’anno precedente dallo stesso editore). Un’attitudine multitasking che non è però fine a se stessa (come in troppa produzione “creativa” cui si lasciano andare, blasé, critici saggisti e accademici vari), servendo viceversa a ruotare “cubisticamente” i punti di vista, nel tentativo di fornire un «rilievo come stereoscopico» (diceva Contini, sempre, discorrendo di Renato Serra) al proprio oggetto. Non diversamente operò a suo tempo, in effetti, l’antropologo più “selvaggio” del Novecento, e che dello stesso Novecento è stato fra i maggiori scrittori in assoluto: il Michel Leiris dell’Africa fantasma (anno di grazia 1934: due anni prima dell’esordio di Bateson, cinque prima degli Esercizî di Contini).

 

«Selvaggio» è a sua volta lessema connotatissimo, si sa, nel vocabolario disciplinare dell’antropologia: a partire dal Pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss che nel ’62 ebbe in sorte di farsi livre de chevet anche dei “giovani turchi” della letteratura d’allora (il culto di un Arbasino, per esempio, ha trovato pubblica celebrazione, ex post, con un titolo recente come Pensieri selvaggi a Buenos Aires). Anche questo titolo-crocevia Meschiari lo ha fatto proprio, e insieme lo ha détournato, con un libro che di questo che state per leggere si può considerare il fratello gemello (e di fatto ne condivide, inaggirabilmente, alcune pagine). Parlo del testo che giusto dieci anni fa ha fatto conoscere il suo autore anche al di là della cerchia disciplinare: Sistemi selvaggi (Sellerio 2008). Non si pensi però che l’attributo di «selvaggia» connoti questa scrittura in senso spontaneistico, semplificatorio, approssimativamente scapigliato. Tutt’al contrario è quello della «complessità» l’orizzonte cui l’autore sempre rinvia; e un’espressione sintomatica di Calvino – «trasformare il paesaggio in ragionamento» – la sua citazione preferita. Non si dimentichi infatti che selvaggio è il suo sistema: due termini che compongono fra loro, se non un ossimoro, certo un tropo improntato alla tensione (valore-guida, la tensione, del Contini “stereoscopico” di cui sopra). 

 

Nel libro del 2008 definisce «selvaggia», Meschiari, la «mobilità delle correnti» nel «dinamismo paesaggistico» che intende descrivere: nella vocazione a «parlare del movimento di approssimazione più che della terra ferma». Ed è proprio questa, a mio modo di vedere, la più attraente specificità (ancora una volta, mi pare, prima temperamentale che concettuale) del suo pensiero: la quale ne fa uno dei pochi che si possano senza tema definire originali, nella sin troppo ordinata repertoriazione dei saperi cui è solita limitarsi la mia generazione. Riguardo al concetto-totem di paesaggio, infatti, Meschiari rifugge dalle descrizioni, pure affascinanti, che lo ipostatizzano come un dato. Non gli interessa tanto (ha scritto nella Terra postmoderna, Aracne 2015) «la Terra con la maiuscola, quella delle cosmologie, quella ambientalista», quanto «la terra dei paesaggi radicali, fatti di roccia e ghiaccio, la terra nuda delle grandi migrazioni, percorsa da animali selvaggi e da popoli nomadi». Selvaggioè, nella prassi prima che nella teoria di Meschiari, il «pensiero aperto, acentrico, asimmetrico e anarchico» che gli insegna l’ultimo dei maestri-chiave, il Feyerabend di Contro il metodo (citato in questi termini in Sistemi selvaggi): esattamente omologo al frame esistenziale, e insieme concettuale, in cui tale pensiero s’inscrive: il paesaggio, appunto, allo stesso modo «aperto, acentrico, asimmetrico e anarchico».

 

Dunque oggetto di questo libro non è tanto un Paesaggio-mappa – quello cui s’è ispirato tanto postmodernismo cui Meschiari, contro le mode avverse, non si perita peraltro di riconoscere, quand’è il caso, il proprio debito intellettuale – bensì un Paesaggio-cammino. Non un dato, si diceva, bensì un processo. Come si legge qui, il paesaggio «ci offre una grande lezione di realismo, di pragmatismo, e nella prassi quotidiana o della ricerca è come se garantisse una maggiore apertura ai dati qualitativi dell’esistenza». 

La scommessa più rischiosa, e più affascinante, che si possa desumere dagli esercizi di lettura terrestre raccolti in questo libro è quella di proseguire quell’equivalenza “sistematica” fra testi e terre– equivalenza funzionale, bi-univoca s’è detto – non solo in termini descrittivi ma, appunto, interpretativi. Questo il giro di vite di Meschiari quando distingue «testi con paesaggio, testi di paesaggio e testi-paesaggio» (definizione, questa, che proviene dal risvolto di copertina scritto da Calvino, nel 1983, per L’angelo di Avrigue di Francesco Biamonti). Questi ultimi «non fanno solo mimesis o ekphrasis ma tendono ad adottare in ambito verbale la stessa omologia problematica che si dà talvolta tra mappa e territorio». Il trattino della formula «non stabilisce un parallelo metaforico, ma un’omologia strutturale». (Curiosamente mi sono trovato di recente a impiegare questo medesimo dispositivo diacritico, diciamo, per provare a distinguere – nell’ambito iconotestuale dei cosiddetti “libri d’artista” – dalla «Pittura/Poesia», che contempla la mera giustapposizione di parole e immagini, e dalla «PitturaPoesia», che le identifica senza residui come nella cosiddetta poesia concreta, la «Pittura-Poesia», la sola cioè in cui si assista a un’effettiva relazione dinamica, interattiva, fra parola e immagine: nel mio caso parafrasando la distinzione operata dal maggior teorico del Pictorial Turn, W.J.T. Mitchell, fra «Image/Text», «ImageText» e appunto «Image-Text».) 

 

Un esempio brillante di questa omologia interpretativa ce lo offre il saggio, che si legge in questo libro, su un autore che trovo anch’io fra i più sottovalutati del nostro Novecento letterario, Camillo Sbarbaro. Ricordando la nota e allusiva passione catalogatoria del poeta ligure per i licheni (Montale, che lo conosceva bene, non faticava a diagnosticarvi «una forma di disperazione»), di cui finì per diventare uno dei maggiori esperti mondiali, dice per esempio Meschiari che «come la struttura del lichene è metonimica (perché i licheni si dilatano, e moltiplicano in modo progressivo le loro unità minime secondo un principio di autosomiglianza), allo stesso modo la scrittura procede per dilatazioni dello sguardo, montando catene sintagmatiche di immagini in cui presenza e assenza si allargano, si propagano a vastità insospettate, ma restano sempre attaccate, come licheni, al dettaglio minimo, a un irrinunciabile sostrato piccolo e rassicurante». È un’osservazione suggestiva non solo e non tanto nel merito, quanto appunto nel metodo: un esempio di «isomorfismo», come lo chiama Meschiari, «tra paesaggio verbale, realtà geografica e struttura dei saperi», osservabile appunto in quelli che lui chiama, come detto con Calvino (altro scrittore-botanico, se non altro per lignée genealogica, come Manzoni e poi Gadda nel prosieguo del libro), «testi-paesaggio».

 

Ma si sarà notato come, nella descrizione della scrittura di Sbarbaro, Meschiari adotti immagini processuali, dinamiche, non a caso affidate ai verbi (le dilatazioni dello sguardo che montano catene sintagmatiche, presenza e assenza che si allargano, la scrittura che infatti procede). Per questo preferirei – e, senza rifletterci troppo devo dire, in passato ho preferito – parlare, anziché di isomorfismo (formula che mi pare istradi più verso una percezione del dato, che del processo), di isotropismo: concetto questo che mutuo dalla mai troppo lodata Geografia di Franco Farinelli (uno dei libri più nutritivi prodotti dalla critica italiana negli ultimi decenni). Mi permetto questo minimo appunto lessicale in quanto è proprio Meschiari che ci offre, nel resto del libro, una messe di esempi di lettura quanto mai brillanti che vanno proprio in questa direzione. 

 

È il caso della geo-filologia (azzardo a mia volta il conio di una sotto-disciplina, come spesso Meschiari si diverte a fare) cui vengono sottoposti i testi di Biamonti; ma si pensi poi, per fare l’esempio più notevole, a come venga mobilitata – per parafrasare un’ultima volta Contini – una quanto mai suggestiva funzione-Leonardo (si parla, è bene precisare, di Leonardo scrittore, non del pittore; anche se non sarà forse casuale, tale esemplarità di uno scrittore che è anche-e-soprattutto-altro: come quella del Galileo di Calvino, e già di Leopardi, o del Michelangelo, ancora una volta, di Contini): il cui «sguardo empirico», che «scompone il mondo in singoli fenomeni, in serie infinite di rapporti causa-effetto», realizza un «percorso di emancipazione naturale» che si pone come contromodello, sempre attivo e disponibile, rispetto alla spiritualizzazione romantica del paesaggio codificata da Amiel («Ogni paesaggio è uno stato d’animo»: formula di cui Meschiari ritrova l’etimo spirituale, è il caso di dire, nella grande fenomenologia paesaggistica manzoniana – con l’eccezione perturbantemente pre-gaddiana dell’episodio della vigna di Renzo nel capitolo XXXIII del romanzo, al quale Andrea Zanzotto una volta dedicò una pagina memorabile –, filtrata poi nell’«ideologia geografica» di Padre Stoppani e dei suoi tanti “nipotini”… ma che non sarebbe improprio ravvisare neppure alle radici del «correlativo oggettivo» modernista, eliotiano e montaliano; non a caso proprio a Leonardo guardava, di contro, il capofila di una tradizione diversa, quel Dino Campana al quale sempre non a caso ha dedicato una bellissima monografia, Meschiari, lo stesso anno del suo Sistemi selvaggi…). 

Il Leonardo la cui «battaglia con la lingua» Calvino, in quelle Lezioni americane che le mode di oggi dileggiano, opportunamente descriveva quale «prova dell’investimento di forze che egli metteva nella scrittura come strumento conoscitivo, e del fatto che – di tutti i libri che si proponeva di scrivere – gli interessava più il processo di ricerca che il compimento di un testo da pubblicare» (mio il corsivo), è a ben vedere lo stesso Leonardo al quale Gadda ispira l’enciclopedismo geo-letterario delle Meraviglie d’Italia e degli Anni (siamo sempre al displuvio degli anni Trenta).

 

Questo stesso metamorfismo incessante, che in epoca romantica si ritroverà nel diversamente-romantico Goethe della Metamorfosi delle piante (al quale tanto dovettero, come si sta cominciando a mettere in luce, le avanguardie artistiche di primo Novecento – basti pensare a Paul Klee), mutatis mutandis connota pure l’ethos riflessivo, la scrittura irrefrenabile, in definitiva l’inquietudine esistenziale del nostro autore. A Matteo Meschiari dobbiamo non solo il frutto dilettevole, e l’indubbia utilità “disciplinare”, di tante pagine acute; queste le troviamo anche da altre parti. Quello che gli dobbiamo, soprattutto, è un esempio di coraggio intellettuale. E questa, invece, non è merce così comune. 

 

Questo testo è la prefazione al nuovo libro di Matteo Meschiari Nelle terre esterne. Geografie, paesaggi, scritture, per la collana Lettere Persiane dell’editore Mucchi.

Matteo Meschiari e Andrea Cortellessa saranno fra i partecipanti alla terza edizione dell’Umbria Green Festival, in programma fra Terni e Narni da giovedì 4 a domenica 7 ottobre. Letture, spettacoli, mostre e installazioni (quelle, fra gli altri, di Abel Herrero e Giuseppe Sterparelli) si alterneranno con gli interventi di sessanta relatori fra i quali Corrado Augias, Stefano Mancuso, Valerio Rossi Albertini, Nicola Gardini, Michael Jakob, Franco Arminio, Niccolò Scaffai, Paolo D’Angelo, Mariangela Gualtieri, Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Beppe Sebaste, Laura Pugno e Maria Grazia Calandrone. Nella regione “verde” per antonomasia, Umbria Green Festival è un appuntamento dedicato all’ambiente seguendo una doppia prospettiva: quella dei convegni e degli incontri tecnici che coinvolgono specialisti del settore dell’energia rinnovabile e dell’impatto ambientale, e quella sociale e antropologica, che promuove e stimola il dibattito artistico e culturale per un futuro sostenibile. Senza fondamentalismi ideologici: le conferenze d’apertura, giovedì alle 18 alla Biblioteca Comunale di Terni, saranno affidate a punti di vista antitetici come quelli di Giulio Ferroni (Rimediare alla civiltà) e Gianfranco Marrone (Addio alla Natura).

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Gli spaesati di Angelo Ferracuti

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Tra il turismo sismico e la cura di un paesaggio devastato da un terremoto con pochi precedenti, la differenza sta tutta nella pasta dello sguardo. È la differenza che corre tra l’occhio dopato delle telecamere, puntato morbosamente sulle rovine delle case e della gente, e l’occhio umano che continua a guardare quello che resta quando si spengono le luci.

Gli spaesati, il libro scritto da Angelo Ferracuti con le fotografie di Giovanni Marrozzini (Ediesse, pp. 182, € 16), è il racconto per parole e immagini di un viaggio nelle zone colpite dai terremoti del 24 agosto, del 30 ottobre 2016 e del 18 gennaio 2017. Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio. 

 

Se c’è una denuncia, contenuta in questo libro toccante e grondante grazia e onestà intellettuale, è alla cecità. C’è un’Italia, fatta di paesi, di artigiani, allevatori e agricoltori, di cui nessuno si ricorda e che però ancora rappresenta il cuore vivo dell’Italia. Ciò che non fa tendenza, in un paese ammalato di trendismo, non esiste: “Di certi posti e di certa umanità ti accorgi solo quando vanno in pezzi. L’Italia sconosciuta fa notizia solo quando muore e può mettere in moto la macchina della solidarietà”.

Ma invece di scendere sul terreno della denuncia urlata a squarciagola, Ferracuti, che attraverso lo strumento del reportage narrativo sta costruendo un racconto dell’Italia contemporanea che ha pochi eguali, opta per una resistenza gentile. Insieme al bianco e nero di Marrozzini, offre al lettore non un grido ma uno sguardo che non rinuncia a essere umano: “Prende la navetta tutti i giorni, rientra nel suo paese a controllare l’orto, parte la mattina con grande entusiasmo e torna alla sera al tramonto malinconico”.  

 

Il fotografo e l’autore di Il costo della vita decidono di raccontare soprattutto i “restanti” – per usare un termine dell’antropologo Vito Teti, che Ferracuti cita in nota –, “coloro che dopo il sisma hanno scelto da subito di continuare a vivere nei paesi martoriati dalle scosse”. Non sono eroi ma persone comuni che a quelle terre appartengono come si appartiene a un nome, ed è in quell’appartenenza che sta tutta la loro dignità. Tornare al paese, per quanto a pezzi, è l’istinto di chi spaesato non ci riesce a stare.

Angelo Ferracuti va ad Accumuli, Amatrice, Castelluccio di Norcia, Amandola, e apre l’alfabeto come Giovanni Marrozzini fa con l’otturatore: “In prossimità di Colle incontro un gregge di pecore che blocca la strada e alla fine un allevatore macedone che parla una strana lingua: ammonisce le bestie sgolandosi mentre il cane si sposta abbaiando gendarmesco”. L’Italia si svela senza scoop, aprendo gli occhi e facendo un viaggio nel cratere, per citare un titolo di Franco Arminio che firma una toccante introduzione.

 

L’Italia post sismica che racconta Ferracuti è un’Italia fulminata prima dai riflettori e poi dalle promesse, sfinita dall’attesa e dall’immobilismo che congela tutto. Alcuni sono montanari portati in salvo negli alberghi della costa, che non riescono ad adattarsi al confort accessoriato e soffocante di una stanza d’hotel; altri sono allevatori che non si danno pace se non sanno in salvo anche gli animali. Tutti, in ogni caso, hanno un’intimità abbandonata nelle case, che il crollo ha scoperchiato: “È come se il terremoto avesse violato all’improvviso la vita segreta delle persone colta nei momenti più antichi e rituali, e ora di questa violenza restano le nature morte a cielo aperto, squarci di vita intima”.

 

Gli spaesati è dunque prima di tutto un libro per la riabilitazione dello sguardo, e di quell’esercizio del guardare alla vita con la lingua che, come scrive Herta Müller, è quello che la letteratura fa o dovrebbe fare. In questo libro prezioso perché insieme poetico e civile, ci sono onestà e mitezza insieme, che restituiscono gli occhi a chi ha rinunciato a guardare perché accecato dalla morbosità dei giornali e delle televisioni. Il metodo di Angelo Ferracuti viaggia in direzione opposta: opporre mitezza e lasciare entrare nello sguardo solo quello che c’è. Il resto, il racconto troppo amplificato, è in fondo una forma di violenza: “L’accanimento narrativo di tutti questi mesi ha violato l’innocenza di questi montanari timidi e ritrosi”.  

 

Questo articolo è apparso su la Repubblica, che ringraziamo.

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Le Alpi nel mondo antico. Da Ötzi al Medioevo

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In un recente articolo intitolato How to change the course of human history (at least, the part that's already happened)*, l’antropologo David Graeber e l’archeologo David Wengraw prendono di mira, sforzandosi di decostruirla, l’interpretazione standard – identificata in alcuni lavori di Francis Fukuyama, Jared Diamond e altri – dei nostri ultimi 40.000 anni; la prospettiva minima, diceva il poeta Gary Snyder, per provare a capire qualcosa di ciò che siamo e di come si sia costruita la nostra esperienza del mondo. Il punto, sostengono, è che il modo con cui di solito si racconta lo svolgimento della storia umana – riassumibile in una sequenza limitata di fasi: un presunto stato di natura dei piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, mobili e egalitari; una “rivoluzione” agricola che lo sostituirebbe; l’emergenza di un potere centralizzato nella formazione delle città... – è sbagliato non tanto e non solo per una mancanza di informazioni (in particolare per il periodo precedente al Paleolitico superiore), quanto per la difficoltà di assumere, nella formulazione di quelle che restano comunque ipotesi, le informazioni già esistenti per quanto ovviamente frammentarie, disperse e “imbarazzanti” possano essere. Le scoperte più recenti dell’archeologia e dell’etnografia, come di altre discipline, scrivono Graeber e Wengraw, permettono di dire che “quelle che sembrano essere delle verità evidenti, all’evidenza, paiono senza fondamento”. 

 

L’archeologia, sottolineava negli anni ’70 l’archeologo inglese David Clarke, è “ancora un insieme di domande, piuttosto che un insieme di risposte”, per quanto instabili, e questo lascia di fatto sempre aperta la possibilità che “le spiegazioni sullo sviluppo dell’uomo moderno, la domesticazione, la metallurgia, l’urbanizzazione e la civilizzazione – potranno, una volta rimesse in prospettiva, apparire come delle trappole semantiche o dei miraggi metafisici”. Insomma, la rigidità delle strutture ideologiche in cui siamo di volta in volta immersi ci impedisce spesso di riconoscere l’ampiezza della varietà delle esperienze umane e sociali che nel lungo periodo hanno caratterizzato i nostri predecessori. È quanto suggeriscono, per esempio, gli studi che anche in contesto alpino mostrano, a partire dalla fine dell’ultimo periodo glaciale (10-9000 a.C.), il ruolo della stagionalità nelle dinamiche di mobilità e di insediamento tra luoghi complementari (in termini di risorse disponibili, ma non solo), e le implicazioni connesse al carattere temporaneo delle strutture di potere e degli ordini sociali che vi erano associati. Pur se relativamente più recente rispetto ad altre archeologie, l’archeologia delle Alpi (l’acronimo AdA è anche il nome di una bella collana di studi curata dall’Ufficio beni archeologici della provincia di Trento) sta contribuendo a ridisegnare le nostre conoscenze su questa particolare regione europea e su quello che può rendere nuovamente tangibile del nostro passato remoto, certo, ma anche di quello più prossimo e tragico (come nel caso della Prima guerra mondiale). 

 

L’esempio più eclatante, almeno finora, per la qualità di conservazione del corpo e dei reperti ritrovati e la ricchezza e il dettaglio delle informazioni dedotte, è quello di Ötzi, la mummia (3350-3100 a.C.) scoperta nel 1991 da una coppia di turisti tedeschi a 3200 metri sul ghiacciaio del Similaun, al confine tra Italia e Austria. Cosa ci faceva a quest’altitudine? Da dove veniva e dove andava? È proprio con il racconto delle cause della sua morte che il giornalista e storico tedesco Ralf-Peter Märtin apre Le Alpi nel mondo antico, scritto a sua volta nell’urgenza di un corpo eroso dalla malattia, e dove in un centinaio di pagine sintetizza a partire da episodi noti (Annibale) o meno (il periplo di cimbri e teutoni) le vicende della regione alpina nel periodo compreso tra l’Età del bronzo e l’alto medioevo, epoca della loro completa cristianizzazione.

 

Per quanto eccezionale, il ritrovamento di Ötzi va compreso all’interno di un insieme di relazioni ben più antiche (almeno dal IX millennio a.C.) che mostra la precoce importanza delle direttrici geografico-culturali attraverso le Alpi (per esempio lungo i sistemi vallivi dell’Adige a sud, dell’Inn e del Reno, a nord) e del ruolo che hanno svolto (soprattutto, tra il V-III millennio a.C.) nella progressiva colonizzazione della media e alta montagna connessa all’emergenza delle pratiche agropastorali, minerarie (rame, ma anche sale) e metallurgiche, ormai attestato sui due versanti da numerosi siti e ritrovamenti (materie prime, strumenti, manufatti, sementi, erbe, etc.). Sarà in gran parte lungo quelle stesse direttrici che più tardi (I-II sec. d.C.) si stabilizzeranno le vie di transito transalpine sotto la spinta romana, e la sottomissione delle genti che vi abitavano. Vie attraverso le quali, con l’indebolimento dell’Impero, scenderanno verso sud le popolazioni del centro e nord del continente. A ulteriore conferma, se ce ne fosse bisogno, della centralità delle Alpi nella storia europea e nella comprensione dei complessi rapporti tra il mondo mediterraneo e quello delle pianure centro-settentrionali. E anche dell’interesse di dar spazio, anche per l’antichità, alle “voci” interne del mondo alpino. Perché anche in un libro ricco di storie e informazioni come questo, appena il discorso esce dalla preistoria (i primi due capitoli), e dalla concretezza di un sito e delle sue tracce materiali, lo sguardo per quanto erudito perde presa e le Alpi diventano ancora una volta più il teatro delle gesta di chi le ha traversate con altre mete, o le ha volute dominare e controllare per interesse, che di coloro che vi abitavano. 

 

*  https://www.eurozine.com/change-course-human-history/

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Silenzi

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Il silenzio è pensiero, quando ne parli non c'è più. Il silenzio è scrivere, leggere, è il libro, è lo schermo, pieni di parole mute e silenziose. Il silenzio è lo spazio che la parola inter-rompe, divide in blocchi insinuandosi nei suoi interstizi, come quelli esaminati da Giovanni Gasparini nel suo C'è silenzio e silenzio, Milano 2012, volumetto della collana dell'Accademia del silenzio dell'editore Mimesis. E la parola allora dove sta? È la freccia che rompe il silenzio, o se ne sta affondata nel mare o nelle brume del silenzio, nelle quali talvolta affonda e dalle quali talaltra affiora? 

 

O sono le frasi cucite sulla stoffa del silenzio stesso? È David Le Breton a usare quest'ultima immagine, nella sua Ouverture posta paradossalmente e provocatoriamente alla fine del suo trattato sul silenzio (pubblicato originariamente in francese nel 1997 col titolo Du Silence, Editions Métailié, Paris 1997 ma aggiornato dall'autore per l'attuale edizione in lingua italiana: Sul silenzio. Fuggire dal rumore del mondo, trad. di Paola Merlin Baretter, Raffaello Cortina, Milano 2018). L'ouverture apre al silenzio sinestetico della pagina bianca non ancora riempita dai caratteri della parola scritta, quel biancore silenzioso di cui parla anche Erling Kagge (Il silenzio. Uno spazio dell'anima, Einaudi, Torino 2017: vedi la mia recensione qui). 

 

Partirò dunque, da buona metaforologa, dalle metafore del silenzio, che nel testo di Le Breton sono tantissime e superano di gran lunga quelle da me esaminate nel mio contributo alla medesima lodevole collana (Francesca Rigotti, Metafore del silenzio), che dal 2012 offre i suoi contributi al tema (ultimo volumetto uscito, Antonio Pivo, Il silenzio e lo spazio). Nella mia analisi mi concentravo su due campi specifici, che chiamavo «metafore del silenzio di ghiaccio e di pietra» e «metafore del mare del silenzio», notando come la maggior parte delle immagini linguistiche che si usano per designare il silenzio e i suoi effetti si possano raggruppare, con sorprendente omogeneità, attorno a uno di questi due centri, formando due campi metaforici la cui consistenza fa supporre che abbiano il valore di strutture mentali. Il campo metaforico del silenzio solido, di vetro, di pietra, di ghiaccio, che la parola rompe e spezza, convive con quello del silenzio liquido-magmatico e le sue variazioni: il cotone di un silenzio ovattato e nebbioso; il velo di un silenzio squarciato, lacerato dalla parola violenta come una lama o dal gesto delle mani che strappano il tessuto: silenzio che quale sudario copre e avvolge le cose prive di vita, vecchie, polverose, dimenticate, giacché il silenzio sta, non dimentichiamolo, sul versante del mondo negativo, regno della tenebra e del male, mondo freddo, tetro, muto, oscuro; del mondo privato della vita, mancante, non esistente. Così interpretato il silenzio appare, soprattutto, come luogo spaziale nel quale stanno immerse e nascoste le parole che si muovono nel tempo, luogo dunque ben più ampio di quello del linguaggio, come la massa delle acque marine – l'immagine è da Il mondo del silenzio di Max Picard (2007 in lingua italiana, ma 1948) – è più grande della massa della terraferma. Analogamente la terraferma del linguaggio «contiene più essere», nel linguaggio della metafisica platonica adottato da Picard, possiede una maggiore «intensità di essere» rispetto al mare del silenzio.

 

Le Breton per parte sua esibisce una serie ricchissima di immagini per parlare di ciò di cui non si può parlare senza negarlo o spezzarlo: silenzio che è «respiro tra le parole», che «scende» (sipario? nebbia?) o «precipita» (valanga? cascata?). Silenzio che «ispessisce» lo scorrere del tempo, «coagula» lo spazio, «spezza la fluidità della parola». E poi ancora, il silenzio è «trama», è «argine» rotto il quale la parola fluisce all'impazzata, è «fortezza» destinata a troncare ogni forma di comunicazione, «grido» murato nella carne, storia «congelata» nel dolore. Se è poi forzato, il silenzio è «cappa di piombo» ma anche «velo» o «bavaglio» che copre la bocca. Soprattutto la bocca della donna, che non gode di una condizione egualitaria nell'usare la parola – afferma Le Breton – e che non dispone neppure oggi e neppure alle nostre latitudini della stessa libertà di parola dell'uomo. Il silenzio ha un sesso, spiega Le Breton, il sesso femminile, anche se curiosamente è attribuita proprio alle donne l'abbondanza gratuita di parola, la logorrea, la chiacchiera. Eppure chi le interrompe sono nella quasi totalità uomini, i quali spezzano la parola della donna ritenendola superflua, inessenziale: la lingua, conclude Le Breton, è «monopolio di un sesso soltanto». Gli fa eco lo scrittore e drammaturgo nordamericano John Biguenet nel suo Elogio del silenzio (Come sfuggire al rumore del mondo, trad. di Naike Agata La Biunda, il Saggiatore, Milano 2017): zittire le donne con nonchalance, metterle a tacere anche in modo violento, ridurle al silenzio è una caratteristica del nostro tempo.

 

 

Sempre più spesso il silenzio viene tematizzato: in poesia e in letteratura, in sociologia, psicologia e psicoanalisi, in teologia e in antropologia, in filosofia (poco). Lo fa anche Biguenet, ma i contenuti del suo libro sono un po' poveri anche se le esperienze dell'autore non sono affatto banali: l'aver trascorso un anno da seminarista, adolescente, in un monastero benedettino (con i suoi ritiri spirituali in perfetto silenzio) o l'essere stato vittima, nell'agosto del 2005, dell'uragano Katrina che distrusse la città di New Orleans inondandola di acqua salmastra (e l'acqua è elemento analogicamente affine al silenzio, acqua del silenzio in cui le parole affondano, acqua da cui le parole affiorano). L'evento dell'uragano bloccò la capacità di leggere e vedere film dell'autore. Perché per aprirsi alle parole e alle immagini degli altri, interpreta Biguenet, bisogna saper mettere a tacere il proprio io; ma nelle vittime di simili esperienze l'io non sa mettersi in silenzio.

 

Il libro di Le Breton è invece un vero e proprio trattato sociologico-antropologico sul silenzio, del quale vengono esplorate diverse espressioni e forme: nella conversazione, in politica e in psicoanalisi, nelle religioni e nella spiritualità e nelle immagini dei mistici – la parte forse più ricca, interessante e coinvolgente – e in coloro infine che pensano e scrivono di morte, che del silenzio è «la vera parola». Oggi ai funerali si applaude: una pratica che mi fa rabbrividire ogni volta. È una prestazione degna di applauso, la morte? O si battono le mani per metterla in fuga, si fa rumore per esorcizzarne la minaccia giacché il rumore è prodotto dai vivi?

E allora il rumore che oggi ci viene da ogni parte affibbiato e domina beffardo? Che venga imposto da chi detiene il potere di farlo a chi ne viene sommerso, per impedirgli di pensare al proprio io? o per esorcizzare un silenzio considerato simile alla morte? Vuole ricordarci, il frastuono incessante e talvolta perfettamente gratuito, che siamo vivi? Abbiamo modi migliori per farlo.

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Storditi dal frastruono
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Due Geoanarchici a piedi

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Barranquilla, 1855. Un francese magro, dagli occhi chiarissimi, si reca al porto e cerca un’imbarcazione per Pueblo Viejo, un villaggio ai piedi della Sierra Nevada di Santa Marta, in quella che un tempo era chiamata Nuova Granada e che oggi è la Colombia. La linea blu delle montagne è il luogo che il giovane uomo ha scelto come patria.

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Quando il capitalismo è senza capitali

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La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta dalla nostra connessione alle piattaforme come Facebook. Un caso esemplare del capitalismo senza capitali tangibili dove la forza lavoro è valorizzata senza essere ricompensata con un centesimo.

Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile, di Jonathan Haskel e Stian Westlake (Franco Angeli): inchiesta sulla trasformazione del capitalismo globale.

 

La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta da chi è interconnesso a una piattaforma – digitale e materiale, immateriale e logistica (i due aspetti sono inseparabili). Sempre, 24 ore su 24, sette giorni su sette, produciamo un valore. Siamo all’oscuro di quanto valore produciamo perché la nostra forza lavoro è occultata e la sua assenza è stata colmata ricorrendo alla finzione di un capitale che produce anche il suo antagonista: la forza lavoro. E, sicuramente, chi ne beneficia, non ce lo dirà mai e estrarrà gratuitamente questo valore per moltiplicarlo per cento o per mille. Facebook, ad esempio, attraverso il quale avrete avuto accesso anche a questo articolo.

 

Non è un mistero. Questa realtà è nota nelle neuroscienze e in economia. È il segreto della scuola neoclassica avere identificato, grazie alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, le emozioni, i piaceri, i dolori, i sentimenti di un soggetto concepito tuttavia come un uomo razionale, astratto dalla storia, oggetto di una continua modellizzazione matematica complessa.

 

 

Il capitale umano è socializzato

 

Parliamo di tre premi nobel in economia: Amos Tversky e Daniel Kahneman nel 2002, Richard H. Thaler nel 2017 che ne ha proseguito il lavoro, Jean Tirole nel 2014. Alla base del loro lavoro c’è la critica all’economia che riduce le credenze e le decisioni alle regole logiche. Basano le loro teorie su un mondo ideale dove le persone agiscono come attori razionali che sfruttano ogni opportunità per accrescere il loro piacere o beneficio. Kahneman e Tversky hanno dimostrato nel 1974 e nel 1979 che in alcuni casi le scelte e i giudizi delle persone non possono essere spiegati secondo un modello logico predefinito.

 

Richard H. Thaler si è allontanato dall’idea per cui l’economia deve raggiungere la stessa precisione matematica delle scienze “dure” – sempre che queste ultime ne abbiano solo una. In caso contrario, i profeti della matematica economica si riducono a pensare ai loro soggetti come “ottimizzatori” il cui comportamento è prevedibile come la velocità della mela di Newton che cade dall’albero.

 

Thaler parla dell’effetto di dotazione [Endowment effect]. In psicologia sociale e nell’economia comportamentale, questo concetto descrive il valore che le persone attribuiscono alle cose solo perché le possiedono. Ciò permette di valutare le cose che già si possiedono molto di più dell'oggetto identico nelle mani di qualcun altro. La legge è equiparata a un modello comportamentale chiamato “volontà di accettare o pagare” [Willingness to Accept or Pay], una formula usata per scoprire quanto un consumatore o una persona è disposto a sopportare o perdere per diversi risultati. Per l’accademia di Svezia Thaler ha dimostrato il modo in cui alcune caratteristiche umane, i limiti della razionalità e delle preferenze sociali, “influenzino sistematicamente le decisioni individuali e gli orientamenti di mercato”.

 

Il cuore di questa visione del mercato è la possibilità dell’errore. La norma è soggetta a una continua revisione perché riconosce in sé l’errore e cerca di razionalizzarlo attraverso un percorso di adeguamento continuo a una verità che si trova sul mercato.

 

“Le stesse scelte possono dipendere dal nostro umore del momento, dal nostro stress o dalla nostra fatica – ha scritto Jean Tirole– Possono soffrire di procrastinazione, la tendenza a massimizzare il nostro benessere ad un certo punto a spese del nostro benessere futuro, a volte a costo di una riduzione del nostro benessere generale: non smettiamo di fumare o bere, guardiamo troppo gli schermi, facciamo troppo poco esercizio fisico e mangiamo troppo, non sempre risparmiamo abbastanza e non investiamo abbastanza nelle relazioni umane. Siamo vittime di molti errori cognitivi”.

 

In queste teorie il protagonista non è più l’homo oeconomicus, ma un soggetto molto più mobile e contraddittorio, vissuto e dolente che ha inglobato un’altra creatura delle scienze umane: l’homo socialis. All’individuo è riconosciuta l’appartenenza a una società. L’economia comportamentale oggi ragiona su un’antropologia che apre l’esperienza dell’essere al mondo alla trasmissione della cultura e delle convinzioni, alla ricerca dell’identità e alla cura dei problemi derivanti dall’appartenenza a un gruppo; al rompicapo della fiducia negli altri e persino alle “narrazioni” che circolano nelle reti sociali e modificano l’idea di autorità, influenzando la politica e il discorso pubblico, anche quello economico.

 

Cosa può la nostra forza lavoro

Conoscere l’economia comportamentale è necessario per comprendere il segreto del capitalismo contemporaneo. La psicologia, e le passioni, del soggetto sono al centro della scena economica e di quella politica. Le scelte imprevedibili rispetto alla classica analisi costi-benefici sono il risultato di una facoltà specialissima di cui le teorie analizzate non tengono in conto. È la forza lavoro, la facoltà a disposizione di ogni essere umano. Di solito è considerata solo come una capacità di lavoro.

 

La declinazione che ne ha dato Marx è affascinante. La forza lavoro è:

 

- la facoltà che produce tutti i valori d’uso;

- è incarnata nella “personalità vivente” di ogni essere umano;

- è la potenza generatrice incarnata nell’unità del corpo e della mente di ogni singolo eccede l’appartenenza sociale e il ruolo produttivo ed è sussunta;

- considera la vita come un mezzo per esprimere la sua potenza, non come strumento per appropriarsi di un oggetto, un bene, una merce sul mercato.

 

 

La filosofia della forza lavoro permette di comprendere l’intuizione degli economisti comportamentali su basi completamente diverse. La forza lavoro è il soggetto delle loro teorie, ma nella forma rovesciata di un capitale umano da valorizzare nel mercato, considerato il luogo dove le passioni del soggetto trovano cittadinanza. Ciò che vivo è il capitale (umano), non la personalità vivente della forza lavoro.

 

In Forza Lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale e in Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro ho operato un contro-rovesciamento: ciò che oggi è viva la facoltà di produrre tutti i valori d’uso in una vita, l’individualità sociale che eccede la mera capacità di calcolo, e di quantificazione, in un valore di scambio. Il capitale deve mettere al lavoro la facoltà della forza lavoro, la base del processo di valorizzazione che eccede ogni possibile quantificazione e, anzi, ne è la base produttiva, logica e storica. A sua volta la forza lavoro cerca modi non sempre lineari, né felici, per opporsi e resistere in uno scenario di impoverimento radicale, drammatica crescita delle differenze di classe.

 

 

Capitalismo senza capitali

 

Il problema della creazione del valore in un capitalismo che valorizza la forza lavoro è affrontato nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake che definiscono il Capitalismo senza capitale una “economia intangibile” (Franco Angeli). Gli autori cercano di rispondere a queste domande: chi crea il valore? Chi lo estrae, chi lo distrugge e come lo si distribuisce in un’economia che ha individuato una nuova sorgente del valore nelle attività immateriali, cognitive, simboliche, linguistiche dell’essere umano?

 

Sono attività che non possono essere riducibili a cose, proprietà o beni materiali, né possono essere semplicemente scambiate come merci fisiche, ancorate a giurisdizioni specifiche, difficili da regolamentare e tassare. Per Haskel e Westlake il capitalismo è senza capitali tangibili. Ciò non esclude che i capitali siano ben più numerosi di quelli che rinviano a un immaginario che lo identifica con un oggetto: il denaro sonante in cui nuota zio Paperone. Questa ontologia del capitale, la sua astrazione o iper-realtà che integra e modifica il capitalismo reale, è stata definita come capitalismo cognitivo, capitalismo immateriale, capitalismo dell’astrazione, finanz-capitalismo, e molte altre formule suggestive.

 

Questo amplissimo dibattito permette di comprendere il senso del titolo del libro di Haskel e Westlake: un processo che ha deformato, e messo in crisi, i meccanismi familiari di un’economia di mercato. Prendiamo il caso dell’economia digitale: un prodotto o processo digitale intangibile può essere replicato e condiviso un numero infinito di volte senza costi aggiuntivi. Ciò ha reso possibile la rapida espansione commerciale dei giganti della rete come Facebook: l’azienda che non produce contenuti, ma guadagna sulla capacità della nostra forza lavoro di produrli in maniera gratuita. Un caso esemplare del “capitalismo senza capitali” dove la forza lavoro è valorizzata al massimo senza essere ricompensata nemmeno con un centesimo.

 

Haskel e Westlake raccontano anche le politiche urbane a cui porta questo modello economico basato sulla cooperazione produttiva e la fecondazione incrociata delle idee nelle metropoli diffuse di cui la Silicon Valley in California è il modello. I pionieri di un'economia immateriale traggono beneficio dall'intimità geografica, anche se il loro lavoro vola nella rete globale. Questo modello accelera radicalmente la polarizzazione sociale e l’impoverimento di massa. I padroni della rete si riuniscono in fortini ad alto reddito dove i costi degli alloggi salgono vertiginosamente e milioni di persone perdono la possibilità di accedere alla casta superiore in una società organizzata gerarchicamente. Sempre di più le cronache raccontano San Francisco, ad esempio. Una città dove si sono moltiplicati i miliardari digitali insieme a una crisi sociale e abitativa mai vista.

 

Questa organizzazione del capitale è lo straordinario motore che alimenta una diseguaglianza radicale e una profonda frustrazione tra gli esclusi. La destabilizzazione del patto tra gli istituti della democrazia liberale e costituzionale e quelli del capitalismo industriale è definitiva e irreversibile. La rabbia delle comunità che si sentivano lasciate indietro nella marcia verso la globalizzazione è stato un fattore significativo nell'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e nel referendum sul Brexit nel Regno Unito. Questa analisi, largamente sopravvalutata, va messa alla prova della crescita straordinaria registrata negli Stati Uniti sin dagli anni di Obama, e oggi di Trump. Se la disoccupazione è ai minimi termini, la crescita dei salari reali è molto in ritardo e irrilevante, in un’economia che produce precari a tempo indeterminato. Ovvero: riproduce le premesse della crisi di cui Trump è la continuazione, non il rimedio.

 

Tanto meno l’alternativa va individuata nel messaggio contraddittorio della Silicon Valley. Quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie degli imprenditori alla Steve Jobs o Mark Zuckerberg è impotente, anzi è una delle cause, della produzione di diseguaglianze nel capitalismo senza capitali. Anche le sperimentazioni di un reddito di base universale condotte nella Baia di San Francisco non risolvono le contraddizioni dell’anarco-capitalismo di questa cultura che predica una libertà dell’individuo e la sua contemporanea dipendenza dall’economia delle piattaforme.

 

Haskell e Westlake si soffermano sulla democratizzazione della governance in uno stato innovatore che collabora con le multinazionali dell’innovazione, non sui rapporti di potere che impediscono tale democratizzazione. E nemmeno sulle cause di ciò che produce la ricchezza estorta alla forza lavoro costretta a inseguire la propria sopravvivenza in condizioni disperate. L’abisso tra chi ha e chi non ha, tra chi si percepisce imprenditore di sé e chi non è all’altezza di questo modello – la “disuguaglianza della stima” la definiscono Haskell e Westlake – colpisce tanto le condizioni di lavoro quanto quelle sociali e morali che devastano l’individuo costretto a stare sul mercato, valutato e punito a seconda della sua capacità di auto-governare la possibilità di errore ricorrente nelle sue condotte sul mercato.

 

Il riconoscimento della centralità della forza lavoro è la premessa di una trasformazione radicale che antepone all’impresa le donne e gli uomini che producono il suo valore. Prima del capitale umano, ovvero dell’incarnazione del corpo in un capitale fisso dotato di protesi come l’Iphone, viene la forza lavoro che  mette in relazione chi usa smartphone, Pc o i post su Facebook.

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Settant'anni di Dichiarazione Universale dei Diritti Umani

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La “Dichiarazione Universale dei Diritti Umani” fu proclamata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi, Palais de Chaillot, il 10-12-1948 da 48 Stati usciti vincitori dalla guerra, nello stesso anno della nostra costituzione repubblicana.

La discussione non fu facile. Si accesero discussioni sulle priorità dei principi, quali potevano essere dichiarati “inalienabili” o “universali” o “fondamentali”, se era necessario prospettare un loro fondamento teorico. Nacque il testo che si sviluppò in 30 articoli che delinearono diritti e principi, senza forza di legge ma di monito influente sul loro rispetto.

E poi si infittirono studi, approfondimenti che condussero ai Patti internazionali del 1976, strutturati in due articolati, quelli sui “diritti economici, sociali e culturali” e quelli sui “diritti civili e politici”. La Commissione dell’Assemblea Generale lavorò lungamente, e il 16-12-1966 adottò i Patti, ma dovette trascorrere ancora un decennio prima che essi venissero ratificati da un numero sufficiente di stati per la loro entrata in vigore. In effetti occorreva per la loro adesione o ratifica il voto adesivo di almeno 35 stati. E questo avvenne nel 1976. Ogni paese che abbia ratificato il Patto si impegna a far sì che i suoi cittadini siano protetti e garantiti in quei diritti. Tali Patti stabiliscono l'obbligo per gli Stati che li abbiano ratificati a riconoscere attraverso obblighi giuridici quanto presente nella Dichiarazione. Si trattava di costruire un insieme coerente di principi giuridici fondamentali che si applicano in tutto il mondo sia agli individui che ai popoli.

 

Una prima domanda da porsi è perché quella Dichiarazione nasce nel 1948. La risposta è rintracciabile nel momento storico, ben sintetizzato nel Preambolo che prende atto, in via preliminare, del "disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani che hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità".

Cruciale e determinante era la necessità, alla fine della guerra con il suggello delle atomiche, di proteggere gli uomini per evitare il ripetersi di eventi distruttivi mentre già all'orizzonte comparivano le avvisaglie della guerra fredda. La memoria riandava al dramma della seconda guerra mondiale, allo Shoah, a regimi totalitari come fascismo e nazismo, alla presenza permanente di regimi repressivi. Con la metà del novecento la collettività sentì il bisogno di darsi regole e valori condivisi per delineare le basi su cui fondare un futuro di pace e sviluppo.

Quindi le carte e le organizzazioni sono un prodotto storico e costituiscono una svolta per cogliere lo spirito dei nuovi tempi. La Dichiarazione in particolare riesce a fungere da detonatore di valori e di altre prese di posizione. Nasce con il 1948 una maggiore sensibilità per la tutela dei diritti umani, anche se troppo spesso tenuti come alibi per giustificare provvedimenti a loro contrari, come ad esempio interventi di guerra in varie parti del mondo o atteggiamenti di tolleranza verso regimi che non li rispettavano.

 

La specializzazione. Nel frattempo e successivamente si sviluppa la "specializzazione", cioè l'attenzione rivolta a una determinata tematica dei diritti dell'uomo (qui ricordiamo, ad esempio, l'Accordo per la lotta al reato di apartheid del 1975, l'Accordo per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna del 1980, la Convenzione sulla tortura e ogni altro trattamento o pena crudele, disumana o degradante del 1984, l'Eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, 1965, la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza 1989, la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti del migranti lavoratori, 1990, la Convenzione delle Nazioni Unite sulle persone disabili, 2006).

Nel contempo le Carte estendono i confini geografici. La Carta Africana sui diritti umani e dei popoli è stata adottata a Nairobi nel 1981 ed è entrata in vigore nel 1986. Essa introduce il concetto dei doveri degli individui nei confronti della famiglia, della comunità, dello stato. I poteri di controllo sono vaghi e non è presente alcuna corte di giustizia.

Nel 1994 la Lega araba (organismo non religioso ma politico) ha adottato il testo di una "Carta araba dei diritti dell'uomo", nel cui preambolo si richiama la Dichiarazione Universale. Riconosce però soltanto l'eguaglianza delle opportunità, un salario equo e una remunerazione eguale a parità di lavoro, ammettendo così implicitamente una discriminazione fondata sulla nazionalità. È assente qualunque riferimento alla legge coranica, mentre ci si appella solo ai principi eterni definiti dal diritto musulmano, accomunandoli con quelli delle altre religioni. Nonostante le buone intenzioni anche questa Carta, come altre, non è entrata in vigore.

Il fenomeno della specificazione dei diritti è sicuramente da porsi in relazione al crescente numero di condizioni considerate meritevoli di tutela giuridica e all´allargamento della titolarità di alcuni diritti tipici a soggetti diversi dall´uomo. Nel contempo si afferma oggi l´impossibilità di considerare l´individuo come entità generica o soggetto astratto, e quindi si guarda alla specificità e alla concretezza delle diverse modalità dell´essere e dello stare in società. La manifestazione più concreta della moltiplicazione dei diritti per specificazione è data dal proliferare in ambito internazionalistico di una serie di strumenti giuridici rivolti alla tutela di soggetti diversi.

 

Myriam Meloni

 

Particolarmente significativa è stata la produzione internazionale normativa rivolta alle donne. Le Nazioni Unite hanno infatti riservato negli ultimi decenni alle donne un numero consistente di raccomandazioni, di dichiarazioni e di convenzioni settoriali, tanto che si può far riferimento a un corpus unitario di norme costituenti un codice vero e proprio. L´assunto fondamentale muove dal riconoscimento che la condizione femminile, date anche le diverse distinzioni, presenta caratteri universalizzanti. Le donne subiscono discriminazioni e violenze con modalità che spesso non toccano gli uomini poiché in larga misura i soprusi di cui sono vittime sono di natura sessuale e riproduttiva. Questi abusi si presentano in forme, modi e circostanze che, pur rientrando in qualsiasi convenzione ufficiale sui diritti umani, non hanno trovato appropriata considerazione a livello internazionale solo raramente, anzitutto perché commessi proprio a danno delle donne. Vi è da dire peraltro che più numerose sono le violazioni a carico di un gruppo sociale come sono le donne, paradossalmente meno facile è perseguire sul piano penale certe condotte, poiché taluni comportamenti vengono diffusamente percepiti e si configurano come elementi della normalità.

 

La convergenza e il compromesso La Dichiarazione Universale è il risultato della convergenza di più traiettorie intellettuali e costituisce il punto di raccordo di concezioni diverse dell´uomo e della società. Seguendo la scia di precedenti pronunce generali, è costituita da norme consuetudinarie che rappresentano valori fondamentali per la comunità internazionale e senza distinzione o, come si usa dire ora, senza se e senza ma. Sono la "dignità" protetta senza distinzione di differenze di religione, etnia, sesso; la "libertà" in relazione ai diritti legati alla libertà individuale ed alla sicurezza personale; l’"eguaglianza" che garantisce la partecipazione politica e pubblica di tutti e la "fratellanza" che si riferisce ai diritti economici, sociali e culturali.

Diffondere ed educare ai diritti umani significa favorire lo sviluppo armonioso della personalità dei singoli individui, riconosciuti all'uomo per la sua appartenenza al genere umano.

 

La continuità storica e l'innesto nella tradizione Come già sottolineato la Dichiarazione del 1948 non è spuntata per germinazione spontanea ma si è inserita nel solco della tradizione e rappresenta una continuità storica con il passato, anche se ciascun paese cerca collegamenti con la sua storia antica, con le origini lontane che fanno parte della sua cultura. Non esiste un concetto generale che ricomprenda tutte le diverse culture e società: l´espressione ‘diritti umani “riflette in realtà le diverse tappe segnate dall´evoluzione del pensiero, segnate da idee e concetti che li hanno forgiati e veicolati. Esso descrive l’esigenza di proteggere la persona umana mediante una barriera giuridica innervata da valori e prescrizioni legali, anche se la sua gestione è affidata agli stati i quali perseguono, per inclinazione costatata nel tempo, disegni alimentati dal proprio interesse e da desideri nazionali.

Il concetto “diritti umani” ha avuto una sua precisa evoluzione attraverso tre prospettive: quella occidentale, quella socialista e quella dei paesi del Terzo Mondo.

La concezione occidentale afferma che i diritti e le libertà emergono al di sopra dello stato e al di sopra delle organizzazioni politiche. Essi si rivolgono all´essere umano che è soggetto di diritto internazionale, e non sono la conseguenza di essere cittadino di uno stato. Negli ultimi 30 anni la concezione si è evoluta passando ad una concezione che riconosce non solo i diritti civili e politici ma anche l´effettività dei diritti economici, culturali e sociali, ritenendo che senza di loro quei diritti civili sono sforniti di una base materiale e rimangono formula vuota.

La concezione socialista si presenta con un approccio diverso sui diritti umani rispetto alla concezione occidentale: non accetta l´origine di diritto naturale quale diritto dei cittadini, non accetta l´ idea che il diritto dei cittadini rifletta la relazione tra l´ uomo e la società. La base è la società organizzata in uno stato e tali diritti dovrebbero esprimere la relazione tra lo stato e i cittadini. Lo stato rappresenta gli interessi dei cittadini e i cittadini non possono avere diritti in contrasto con quelli dello stato. E tale ruolo primario assegnato allo stato impedisce che vi possa essere qualsiasi forma di controllo internazionale. L´individuo si deve comportare secondo ciò che lo stato gli prescrive, perché tale comportamento corrisponde all´ interesse della società.

La visione del Terzo Mondo presenta difficoltà d´analisi poiché sono compresenti diverse culture, diverse forme di colonizzazione che hanno influito sulla formazione della comunità moderna. Non vi è un concetto comune sui diritti umani ma l´uniformità di condizioni, quali il sottosviluppo, la situazione politica ed economica, permettono una certa uniformità d´approccio al tema dei diritti umani. La realtà sociale ed economica del Terzo Mondo assegna maggior importanza ai diritti economici sociali e culturali e l´idea dello sviluppo economico ha la priorità rispetto alla garanzia dei diritti civili e politici. La maggioranza dei paesi del Terzo Mondo afferma che il risolvere i problemi riguardanti la malnutrizione, la povertà e l´educazione ha la priorità rispetto all´ affermazione dei diritti formali, i quali sono poco noti e non riscuotono interesse nelle masse affamate e ignoranti.

I "Diritti umani", come esposto, si sono nel tempo e nei secoli moltiplicati e specializzati, la loro Dichiarazione è lo sbocco di un'occasione storica e nel contempo nella tradizione storica si innestano e trovano alimento.

Essi sono universali secondo la Dichiarazione del 1948, ma in che modo? E in quale rapporto si pongono con la globalizzazione e il multiculturalismo? Come vi può essere nella società contemporanea qualcosa di valido per tutti, qualcosa in cui tutti si riconoscano senza sentirsi sradicati dalle rispettive appartenenze? Come può essere calibrato l'orientamento, espresso nella Commissione incaricata di redigere la Dichiarazione, secondo cui "il valore del testo si estende oltre la tradizione occidentale e la tutela di quei diritti deve essere riconosciuta a prescindere dal contesto in cui ci si trovi"?

Ampio è l'orizzonte entro cui si muovono e agiscono fenomeni la cui portata è appunto "mondiale", forse in termini riduttivi indicato come "internazionale". Dentro questo scenario si sono presentati almeno alcuni attori mondiali, e tra questi la globalizzazione e il multi-culturalismo che costituiscono l'orizzonte di vita degli uomini del terzo millennio.

La globalizzazione ha una pluralità di volti.

Uno di questi è quello tecnologico sociale. Cambia il rapporto della natura umana con lo spazio e con il tempo. L'individuo viene de-localizzato e proiettato in un universo sempre più grande, sempre più cosmico, nel quale perdono progressivamente significato le tradizioni, le consuetudini, le pratiche locali, i rapporti faccia a faccia. Il concetto stesso di "prossimo" svanisce per cedere a rapporti sempre più "virtuali". Questo processo di "dis-appartenenza", proiettata verso una società globale, si offre come un sostegno per i diritti umani che in origine non sono forse stati diritti dell'uomo astratto, a prescindere da ogni differenza.

 

 

 

La globalizzazione ha anche oggi un volto propriamente politico. Questa concezione dell´universalismo si è sviluppata dal crollo dell´ Unione Sovietica, dalla fine della contrapposizione dei blocchi Occidente e Oriente consentendo ai diritti umani di porsi in una visione universale.

È nota la robusta obiezione all'universalismo dei diritti.

I diritti umani che si intendono tutelare provengono dalla nostra cultura cioè dalla cultura occidentale, liberal-democratica, di matrice cristiana, e questo è stata interpretata da taluno come espressione di una prevaricazione culturale. Il concetto di diritti umani rinvierebbe alla nostra immagine del diritto, formata in Europa e in America in un’epoca nella quale esse pretendevano di imporre la loro misura a tutto il resto del mondo. Quel paradigma che chiamiamo universale urterebbe con il rispetto dovuto a soggetti e culture diverse dalla nostra, cui noi pretenderemmo di imporlo. E correlativamente la validità dei diritti fondamentali presupporrebbe un qualche grado di consenso sociale che in sostanza può esistere soltanto nel sentirsi appartenenti ai nostri ordinamenti occidentali e non invece in culture diverse dalla nostra.

In effetti l’Occidente ha preso, seppur stentatamente, la consapevolezza della irriducibile pluralità delle culture, nonché della debolezza di quell'orientamento che pretende di assolutizzare i propri valori culturali e far assumere la propria cultura ad unità di misura di ogni altra.

C’è da sottolineare, però, che i diritti umani nella loro dimensione universale non contraddicono la pluralità delle culture ma rappresentano sotto molti aspetti la traduzione, perfettibile ma irrinunciabile, dei linguaggi nella odierna società globale come è stato osservato (F. Viola, Etica dei diritti umani, Giappichelli, Torino, 2000). Ciò significa non già tradire l'essere connessi a una tradizione particolare, quella occidentale, ma essere consapevoli di questo non tradisce il paradigma della loro universalità.

Né è riscontrabile un limite nella supposta l’incapacità di varcare i confini dello specifico contesto culturale e dell’esperienza giuridica dell’Occidente. Il dialogo tra culture differenti è in effetti arduo, sembra un linguaggio tra tribù come acutamente notato (T. Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino, 2011), L’elemento universalistico non va cercato però nei "fondamenti" dei diritti, ma nella "globalità" dei titolari di quel diritto, riconoscendo nel linguaggio dei diritti il “gesto di affermare la propria dignità”.

L'apprezzamento della validità di ciascuna cultura potrebbe condurre però ad una sorta di relativismo culturale. Secondo questo orientamento non esiste una natura umana o essere umano ma solo esseri culturali, non esiste un orizzonte transculturale che comprenda le pratiche sociali diffuse nelle diverse società, non vi è possibilità di dialogo tra culture in quanto ogni cultura, nella sua incommensurabilità, può essere compresa solo assumendo un punto di vista completamente interno. Quindi non si tratta, secondo questo modello, di sottolineare la diversità e spesso la difficile comunicabilità tra culture diverse, ma sostenere che le culture sono autosignificanti, universi chiusi che non rinviano ad altro che a se stessi.

Orbene questa impostazione è stata censurata sotto vari aspetti (tra i tanti L. Ferrajoli, I fondamenti dei diritti fondamentali, Laterza, Bari, 2001).

Un primo limite di questo approccio è l'assegnare in vario modo uguale valore a tutte le culture, persone, etiche. Si tratta di un pericoloso indifferentismo che porta alla dissoluzione delle strutture etiche, è il pendant morale del relativismo culturale, in quanto ha come esito l’accettazione di qualunque cultura e l'annullamento del valore di tutte le culture, nonché la loro separazione e segregazione come culture antagoniste e non comunicanti.

Va evidenziato al proposito che l’universalismo è anche una prerogativa non dei soli sostenitori dei diritti umani, ma anche di coloro che ritengono “giusto” lasciare che ogni cultura disciplini i comportamenti degli individui che ne fanno parte (stabilendo, ad esempio, lo sgozzamento dei nemici, la lapidazione delle adultere, pene corporali per alcuni reati, la distinzione in caste, ecc.). Si tratta di un approccio relativista che, in effetti, adotta una posizione universalista in quanto attribuisce lo stesso valore a tutte le culture, invece che a tutti gli individui. Il caso delle donne nei paesi che limitano i loro diritti è esemplare. Adottare il modello relativista significa non interferire su quei costumi e quindi consentire implicitamente il perpetuarsi delle compromissioni dei diritti.

Sotto un profilo più giuridico, l'universalismo dei diritti e quindi come categoria giuridica si pone come nozione differente dall'universalismo come dottrina morale.

Sono entità che si assestano su piani non incrociabili, e l’universalismo dei diritti non può condurre alla condivisione morale di quei principi. La convenzione dei diritti non richiede l'accettazione morale neppure della maggioranza dei soggetti entro cui è maturata e del resto le libertà sono nate come rispetto delle culture degli altri, non come prodotto della maggioranza.

Se fosse vero il contrario alcuni scritti, come quello di Verri o Beccaria, sarebbero rimasti in un angolo, isolati e impolverati.

Lo statuto costituzionale di diritti ha una componente garantista secondo cui non è richiesta l’adesione ai valori etico-politici ad essa sottesi. Sono i valori che derivano dai diritti a “imporre di non imporre” ad alcun tipo di etica o credo politico di appoggiare uno Stato "etico". Naturalmente si richiede una qualche adesione sociale per rendere effettivi i diritti umani, che altro non sono che significati normativi la cui tenuta dipende sempre da un certo grado di consenso ai valori sottostanti. Tuttavia il formarsi di questo comune senso civico è da conquistare con mezzi di tipo culturale e politico e non deve essere imposto con il diritto, che invece esige la tolleranza di tutte le identità politiche.

Lo stato di diritto non può essere confuso con la democrazia politica basata sulla maggioranza. Paradossalmente i diritti fondamentali sono contro la maggioranza perché rappresentano il limite ai poteri. Questa è la garanzia: si sottrae il diritto fondamentale alla politica, al potere delle contingenze proprio perché inalienabile inviolabile e indisponibile. Il fondamento democratico del patto costituzionale sui diritti fondamentali è che sia siglata la non esclusione di nessuno.

Infine, ma non alla fine, questo è il confine tra rispetto delle altre culture e il rispetto dovuto agli individui in forza del patto fondamentale. L'obiettivo riguarda gli individui e non le culture. I diritti fondamentali, strutturalmente individuali e non collettivi, sono da sempre la legge del più debole rispetto a quella del più forte, può essere la legge delle proprie culture che tutela l’individuo contro il suo stesso ambiente culturale e familiare, la donna contro il padre o il marito, il minore verso i genitori, gli oppressi contro gli oppressori.

Sarebbe un segno di eurocentrismo non già esclusivamente affermarli ma negarli in danno di quanti appartengono a popoli e culture che non hanno avuto il nostro percorso storico. Proprio il principio di tolleranza tutela delle libertà e rispetta le differenze garantendo eguale diritto alle differenze che rendono ogni individuo diverso dagli altri. L’universalismo dei diritti fondamentali è la garanzia del pluralismo culturale, della convivenza e del rispetto delle differenze.

Del resto esiste un'abissale differenza tra relatività delle culture (per cui ciò che è relativo nei modi di una certa cultura è la traduzione di valori e princìpi che mantengono una cogenza definita) e relativismo culturale (che nega, in nome della pluralità delle culture, l’esistenza di valori che attraversano o stanno alla base delle varie culture e che così conduce all’impossibilità del dialogo culturale).

Riassumendo, il senso dell'universalismo è considerare il particolare come parte di un tutto. I tratti comuni sono sempre incastonati all'interno di particolari sistemi culturali, e sono elaborati in modi specifici. L’universalità è un principio regolatore che consente il confronto delle differenze, e il suo contenuto non può essere stabilito una volta per sempre, ma è sempre soggetto a revisione. Comunque il riferimento richiama l’appartenenza alla collettività umana, talché le differenziazioni culturali in cui si articola l’umanità risultano legittime nella misura in cui si armonizzano con l'appartenenza comune.

L’umanità in realtà esiste al plurale, la sua condizione è la diversità. Noi esistiamo diversi, ma siamo chiamati al compito della comunicazione e dell’incontro con l’alterità affinché l’azione umana possa continuare.

Se si ammette che le culture particolari possano comunicare, si deve allora ammettere un disegno universale, rintracciabile nell’unità antropologica dell’esperienza, un terreno comune su cui è possibile ritrovare un senso reciproco legato alla loro sottostante valenza unitaria. Ciò, tra l’altro, rende possibile la "comprensione", che consiste nel vedere connessioni e comporta l’esistenza di un orizzonte comune che connette le parti. L’universalità è l’esito di un processo che si compie per tentativi, nell’orizzonte della comune condizione esistenziale. E quindi occorre riconoscere che vi sia un senso riguardo alla vita umana e che possa essere ricercato proprio a partire dal riconoscimento della nostra comune condizione. L’ascrizione universale di diritti è una spettanza irrinunciabile dell’individuo come fine in sé. In questo spazio, che è quello della dignità umana, fanno senso le differenze e le diversità.

Questo percorso è collegato al riconoscimento della condizione umana legato all'esperienza, al “poter essere” che si attua in una dimensione pratica e proiettata nel futuro. In realtà la progettualità è la struttura che innerva l'esistenza umana, si realizza nei rapporti tra soggetti, come il linguaggio che consente di acquistare conoscenza e familiarità del mondo e di apportare esperienza. Sono le reti di comunicazione che, tanto più oggi, interagiscono nella comunità e costruiscono la possibilità dell'agire. È la persona nel suo essere parlante ed agente, che realizza il suo essere. Questo potere su altri offre anche occasioni per infliggere danni e per imporre sofferenze. Un soggetto, esercitando un potere su un altro, tratta quest’ultimo come il “paziente” della sua azione. La maggior parte delle sofferenze “sono inflitte all’uomo dall’uomo. Esse fanno sì che la parte più importante del male nel mondo risulti dalla violenza esercitata tra gli uomini... La vittimizzazione appare allora come il rovescio di passività che funesta la gloria dell’azione”, come osserva P. Ricoeur (La persona, Morcelliana, Brescia, 1997).

Il tema sociale della sofferenza si lega a quello della dignità. Diventa rilevante, sotto questo aspetto, che le persone abbiano assicurate le condizioni affinché la loro vita venga considerata e sentita come una vita che valga la pena di essere vissuta, attraverso l’eliminazione della sofferenza socialmente generata.

Si staglia così la nozione di “soggetto capace”, che rinvia alle dimensioni della stima e del rispetto di sé e si colloca nelle intersezioni delle azioni sociali.

L’individuo, infatti, per realizzarsi ha bisogno di mediazioni interpersonali e istituzionali e senza le quali le capacità resterebbero sulla carta. Proprio nel minimizzare la sofferenza evitabile, nel proteggersi dal veder incrinato lo status di soggetto agente, trovano giustificazione quei diritti di cui è titolare ogni essere umano in quanto tale. Questi compone il disegno di “universali esistenziali” che strutturano la maniera propria di esistere, di essere al mondo, di quell’essere che ciascuno di noi è, e rende possibile parlare in maniera universale dell’essere umano in situazioni culturali variabili.

Il contenuto dell’universalità, così, non potrà essere identificato stabilmente e per sempre. In questo ambito va ricercato l’equilibrio tra l’istanza universalistica dei diritti e le loro reinterpretazioni “locali”.

Integrare l’indigenza, ridurre la sofferenza, evitare l'erosione delle basi della dignità e dell’eguale rispetto, e agire perseguendo i propri progetti di vita nello spazio della vita in comune, richiedono che siano soddisfatte alcune esigenze basilari. Si tratta di condizioni necessarie per mantenere una persona al livello minimo di possibilità di condurre un’esistenza non umiliante e non degradante, di realizzare i fini prescelti, e di compiere azioni, di svolgere le proprie capacità di vita, di sviluppare la propria individualità, in condizioni di parità con gli altri.

I diritti umani sono decisivi perché proteggono la capacità di azione degli individui, cioè la capacità di perseguire obiettivi senza ostacoli o intralci. L’attenzione si dirige a ciò che i diritti fanno per gli esseri umani. La protezione della capacità di azione di ogni essere umano rappresenta il loro scopo essenziale, come osservato da un attento studioso (M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano, 2003).

Al di fuori di ogni idolatria i diritti sono “una cassetta degli attrezzi” a disposizione degli esseri umani per conferire potere e voce a chi potere e voce non ha, esprimono il linguaggio mediante il quale si difende l’autonomia degli individui. Contribuiscono a comporre i requisiti di vita decente senza violare le identità culturali che popolano il mondo. Si tratta di mettere al bando “quelle limitazioni ed ingiustizie che rendono ogni vita umana, comunque concepita, impossibile”, non prescrivendo alcun modello di vita buona.

È la capacità di scegliere i progetti di vita, in tanto possibile in quanto legata all’acquisizione dei funzionamenti che delineano le condizioni di vivere dei soggetti (A. Sen).

Le capacità, infatti, sono un insieme di vettori di funzionamenti e riflettono la libertà degli individui di acquisire “lo star bene”, la dimensione dei soggetti agenti «è chiamata in causa dalla contrazione o dall’azzeramento delle capacità delle persone di definire, modellare e scegliere i loro progetti di vita».

I diritti umani disegnano il perimetro dell’agire pratico, ponendosi come requisiti dell’agire e come vincoli all’agire. Sono requisiti che, dando priorità ai bisogni basilari dell’esistenza, difendono l’individualità limitata e indigente della persona e consentono la creazione e la garanzia di ambiti individuali di decisione e di azione. Sono vincoli che limitano l’agire altrui richiedendo che individui e istituzioni agiscano con la dovuta considerazione ed il dovuto rispetto nei riguardi di ognuno.

La pratica dei diritti umani è, dunque, in continua evoluzione. Sorti come pretese del soggetto da contrapporre al potere politico, sociale ed economico, i diritti si vanno trasformando alla luce dell’attenzione per i fini in cui il soggetto trova la propria realizzazione. Questa evoluzione si lega al proliferare delle “generazioni dei diritti” (di libertà, politici, sociali, culturali, allo sviluppo, alla pace, a un ambiente protetto, a un patrimonio genetico non manipolato, ecc.).

Così, i diritti umani, che rimandano all’universale dell’essere umano (nella sua essenza, persona, individualità, senza distinzione alcuna di qualità, ruoli, caratteristiche), vedono una ridiscesa in ognuno dei modi concreti, degli ambiti di vita dell’umano, che assumono significatività ai fini della tutela. Si articola, pertanto, un rapporto tra dimensione universale, che aveva segnato il sorgere dei diritti, e dimensione particolare, legata agli esseri umani materiali, storici, differenziati, collocati.

Da questo punto di vista, va segnalato il loro essere, al contempo, universali e contestuali. Questa universalità riguarda le condizioni esistenziali che gli esseri umani condividono. Dovremmo parlare, in proposito, di un “universalismo degli stati della vita umana”, posto che si è eguali non a prescindere dalle situazioni e dai contesti di vita in cui ci si trova, ma proprio in ragione delle differenze.

 

Per concludere. Il regime globale dei diritti umani poggia su documenti giuridici fondamentali, ma di fatto il rispetto dei diritti è stato per lungo tempo affidato alla buona volontà dei singoli Stati nazionali. Oggi si vanno formando sistemi di controllo interstatali e regionali, aree culturali che si possono identificare in ordine d'incidenza nella regione europea, in quella inter-americana, in quella africana e in quella asiatica e del medio- oriente. Di conseguenza i diritti sono universali quanto alla definizione e invece particolari quanto all'applicazione.

Ciò detto non esiste forse un problema di applicazione, di vincolatività di questi diritti, eleganti, decisivi nell’esposizione ma confinati nell'aspetto programmatico senza incidere nell'aspetto precettivo e vincolante?

Illuminante la posizione di chi osservò che per i diritti umani è secondario definire il fondamento ultimo assoluto, mentre è decisivo che siano applicati, rispettati. “Mai definirli indipendentemente dal loro esserci di fatto” (N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, Einaudi, Torino, 1990).

Il problema di fondo, in altri termini è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. Quindi il problema non è solo più solo di natura filosofica, ma politico e giuridico: il rispetto e la tutela dei diritti stilati e condivisi nel 1948. Per Bobbio la Dichiarazione ha riconosciuto un sistema di valori fino a quel momento solo enunciati. E questi valori “in quel momento storico sono generalmente condivisi”. Nasce una nuova consapevolezza comune in termini di appartenenza per ciascun individuo.

Oggi sono vincolanti ma non sanzionabili. Ed allora, in sintesi, quale destino hanno queste Dichiarazioni? Sono simboliche come disegno ideale o invece funzionali per essere applicati? Quale rispetto hanno? Qualche timido tentativo vi è stato (Corte Europea dei diritti dell'uomo, 1950 – Corte interamericana dei diritti universali 1969).

È un problema ancora più complesso in quei sistemi istituzionali che sono dotati di sanzione, ma non riescono ad applicarla. È il caso esemplare e scolastico diritto penale, sistema complesso ed articolato che ondeggia tra pene muscolari ma spesso infruttuose perché inapplicate, amplificando la minaccia simbolica a scapito del realismo dell'esecuzione. Si smarrisce l'obiettivo istituzionale che è quello della prevenzione, cioè di mostrare la realtà di chi sbaglia e di dissuadere la collettività nell'agire come lui.

 “A scrivere sui diritti umani si prova un senso di imbarazzo, quasi di rimorso. Nel guardare l’umanità, la fame, i campi di rifugiati, le imbarcazioni senza asilo viene voglia di posare la penna. E tuttavia come posare la penna? E tuttavia come tacere quando sembra talvolta che la radice assoluta che dice ‘tu devi’ rischia di atrofizzarsi? Senza questa radice i diritti umani perdono di senso. Bisogna curarla, nutrirla, stimolarla con l’ausilio degli strumenti giuridici ispirati dalla Dichiarazione Universale” (J. Hersch, La dichiarazione dei diritti dell’uomo da un punto di vista filosofico, Bruno Mondadori, 2008).

Più prosaicamente è l’augurio di uno spirito libero e fiero, Ernesto Rossi, che definiva le discussioni e i proclami come le cure termali: gli effetti non si sentono subito, ma con il passare del tempo.

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Lune artificiali e gli insegnamenti della notte

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Da bambini si ha terrore del buio; tra tutte le paure forse la più comune, certo la più istintiva e primordiale. Oggi è una paura più difficile da provare, tanto meno da vivere, confusa dentro una modernità che ci appare spesso sfavillante.

 

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La vera storia del presepio

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Mentre sindaci, dirigenti scolastici, deputati e senatori della ex Lega Nord, ora Lega di Salvini, e altri personaggi consimili, tutti membri di diritto dell’eterno Carnevale italiano, si agitano per riaffermare la presenza del Presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, dal momento che in virtù del “politicamente corretto” vi è stato estromesso, esce un bel libro dove la storia del presepio è raccontata per filo e per segno. Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”. Seguiamo Bettini. E tenere bene a mente che la parola che l’autore usa, sin dall’esergo infantile, è “presepio” e non “presepe”.

  

La fonte principale sono naturalmente i Vangeli. Si comincia con Matteo (Matteo 2: 1 sgg). La storia è quella della nascita di Gesù a Betlemme al tempo d’Erode. Ci sono i Magi che vengono dall’Oriente, che passano a chiedere a Erode, il quale si fa promettere segretamente che, trovato il bambino, torneranno da lui a riferirgli. I Magi, il cui numero non è definito, seguono la stella, trovano il luogo in cui è deposto il bambinello ma, avvertiti in sogno, fanno ritorno al loro paese per altra strada senza parlare con Erode. Una storia che abbiamo letto molte volte. Bettini ci fa notare che nel passo non ci sono mangiatoie, pecore o pastori. Da dove spuntano fuori? 

 

Il Vangelo di Luca (Luca 2: 6 sgg) è il vero testo che ha favorito la nascita del presepio, anche se non subito. Lì c’è la mangiatoia, poi i pastori, l’angelo, Maria, Giuseppe, ma non ancora i Magi. Non c’è neppure la grotta, presente in molte iconografie successive, in quadri e affreschi. A contribuire alla costituzione del presepio è un altro testo, il Protovangelo di Giacomo, non entrato tra i canonici. Vangelo apocrifo, ma molto influente presso le prime comunità cristiane, è stato composto nel II secolo; è il Vangelo dell’infanzia di Gesù, da cui provengono molte storie sul bambino divino. La vicenda del presepio trova lì una serie di dettagli significativi. Il testo ha un andamento narrativo; fa parlare i personaggi, compresa un’ostetrica, che aiuta Maria a partorire. Lì si trovano il bue e l’asino, fondamentali per ogni presepio che si rispetti, e anche i Magi. Di questa versione all’autore del libro interessa la presenza della grotta. Gesù nasce lì, non in una casa come in Matteo. 

Questa la partenza. Per diventare un vero presepio deve attraversare un altro terreno occupato dai teologi e dai commentatori delle sacre Scritture. Il primo che ci interessa è Origene, anche se ci sono altri prima, compresi eretici come Celso. Origene dà forma canonica al tutto: Betlemme, la grotta, le fasce, la mangiatoia. Il punto su cui si concentra Bettini da antichista, è il parallelo tra Gesù e le figure mitiche che l’hanno preceduto: le storie delle nascite dei bambini divini. In particolare Adone, che sembrerebbe fungere da modello per la nascita dello stesso Salvatore. Inutile dire ci sono innumerevoli paralleli e anche molti dettagli simili tra tutte queste storie, compresa la grotta in Arcadia sul monte Cillene in cui è posto Adone. E poi c’è la storia della nascita di Dioniso stesso. 

I commentatori cristiani hanno sovrapposto le tradizioni pagane a quelle del nuovo Dio e fatto slittare i significati dalla tradizione passata al nuovo evento mitico narrato dai Vangeli, e commentato dagli esegeti. L’autore si concentra sul termine “mangiatoia” per via di questa sovrapposizione di storie: líknonè l’oggetto greco che corrisponde al nostro “mangiatoia”; i Romani lo chiamano vannus, ed è il cesto utilizzato per vagliare il grano. Il viaggio che Bettini ci fa fare tra le parole e le cose è affascinante; ci mostra la parentela tra i miti greci, e poi romani, e il mito cristiano, tra le nascite divine e quella di Gesù a Betlemme. 

 

Luca indica la mangiatoia come un “segno” dato ai pastori per riconoscere il Salvatore, cosa non indifferente, perché lo scambio dei bambini è un topos sempre presente nelle storie mitiche, come racconta la proto-saga di Harry Potter, Animali fantastici, ora nelle sale cinematografiche. Conclusione di questo primo tragitto: il mondo antico è ricco di racconti in cui c’è un bambino nato in una grotta in circostanze eccezionali, deposto non in una culla, bensì in un contenitore differente. Si pensi alla vicenda di Mosè per restare alla tradizione ebraico-cristiana. 

Gli animali rivestono qui un ruolo non secondario: Animali soccorrevoli s’intitola il secondo capitolo del libro. A partire da Gilgamesh sino ad arrivare a Romolo e Remo, e quindi Gesù, sono gli animali a soccorrere il fanciullo divino, il predestinato a grandi cose; una tradizione che nel mondo antico ha conosciuto una grande fortuna. L’eroe bambino è rifiutato dalla cultura e salvato dalla natura, scrive Bettini. Come entrano nella storia della nascita di Gesù l’asino e il bue? Attraverso Virgilio. Mi si perdonerà se qui sarò breve, perché Bettini, che è lettore ed esegeta acutissimo dei testi, non fa mai salti in avanti: procede calmo e sicuro, e vaglia pazientemente tutte le fonti che incontra. 

 

Siamo nella quarta egloga delle Bucoliche con un vaticinio a lungo commentato, che ha portato Virgilio a entrare nel poema dantesco quale guida e mentore. Diamo per scontato anche il passo profetico redatto dal poeta latino; e qui non posso che rimandare alle pagine del libro, così come per la storia di Costantino. In breve: Virgilio sembra anticipare la venuta del Bambino divino, di Gesù, o almeno così può essere interpretato il passo cui si fa riferimento nel libro. Tutta l’antichità cristiana l’ha detto e ridetto, compreso il vaticinio cumano, quello della Sibilla, presente in pitture e intarsi marmorei. 

Arriviamo così a Prudenzio (348-402). In una raccolta intitolata Odi quotidiane parla del Natale di Gesù e degli animali (“i bruti animali”). Arrivano i quadrupedi alla mangiatoia. Bettini ci mostra almeno un paio di sarcofagi cristiani con natività dove sono raffigurati i Magi. Per riassumere e per non perderci in questo che è solo un condensato sommario delle pagine di Presepio, diciamo che le due tradizioni narrative della nascita del Salvatore (Luca e Matteo) confluiscono in un unico racconto visivo. Il passaggio è importante: è un racconto visivo. Il presepio, non bisogna mai dimenticarlo, è prima di tutto un fatto visivo. Possiamo aggiungere: una piccola scultura fatta di tante piccole sculture. Per usare un termine contemporaneo, che non so quanto adeguato, e che Bettini certo non usa, il presepio è un evento performativo. Non siamo al “dire è fare” di J. L. Austin, ma neppure troppo lontani. 

Sono le immagini delle opere d’arte (affreschi, bassorilievi, pitture su tavola) che rendono visibile il presepio: dalle parole all’opera. Siamo in quella che Bettini chiama la “memoria culturale”; il suo libro s’iscrive all’interno di quest’area. Tuttavia senza le parole non ci sarebbero queste immagini. Non le immagini in generale, ma proprio queste. Da qui comincia il presepio propriamente detto: con bambino nella mangiatoia, il bue e l’asino, i pastori, i Magi, con Maria e a volte anche Giuseppe, ma non sempre. I due animali costituiscono un punto importante, come si vedrà poi con San Francesco. Le fonti sono affreschi: nelle catacombe romane e a Verona nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle.

 

 

Bettini, da quello che si apprende leggendo il libro, ci ha messo anni per mettere insieme le cose che racconta e spiega. Non tanto, e non solo, le informazioni; i pezzi c’erano già, per quanto separati. Quello che più conta in questo volume riccamente illustrato sono le motivazioni di fondo, cioè le domande più o meno esplicite che Bettini fa al suo presepio anche se non lo allestisce più da anni; l’ha fatto nel passato e questo, come si vedrà, è quello che conta. 

 

C’è un altro passaggio importante che chi ha fatto il Liceo classico darà per scontato, ma che chi proviene dallo Scientifico o dagli Istituti Tecnici e dall’Artistico non è detto colga al volo. Si tratta del passaggio dall’allegoria al racconto. Oggi anche i ragazzini delle medie inferiori sanno cos’è l’allegoria. Senza allegoria non si capisce la letteratura medioevale, ma soprattutto le Sacre Scritture. La grande tradizione allegorica sta alle nostre spalle, eppure, in qualche misura, anche davanti a noi. 

La mangiatoia non è mai esistita, dice Bettini, eppure è diventata importante grazie al suo contenuto allegorico; di più: grazie alle allegorie dei commentatori. Tutto un fatto di parole: “dire è fare”; da “mangiatoia” si arriva a “greppia”, poi a “recinto”; “presepio” significa esattamente “recinto”, ciò che si “chiude davanti”, come una “siepe”, e questo è lo spazio dove stanno gli animali. E l’allegoria? Origene è lui che porta dentro la storia del presepio gli animali. Cita Isaia 1, 2: “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone”. Un passaggio che Origene lega strettamente a Gesù il Salvatore. Il gioco è fatto: uso allegorico e esegesi del passo. I due animali entrano in scena. 

La parola “presepio” c’è già nella traduzione di Isaia. Sant’Ambrogio ne è il mediatore. Ciascuno porta il suo pezzetto e tutti insieme creano il presepio. Tralascio alcune cose molto interessanti, che riguardano la presenza o l’assenza di Maria, dei pastori e dei Magi. Gregorio di Nissa spiega la presenza di tutti o quasi i personaggi in questa scenografia natalizia della natività. 

 

Bettini dice una cosa molto importante, che riguarda un’espressione oggi in uso, seppure inflazionata, e quindi in progressivo deprezzamento: storytelling. Dice che dai testi si arriva al racconto. Forse era già implicito, o almeno lo è per chi ha considerato i Vangeli dei racconti. Non è sempre stato così. Aggiunge anche un’altra osservazione che aiuta ad afferrare come funzionano le fake news: i testi falsi o falsificati nella storia della cultura sono quelli che esercitano la maggior influenza sulla memoria e sulle tradizioni. Questo è il succo della storia del presepio: una tradizione inventata in un lasso di tempo lungo, seguendo linee di sviluppo per nulla scontate: caso o necessità? Entrambi, direi.

C’è ancora un altro partecipante al rito del presepio, partecipante al plurale: i Re Magi. Arrivano il 5 gennaio, o almeno così dovrebbe essere, in ogni presepio che si rispetti. Qualcuno comincia a metterli prima, e poi li avvicina, progressivamente alla capanna, o grotta, il giorno fissato: Epifania. Qui ci sarebbe un altro punto interessante da sviluppare: la Befana. Non sto però qui a farlo. Basta ricordare che si tratta di tradizioni che si sovrappongono o divergono, come per la storia di Babbo Natale. La cultura è sempre ibridazione. 

 

C’è una tradizione che sostiene che l’arrivo dei Magi sia legato alla identità taumaturgica di Gesù; i miracoli sono il risultato di una investitura, o riconoscimento, che avviene grazie a loro. Come nelle teorie del complotto – il paragone non appaia irriguardoso – si cerca di far collimare cose diverse, di fonderle insieme; qui è la nascita e le profezie bibliche; è il caso di Isaia citato. In Matteo il ruolo dei Magi è decisivo e non è solo legato a una questione astrologica come qualche volta è stato detto.

C’è un’opera esemplare di tutto questo: i Re Magi che compaiono nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, realizzati nel VI secolo. Una meraviglia: mantelli, doni, postura, volti, berretto frigio: tutto questo vale da solo il viaggio nella città romagnola, antica capitale. Ora, come mai i Magi sono diventati tre, mentre in Matteo erano plurali, di numero non definito? E poi perché sono dei re? Rimando alle pagine di Bettini, anche se non esauriscono una storia che da sola meriterebbe un libro a sé. Chissà che l’autore di questo libro non la scriva prima o poi.

 

C’è un testo di un cristiano alessandrino vissuto tra il V e il VI secolo che risalirebbe a un monaco della corte merovingia, una storia avventurosa essa stessa: Excerpta Latina barbari; qui vengono finalmente dati i tre nomi ai Magi: Bithisarea, Melchior, Gathaspa. E il Re Mago nero? E perché in alcuni dipinti figurano un vecchio, un giovanotto e un nero? Risposta di Bettini: la macchina narrativa produce dettagli e notazioni che arricchiscono man mano il racconto. Chi ha letto Propp lo sa. Meraviglia del narrare! Quello che fa specie all’autore di questo volume è che all’origine di tutto ci sia la “lambiccata opera dei teologi”, dal che si capisce che Bettini, pur avendo studiato dai gesuiti, come racconta, non ami le lambiccature. E qui sta probabilmente il cuore del suo libro.

Prima di spiegarlo bisogna andare a Greppio, al presepio vivente di Francesco. Il santo crea il presepio come dal racconto di Tommaso da Celano. La faccio breve, per quanto esista sulla storia un’ampia letteratura da cui, pur conoscendola, Bettini prescinde. Il centro di questo imprescindibile episodio, da cui verrebbe il nostro presepio attuale, c’è una assenza. Mancano il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori e agli angeli. A Francesco interessano il bue e l’asino in carne e ossa da mettere vicino alla mangiatoia. Questo è il focus del praesepium: il fieno contenuto. Possibile? Sì, il santo mette al centro dell’attenzione un oggetto. Non vuole raccontare l’intera vicenda della Nascita, scrive l’autore, come si è creata nella tradizione cristiana sin lì. Si prefigge di mostrare, di far vedere con gli occhi del corpo i disagi che Gesù ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita: mangiatoia, fieno, asino e bue a riscaldarlo. Il resto non gli importa. 

Qui è il centro della ricostruzione di Bettini: il praesepiumè il fulcro della storia. La “cosa”, non la scena, viene da dire. Gli interessa la traccia linguistica – líkna – che ha inseguito in tutto questo lungo percorso come un detective.

 

A questo punto, siamo al capitolo terzo del libro, intitolato Un’antropologia del presepio, Bettini capisce di non aver “capito” il presepio. Il suo flusso di memoria culturale sì, ma non “la cosa”. Che cos’è “la cosa”? Il presepio, scrive, è un artefatto, posto al centro di un rituale, culturalmente significativo. Tuttavia ha perso il suo significato originale, quello su cui lavoravano i teologi e gli esegeti. Necessita qualcosa che Bettini non ha più – dice di averlo avuto, ma che non l’ha più da decenni. 

Qui il libro cambia tono e ritmo. L’autore narra di aver visitato tanti presepi alla ricerca dell’essenza del presepio stesso – questa espressione è mia. A Pisa, a Firenze, a Parigi, alle Cinque Terre, a Bressanone. Racconta di presepi magnifici, anche se le sue descrizioni sono sempre un po’ malinconiche. Rientra a casa e conclude: il vero presepio è quello che si fa per conto proprio, nella propria abitazione. 

Queste considerazioni gli danno l’occasione di dire cosa è il presepio. Siamo nel campo dei significati, non delle origini e neppure delle spiegazioni. Il presepio è il ciclo del tempo; ha una natura fiabesca; implica degli spettatori che non sono dei creatori. Bettini è innamorato dei personaggi del presepio, quelli introdotti successivamente. Sono pagine molto belle, sognanti. Lo studioso ha lasciato qui il passo allo scrittore, al sognatore del presepio. 

 

Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo. In realtà questi tempi si fondono insieme e solo lo studioso, l’esegeta della “cosa” presepio riesce a vederli e distinguerli. Tutto sta nella temporalità che si vive. Quella sacra è stata fondamentale per secoli. E oggi? Per arrivare alla conclusione, che in realtà è lì, a pochi passi da lui, Bettini deve rivestire i panni dello studioso e raccontarci un’altra storia, quella dei Sigillaria, le feste del dio Saturno a Roma. Non starò a raccontare anche questo passaggio. Rimando al libro e vi assicuro che ne vale la pena. C’è ancora un altro passaggio, quello che riguarda i Lari, i protettori della casa. Sono storie di statuine, di piccole sculture di terracotta, presenze del passato. C’entrano con Gesù, spiega l’autore. Sono presenze dell’assente, gande tema religioso, sia pagano che cristiano.

 

Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo – Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna, come ci fa capire Bettini, nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco.

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Un libro di Maurizio Bettini
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Abbiamo ancora un futuro?

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Ogni giorno, da più parti, si levano voci autorevoli ad avvertire che siamo giunti a un momento cruciale e unico nella storia del nostro pianeta; il suo futuro è nelle nostre mani, perché l'attività umana può renderlo inabitabile o, nell'ipotesi migliore, desolato. Tutto dipenderà dalle scelte che l'umanità intera, soprattutto i Paesi più ricchi, faranno non domani, ma oggi. Il punto di non ritorno, quello in cui avremo messo in moto una macchina che non potremo più fermare è veramente alle soglie. Sapremo essere all'altezza di una simile responsabilità? Alexis de Tocqueville, parlando della fine delle società aristocratiche, sosteneva che la ragione fondamentale della loro caduta fosse stata il fatto che gli aristocratici non erano più degni di governare. In realtà pensava che questo fosse vero a un livello più generale e che il potere si perde quando non si è più degni– non semplicemente capaci – di esercitarlo. La sua osservazione mi pare molto appropriata a una riflessione sulla situazione odierna, infatti è molto probabile che l'umanità avrà un futuro solo se dimostrerà di meritarselo. Se non agiremo con saggezza, lungimiranza e responsabilità il nostro pianeta non potrà più ospitarci, ci caccerà via, come si fa con quegli ospiti per i quali si è preparata e addobbata una bella dimora e questi, per tutto ringraziamento, la vandalizzano lasciando dietro di sé solo rovine.

 

In un bel saggio di alcuni anni fa, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Einaudi), Jared Diamond s’interrogava sulla scomparsa di alcune società un tempo fiorenti proponendo di guardare alla loro storia come a una «sorta di grande banca dati da cui … trarre lezioni utili per continuare a far prosperare le nostre società». Perché alcune società sono crollate, si chiedeva, mentre altre, pur avendo affrontato crisi durissime hanno resistito, talvolta tornando a prosperare di nuovo? Dalle loro vicende pensava, giustamente, che anche le nostre società, per quanto ricche e tecnologicamente avanzate, avrebbero potuto imparare qualcosa.

Nessuna società è mai crollata per una sola causa, sostiene Diamond, ma piuttosto per un concatenamento di eventi, spesso provocati in successione l'uno dall'altro con inevitabile consequenzialità.

 

L'inizio normalmente era imputabile a una crisi del sistema ecologico, per lo più configurabile con questa successione: deforestazione e distruzione dell'habitat, gestione sbagliata del suolo (con conseguente erosione, salinizzazione e perdita di fertilità del terreno), cattiva gestione delle risorse idriche, eccesso di caccia e/o di pesca, introduzione di specie nuove, crescita della popolazione umana, aumento dell'impatto sul territorio di ogni singolo individuo. Per le società contemporanee a questi pericoli se ne aggiungono altri quattro, tipicamente moderni: i cambiamenti climatici dovuti all'intervento umano, l'accumulo di sostanze chimiche tossiche nell'ambiente, la carenza di risorse energetiche e l'esaurimento della capacità fotosintetica della Terra. La prospettiva, laddove non si tenti di far fronte energicamente a questi pericoli, è per Diamond non tanto una distruzione totale del nostro ambiente, ma piuttosto quella di un radicale abbassamento degli standard attuali di vita delle società più avanzate senza che vi sia, per altro, un miglioramento delle condizioni per i paesi più poveri. E, soprattutto, una crisi sostanziale di quelli che, fino ad oggi, consideriamo i valori irrinunciabili dei nostri sistemi, come la libertà, i diritti umani, la democrazia politica, la pace e la giustizia. Lo stesso pericolo lo ha denunciato con chiarezza anche papa Francesco nella sua enciclica Laudato sii, che ha raccolto ampi consensi in tutto il mondo al di là delle confessioni religiose. «Il degra­do ambientale e il degrado umano ed etico – affermava – sono intimamente connessi». 

 

 

Jared Diamond scriveva solo dieci anni fa, e oggi è evidente che stiamo velocemente percorrendo la brutta strada da lui descritta, tanto che adesso la sua prospettiva sembra addirittura ottimista. La possibilità di una vera distruzione di gran parte degli habitat della Terra è diventata ormai una minaccia realistica e incombente, a dispetto dei tentativi, sempre più smaccatamente pretestuosi e disonesti, di chi vuole negare gli effetti distruttivi dell'azione umana sull'ambiente, soprattutto per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Nonostante tutto, Diamond si dichiarava cautamente ottimista sulla possibilità che l'umanità avrebbe saputo prendere le decisioni giuste per evitare una catastrofe ambientale, per due motivi sostanzialmente: la sensibilizzazione crescente delle popolazioni mondiali riguardo alle problematiche ambientali e l'altrettanto crescente attenzione che ad esse riservavano i leader delle potenze economiche più avanzate. Riferendosi agli Stati Uniti, che riteneva «il paese più ricco e potente del mondo, con abbondanti risorse ambientali, guidato da leader illuminati, fornito di alleati leali e disturbato solo da pochi nemici deboli e insignificanti», non pensava che avrebbero dovuto temere di trovarsi sull'orlo di un baratro. Per lo meno non per le stesse ragioni che avevano messo in crisi le civiltà antiche da lui analizzate. 

 

Ma le cose possono cambiare in fretta, soprattutto per quanto concerne i leader illuminati, e oggi non potremmo esprimere la stessa fiducia perché la classe politica, a livello mondiale, spesso fa temere di non essere all'altezza dei problemi che deve affrontare. L’ha detto, senza soggezione e con una schiettezza tipicamente giovanile, Greta Thunberg, una ragazzina svedese di quindici anni, nel discorso alla Conferenza delle Parti sul Clima (COP24) tenutasi a Katowice, in Polonia, lo scorso dicembre. Le sue parole hanno fatto il giro del mondo: «Voi parlate… solo di andare avanti con le stesse idee sbagliate che ci hanno messo in questo casino… quando la cosa più sensata da fare sarebbe tirare il freno a mano. Non siete abbastanza maturi da dire le cose come stanno, lasciate persino questo fardello a noi ragazzi… Dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo concentrarci sull'equità. E se le soluzioni sono tanto impossibili da trovare, forse dovremmo cambiare il sistema. Non siamo venuti qui per pregare i leader mondiali di occuparsene. Ci avete ignorati in passato e ci ignorerete ancora. Non ci sono più scuse e non c'è più tempo. Siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no…» Insomma, la Terra brucia e il tempo non è più dalla nostra parte (cfr. M. Mann, T. Toles, La Terra brucia, Hoepli).

 

La complessità che l'ecologia planetaria, il cambiamento climatico e l'uso delle risorse energetiche mettono in gioco è tale che l'opinione pubblica può essere facilmente male informata e manipolata, soprattutto in momenti in cui la scienza è messa in discussione dall'ignoranza. L'unico possibile rimedio è che, al di là delle prese di posizione ideologiche e strumentali, ognuno cerchi di capire i termini della questione per farsi un'idea realistica del reale impatto delle attività umane sul sistema Terra. A tal fine può essere molto utile la lettura di un saggio, La grande accelerazione. Storia ambientale dell'Antropocene dopo il 1945, scritto a due mani dagli storici J.R McNeill e P. Engelke, il primo docente alla Georgetown Univeristy, il secondo senior fellow dell'Atlantic Council's Scowcroft Center on Strategy and Security. Essi condividono l'ipotesi di Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 per i suoi studi sulla riduzione dello strato di ozono nell'atmosfera, secondo il quale possiamo considerare ormai finito l'Olocene (epoca che comprende più o meno gli ultimi dodicimila anni) e iniziato l'Antropocene, epoca in cui il genere umano esercita «un'influenza decisiva sull'ecologia globale». Questo cosa significa? In pratica, affermano gli autori, vuol dire che le azioni dell'uomo interferiscono con i sistemi fondamentali che governano la vita e l'evoluzione del nostro pianeta. Gli inizi di questo fenomeno possono essere fatti risalire alla fine del XVIII secolo, quando la prima rivoluzione industriale diede inizio a un sempre più massiccio utilizzo dei combustibili fossili e la popolazione umana cominciò a crescere a ritmi senza precedenti. In seguito, a partire dalla metà del Novecento, entrambi i fenomeni hanno assunto dimensioni tali da cambiare radicalmente i «rapporti tra la nostra specie e la biosfera in una storia lunga 200.000 anni». La qual cosa, proseguono, «dovrebbe renderci piuttosto scettici riguardo al fatto che le tendenze attuali siano destinate a durare a lungo». Soprattutto perché il pianeta non è più in grado di sopportarlo. Banalmente, se volete, non c'è più abbastanza materiale da usare: acqua, dolce e salata, foreste, petrolio…

 

Nonostante una maggiore sensibilità globale e una generale riduzione dei tassi di fertilità, se qualche catastrofe naturale non ci fermerà il dominio dell'uomo e la sua spropositata influenza sull'ambiente continueranno. «Quello che è certo – avvertono gli autori – è che quanto è stato fatto finora dall'uomo, principalmente tra 1945 e oggi, lascerà un segno del nostro passaggio sul pianeta, sul suo clima, sul suo ecosistema, sull'acidificazione degli oceani e altrove ancora, che resterà indelebile nei millenni a venire». E nel considerare la fame d'energia del nostro mondo, è bene ricordare che non deriva solo dal funzionamento delle industrie, dei trasporti e dal mantenimento del confort cui siamo abituati in Occidente, ma anche dalla semplice necessità di alimentare una massa enorme di persone. Gli allevamenti intensivi, i disboscamenti, l'irrigazione e così via contribuiscono in maniera determinante a sconvolgere gli equilibri naturali in una catena di cause e conseguenze dettagliatamente riferita dagli autori. Si tratta, insomma, di una storia economica del mondo negli ultimi sessant'anni raccontata dal punto di vista dell'ambiente, con dati e cifre talvolta veramente impressionanti, come ad esempio il fatto che la popolazione mondiale è triplicata dal 1945 al 2015, che l'uso di combustibili fossili era di 3 milioni di tonnellate nel 1750 e di 9500 milioni di tonnellate nel 2015 o che «una certa percentuale, forse un quarto del totale, dei trecento miliardi di tonnellate di carbonio rilasciati nell'atmosfera tra il 1945 e il 2015, vi rimarrà per alcune centinaia di migliaia di anni». 

 

Eppure c'è ancora speranza, concludono, perché il futuro, se è già scritto lo è solo in parte ed è possibile, seppure lentamente, cambiare leggermente rotta al grande transatlantico del mondo. Oggi, infatti, la discussione sul cambiamento climatico non è più confinata entro le mura della comunità scientifica; l'argomento è entrato nelle agende politiche di vari Paesi e ne sono seguite, pur tra difficoltà e marce avanti e indietro, convenzioni e accordi che potrebbero portare a fondamentali miglioramenti. D'altra parte, le recentissime decisioni di alcune potenze fanno temere che molti ostacoli si frappongano ancora a un uso più corretto e lungimirante delle risorse del pianeta. Sui giornali se ne parla quasi quotidianamente, e ne sono un esempio l'uscita voluta da Trump degli USA dagli accordi di Parigi sul clima stipulati nel 2015 tra quasi 200 paesi del mondo – ma va detto che molti governatori di vari stati dell'unione si sono opposti con decisione alle scelte del presidente americano dichiarando che tali accordi resteranno in vigore nei propri territori (cfr. il documentario della National Geographic, L’America che si ribella a Trump, pubblicato su YouTube) –, la decisione del Giappone di riprendere la caccia alle balene o le dichiarazioni del neo-eletto presidente del Brasile Bolsonaro di volere continuare o addirittura incrementare lo sfruttamento della foresta amazzonica (della quale erano stati già distrutti in soli dodici mesi quasi 8000 kmq).Che fare dunque? Tutti concordano che il problema ineludibile è l'innaturale, eccessivamente rapido cambiamento climatico e che pertanto è prioritario agire in questo ambito riducendo drasticamente l'uso di combustibili fossili e rimpiazzandoli al più presto con energie rinnovabili. Ma, soprattutto, tutti concordano sul fatto che il problema che l'umanità si trova ad affrontare oggi è essenzialmente etico prima e più ancora che economico o politico, e che lo si potrà risolvere soltanto decidendo insieme di ridurre drasticamente i consumi energetici. Dobbiamo chiederci seriamente cosa significhi il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere». Se lo sono chiesti i vescovi della Nuova Zelanda nella loro Conferenza Episcopale, citata nell'enciclica Laudato sii; e papa Bergoglio conclude: «Non ci sarà una nuo­va relazione con la natura senza un essere uma­no nuovo. Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia». 

 

E a chi pensa che i costi economici necessari a riconvertire il sistema sarebbero spaventosi, J.R. McNeill e P. Engelke obiettano: «il valore di un pianeta è il suo costo di sostituzione. Dal momento che, attualmente, sappiamo che nessun pianeta è in grado di ospitare la vita, il costo per sostituire la Terra è infinito. Quindi qualsiasi valutazione economica del costo dei danni causati dal cambiamento climatico sarà una stima in difetto». E concludono che «è possibile avere davanti un altro futuro… in cui scegliamo come obiettivo quello di un'esistenza planetaria sostenibile». È questo l'unico futuro possibile, non ce n'è un altro.

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Luoghi potenziali: Gordon Matta-Clark al lavoro

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La proiezione, in una sala della mostra Collecting Matta-Clark. La raccolta Berg. Opere, documenti, ephemera (Roma, Accademia Nazionale di San Luca, fino al 25 febbraio), ha una qualità ipnotica: sotto i nostri occhi un vecchio palazzo per uffici è sottoposto a una lenta, progressiva, sistematica demolizione, ma eseguita come se invece di atti spicci e definitivi ogni buco, ogni taglio praticato in travi, infissi, rivestimenti, muri, fosse al contrario il preludio a una costruzione più sottile e segreta, estratta dalle viscere stesse dell’architettura, suo invisibile e avvincente negativo. Office Baroque, un film di 44 minuti, è in effetti molto più della documentazione dell’opera omonima realizzata da Gordon-Matta Clark ad Anversa nel 1977. Ciò che viene offerto è insieme una splendida, intensa testimonianza della performance, insieme fisica e mentale, necessaria alla sua creazione – la macchina da presa si sofferma a lungo sui gesti insieme esperti e delicati dell’artista, gesti da scultore più che da muratore al lavoro –, e un equivalente visivo e temporale della sua elusiva condizione finita, a sua volta promessa a una rapida sparizione. Un film-scultura in cui si fa esperienza di una vertigine piranesiana, in cui nuove prospettive, impreviste, instabili, sorprendenti, ci invitano a una lettura stratigrafica e caleidoscopica dell’edificio, del suo latente, multidimensionale potenziale plastico, del suo insospettato inconscio architettonico.

 

 

Morto a soli trentacinque anni nel 1978, Matta-Clark è da tempo riconosciuto come una delle figure essenziali di quella generazione di artisti che tra anni ’60 e ’70 del Novecento hanno rivoluzionato il linguaggio della scultura, estraendolo dalla dimensione dell’atelier per fonderlo con quelle della performance e dell’architettura, e privilegiando la processualità, l’impatto fenomenologico, la qualità site specific degli interventi. Il suo approccio combinava con grande originalità interessi assai diversi, dall’architettura alla scultura, dalle tematiche sociali agli happenings, dall’archeologia alle tecniche costruttive, dal disegno al cinema. I suoi strumenti operativi erano altrettanto diversificati: acquisto di proprietà immobiliari, occupazione e manipolazione di edifici, documentazione fotografica, films, calchi, prelievi diretti di materiali, esperienze collettive (come il ristorante Food, aperto con la sua compagna Carol Goodden nel 1971), in un processo continuo che si estendeva dalla chirurgica distruzione del costruito alla programmatica ricostruzione del distrutto.

 

Splitting, 1974


Le sue opere più importanti (oggi tutte perdute) sono i “tagli” operati su strutture preesistenti, perlopiù edifici abbandonati o in via di demolizione; nel suo primo intervento, Bronx Floors (1972-3) e in quelli successivi come A W-Hole House (realizzato a Genova nel 1973), Splitting (1974) e Bingo (1974), Matta-Clark pratica nuove aperture, seziona muri, preleva angoli, tetti o intere facciate. La complessità e la scala dei lavori tende a crescere nel tempo: in Day’s End (1975), ad esempio, un deposito abbandonato sul Pier 52 a New York, Matta-Clark realizza un grande taglio curvilineo nello spessore dell’imponente struttura in acciaio in riva all’Hudson River. In Conical Intersect (Étant d’art pour locataire, 27-29 rue Beaubourg), del 1975, il taglio segue il profilo tridimensionale di un cono – orientato a circa 45° rispetto alla strada sottostante – che si immerge, svuotandolo, all’interno di un edificio seicentesco destinato alla demolizione, permettendo così ai passanti di scorgere appena dietro, come attraverso un cannocchiale rovesciato, l’immenso esoscheletro del Centre Pompidou in costruzione.

 

Conical Intersect, Paris, 1975


Tagliare, scomporre, aprire, significa per Matta-Clark far irrompere il disordine, l’entropia, in contesti irrigiditi: muri e solai vedono improvvisamente contraddette o sottratte le loro funzioni e tutta la gerarchia spaziale degli edifici viene sovvertita. Le forme geometriche pure (curve, profili sferici o conici) assumono, compenetrandosi con le strutture, qualità e risonanze ad esse originariamente estranee e certo distanti dal nitore ascetico della scultura minimalista di Donald Judd o di Carl Andre, ma anche dai volumi negativi che Michael Heizer disegna nei primi anni ’70 negli scenari deserti e sublimi dell’Ovest americano. I tagli non mirano tuttavia solo a liberare le tensioni, a far “respirare” gli spazi attraverso le interruzioni delle superfici, come tenderebbe a far credere una lettura in chiave esclusivamente architettonica, antifunzionalista e antimodernista. Da questo particolare punto di vista, e cioè dell’impiego di processi entropici quali motori concettuali e formali dell’opera, il percorso di Matta-Clark è senz’altro più vicino alla corrente che fu chiamata anti-form e ai suoi maggiori protagonisti – il Morris maturo, Richard Serra, Eva Hesse, Robert Smithson – cui lo accomuna l’interesse per il contrasto dinamico di “forze”, di energie invisibili e per lo spessore temporale ed esperienziale che la materia può manifestare.

 

In modo più netto, più consapevole dei suoi contemporanei, Matta-Clark conferisce tuttavia ai propri lavori un esplicito valore di critica, sociale quanto estetica, alla città contemporanea e alle sue contraddizioni. In contrasto con l’idea modernista di progettazione totale, e con l’implicita tabula rasa dell’habitat costruito preesistente, Matta-Clark pensa l’ambiente urbano come un terrain antropologico dalla stratigrafia complessa, come un continuum spaziotemporale esteso tanto in orizzontale quanto sull’asse verticale, dall’oscurità sotterranea all’aperto del cielo. Da questo punto di vista un lavoro come Conical Intersect può essere letto come un dispositivo che insinua nella logica apparentemente vittoriosa abbattimento/sostituzione praticata nel centro storico di Parigi il sospetto radicale che quanto va perduto non sia solo “volume” edilizio, ma spessore storico, eterogeneità, qualcosa cioè di non assimilabile e non replicabile dalle operazioni di ingegneria urbanistica speculativa, appena travestite dalla veste ludica e fascinosa della “modernizzazione”, che la capitale francese andava subendo tra anni ’60 e ’70 del secolo scorso. C’è in questo senso una significativa assonanza tra la pratica artistica di Matta-Clark e le idee di urbanisti come Jane Jacobs, che in un saggio famoso e innovativo, The Death and Life of Great American Cities (1961; in italiano Vita e morte delle grandi città, di recente ripubblicato da Einaudi), aveva denunciato un modello di sviluppo della città che riproponeva in forme degradate e ridotte alla logica del più immediato profitto le idee di Le Corbusier e dell’urbanistica modernista.

 

Harry Gruyaert, GM-C lavora a Descending Steps for Batan, Galerie Yvon Lambert, Paris 1977 © Harry Gruyaert Magnum Photos


Per Matta-Clark, la città costruita è dunque simultaneamente un luogo di memoria e uno spazio di sperimentazione esistenziale, un ambiente denso, compatto, da impegnare integralmente.  Esempi di questa volontà di allargamento spaziale e psichico sono Descending Steps for Batan (1977) – la struggente performance in memoria del fratello morto suicida, dove l’artista scava un pozzo nel sottosuolo della galleria Yvon Lambert a Parigi sino a raggiungere lo strato di fondazione dell’edificio –, Sous-sols de Paris, (1977), dove esplora i sotterranei dell’Opéra Garnier e le catacombe parigine di Place Denfert-Rocherau con le loro pile di teschi umani, sino a Jacob’s Ladder (1977), la singolare, visionaria installazione realizzata a Kassel per documenta 6, dove una grande “scala” realizzata con legno, funi e reti viene ancorata alla sommità (75 metri di altezza) di una grande ciminiera nella periferia industriale della città tedesca e quindi tesa per farle assumere il profilo di una elegante catenaria. La biblica immagine della scala di Giacobbe (che in inglese indica anche le scale di corda utilizzate nelle imbarcazioni) diventa qui un oggetto praticabile, lo strumento di una sfida a metà strada tra sport e ascesi.

 

Nella definizione di anarchitecture (nome anche di un gruppo da lui fondato da nel 1973) Matta-Clark riassume il suo approccio decostruttivo, anarchico, al tema architettonico per eccellenza, l’edificio, di cui smonta impietosamente i meccanismi socio-economici e i miti culturali. I “tagli”, in effetti, oltre a creare nuovi punti di vista, rivelano anche le vicende interne dell’edificio e agiscono dunque come rivelatori delle connessioni invisibili tra individui, forme di vita, contesti. “Il fattore determinante è il grado in cui il mio intervento riesce a trasformare la struttura in un atto di comunicazione”, ha scritto Matta-Clark. Abbattere un muro significa anche “dare la parola” direttamente all’edificio perché racconti la propria vicenda, e non un gesto che se pure animato da deliberata, innegabile “violenza” non può essere tuttavia ridotto a una distruttività nihilista – come argomenta Pamela Lee nella sua monografia Objects to be destroyed (2001) –, a una forma di vandalismo.

 

Il lavoro di Matta-Clark richiede in altre parole per essere decifrato una valutazione simultanea della sua qualità sinestetica e performativa e dei suoi simbolismi impliciti (ad esempio: “splitting”, fendere, come metafora della divisione della coscienza americana di fronte alla guerra del Vietnam, ma anche della divisione/opposizione generazionale tra padri e figli, e nello specifico tra Robert e suo padre, l’artista surrealista Roberto Matta), come pure un approccio critico lontano da incondizionate caratterizzazioni morali e/o politiche.

 

Office Baroque, Anvers, 1976. Courtesy Collezione Harold Berg


Le tipologie edilizie investite dall’azione di Matta-Clark possiedono, da questo punto di vista, un valore esemplare: i “blocchi” delle periferie segnalano l’imprigionamento dei più poveri, le villette suburbane l’autoisolamento della middle class in un’esistenza di consumo passivo e atomizzato, gli immobili per uffici la rigida organizzazione gerarchica del lavoro, gli edifici industriali abbandonati la decaduta razionalità produttiva. Permettere alla luce naturale di irrompere all’interno di questi edifici non può non indicare anche la necessità di un modello sociale, o meglio di una forma di vita diversa, più aperta, permeabile, inclusiva.

 

Di questo breve e intensissimo percorso creativo la mostra romana offre un’affascinante testimonianza attraverso disegni, fotografie, filmati e un’ampia selezione di documenti, tutti provenienti dalla raccolta del collezionista Harold Berg. Si passa dai primissimi lavori, come Tree Dance (1971), a performance intime (Hair Play, 1972), a un oggetto di grande interesse come Gordon Matta-Clark at Documenta 1977, un film documentario – montato dallo stesso Berg a partire dal footage originale rimasto inedito per decenni – in cui è documentata la realizzazione di Jacob’s Ladder, lavoro presentato alla rassegna di Kassel, e sino a Circus - Caribbean Orange (1978), un intervento a scala monumentale realizzato a Chicago, dove i profili ritagliati di tre grandi sfere si susseguono sulla diagonale ascendente dal livello stradale al tetto di un edificio, fendendo gli spazi interni secondo un andamento vorticoso tradotto in una serie di straordinari cibachromes.

 

La collezione – come Berg confida a Federico De Melis nel bel catalogo che accompagna l’esposizione – nasce anzitutto come forma di simpatia e affinità esistenziale con l’artista, una passione e un’ossessione personale da cui si può trarre spunto per una riflessione storica. Nel collezionare opere di process art– opere cioè in cui entrano in crisi le nozioni stesse di autografia e originalità alla base del tradizionale collezionismo artistico –, tracce spettrali di opere irrimediabilmente perdute, Berg fa in effetti pensare non tanto a collezionisti contemporanei come François Pinault, per i quali il collezionare diviene una forma di metacreazione, di «valorizzazione del valore» come avrebbe detto Marx, una dimostrazione della potenza materiale e simbolica del capitale, quanto alla figura evocata in una pagina famosa dei Passages di Walter Benjamin. Tipica creatura dell’epoca moderna, il collezionista è infatti impegnato nel compito impossibile di “togliere alle cose, mediante il possesso di esse, il loro carattere di merce” conferendo loro “solo un valore d’amatore invece del valore d’uso”, grazie a un incantesimo capace di inscrivere “il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s’irrigidisce, nell’atto stesso in cui un ultimo brivido (il brivido dell’essere acquistato) lo attraversa”.

 

Circus, Chicago 1978. Courtesy Collezione Harold Berg

 

Forse è questa la chiave giusta per interpretare la passione esclusiva di Harold Berg per Matta-Clark: se l’artista riscatta i gusci svuotati di architetture condannate alla distruzione perché obsolete, inservibili, improduttive, illuminandone in extremis, un attimo prima della loro definitiva obliterazione, un nuovo potenziale di senso e di esperienza, il collezionista cerca di preservare nel presente, nel cerchio magico della propria raccolta, una scintilla dell’energia di immaginazione, forse della stessa presenza vivente dell’artista. Scommessa paradossale, e proprio per questo irresistibile.

 

Ma “recuperare” Matta-Clark alla inevitabile reificazione, al culto postumo che ne ha fatto – lui come altri suoi compagni di generazione morti anch’essi precocemente come Smithson e Pascali – un’icona e un riferimento essenziale per la cultura artistica degli ultimi due decenni (oltre che abbondante materia prima per l’industria accademica), preservare la vitalità del suo lavoro e la sua promessa di futuro, è forse possibile anche senza farne un oggetto da collezione. Basta aprire gli occhi. Vedremmo nei film, nelle fotografie, negli ephemera raccolti a Roma un tempo e uno spazio diversi, meno sorvegliati, meno paranoici e impauriti dei nostri, meno regolati, più rischiosi forse. Spazi e tempi comunque dove l’azione fuori dalle regole di un giovane artista tenta strenuamente di rianimare la materia, di far penetrare la luce dove c’è solo buio, scendendo nel ventre nascosto della città, rendendone visibili spazi proibiti o marginali. Azioni effimere, certo, ma potenti, come effimera e potente è la stessa giovinezza che brilla nei gesti, nello sguardo, nel corpo di Matta-Clark al lavoro quale lo vediamo in film e fotografie, e che contrasta con la polvere, la ruggine, la vecchia carta da parati, le tracce di un vissuto ostinato e immemoriale che lo circondano.

 

Le azioni di Matta-Clark non hanno perso nulla col tempo della loro intima ambivalenza: la creazione, pure se non più ex nihilo ma già in partenza compromessa col mondo, è sempre un atto violento, un trauma inferto intenzionalmente alla apparente compattezza delle cose, una discontinuità che si fa carico del proprio potenziale fallimento, della propria natura transitoria, così come del proprio potenziale di resistenza, di inadattabilità. Un trauma che ripropone in forma dialetticamente rovesciata il taglio come strumento essenziale del modernismo, il mezzo per eccellenza con cui affondare il colpo nel corpo stremato della tradizione, nella banalità, irredimibile e per questo preziosa, del quotidiano. Ecco un montaggio invece che si fa materialmente nel cerchio della vita, che interrompe la sua compattezza, che la irrora con il salto, la giunzione imprevedibile, e che finisce per disperdersi, per accettare di disperdersi nel rumore di fondo. Un lampo, e poi la notte.

 

Ma se non è certo casuale che molti artisti del nostro tempo abbiano guardato all’opera del loro predecessore come esempio di un’apertura allo spazio sociale, al vissuto collettivo, alla trama delle relazioni culturali, il taglio e il rimontaggio dei materiali – penso ai “mobili” di Flavio Favelli o alle installazioni di Dan Vho, ad esempio – nel loro caso seguono invariabilmente una logica opposta, additiva, agglutinante, direi soprattutto curativa, a quella di Matta-Clark. In altre parole, se per gli artisti più giovani il taglio serve a ricongiungere, a ricostruire un “corpo” altrimenti perduto, una lacuna dell’archivio da colmare sia pure solo provvisoriamente, per Matta-Clark la lacuna viene prodotta espressamente proprio per scuotere, per disarticolare quell’archivio tridimensionale che è l’architettura costruita, vissuta e agita nel tempo. Un’architettura colpita, non va dimenticato, sempre e solo nel momento in cui essa cessa di essere funzionale ed è a un passo dal soccombere, sull'orlo della sparizione, come se la sua verità potesse brillare davvero solo nel momento del pericolo. È forse proprio per questa capacità di tenere insieme la forza e lo spessore della memoria e la lotta cieca, violenta e sempre rimossa da cui la memoria stessa è prodotta, che il lavoro di Matta-Clark ci appare oggi ancora più necessario, ancora più contemporaneo.

 

 

Una versione più breve di questo testo è apparsa su “il manifesto – Alias”

 

 

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Stupido è chi non si disegna

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Sono appena usciti insieme due importanti volumi collettivi sul tatuaggio, visto come antico fenomeno antropologico ripresentatosi più vivo che mai, e con significati diversi, nella società contemporanea, dove straripa ormai da anni. Il primo, curato da Gianfranco Marrone con Tiziana Migliore, si intitola Iconologie del tatuaggio (Meltemi, pp. 320, € 24); l’altro, curato dallo stesso Marrone con Francesco Mangiapane, ha per titolo Culture del tatuaggio (Museo Pasqualino, pp. 278, € 26). Da questo secondo volume pubblichiamo parte del saggio di Simone Ghiaroni.

 

Sono seduto a un tavolo nella prima sezione della scuola dell'infanzia da qualche minuto quando vedo un bambino dirigersi verso di me. Si chiama Paolo ed ha tre anni. Si avvicina velocemente stringendo in una mano un portapenne pieno di pennarelli colorati e nell'altra alcuni fogli, barcollando nella sua corsetta in un modo leggermente scoordinato. I fogli sono stampati su un lato con fatture, bolle di accompagnamento o altri documenti da ufficio sottratti al cestino della carta straccia e riutilizzati dal personale della scuola mettendoli a disposizione dei bambini per eseguire i loro disegni spontanei. Paolo appoggia i suoi strumenti al piano e scosta con due mani una piccola sedia a misura di bambino e vi si siede. Si accosta al tavolo come se ci si stesse arrampicando sopra. Allunga una mano per prendere un pennarello colorato, lo stappa e con impegno traccia una linea quasi al centro del foglio, ricalcandola più volte, allargandola e dandole contorni imprecisi e frastagliati. Poi la guarda soddisfatto, alza il viso verso di me e sorride.

 

L'immagine risultante dall'azione di Paolo è normalmente identificata come uno “scarabocchio” e l'azione in sé come “scarabocchiare”.  Il termine “scarabocchio” ascrive subito il tracciato registrato dal foglio nel novero dei segni senza importanza, senza significato e, a ben vedere, valutati in modo negativo. 

L'affermazione che lo “scarabocchio” sia un comportamento non comunicativo è sconfessata decisamente dal primo assioma della comunicazione. Difatti, come dice Watzlawick, ogni e ciascuna azione umana è sempre comunicativa, esprime un messaggio o, ha un significato, o al limite una significatività. Perfino il rifiuto cosciente della comunicazione, il silenzio, può essere molto eloquente. A noi, dunque, il compito di ricercare il significato di quei tracciati iscritti sul foglio da Paolo.

Per farlo occorre spostare l'attenzione dal foglio al comportamento empirico del bambino, dalla semantica alla pragmatica: tornando alla situazione descritta in apertura del testo, analizzando passo per passo le azioni reali che compie e i loro risultati immediati. Considerando l'azione di Paolo come un tutto, sinteticamente, tralasciando quindi l'analisi del “come” questa si svolge, si è inclini a interpretarla come il gesto del “disegnare” nel senso inteso dall'osservatore e, quindi, alla conclusione che il prodotto sia un disegno “senza significato”, uno “scarabocchio” appunto. Per pervenire a una nuova e più complessa interpretazione è necessario analizzare ciò che il bambino fa concretamente cercando i significati e le relazioni interne, invece che basarsi su un giudizio esterno sommario. È altresì importante allontanarsi dall'auto-rappresentazione fornita dal bambino stesso: alla consueta domanda “cosa stai facendo?” il bambino inevitabilmente risponderà in prima battuta, semplicemente, “sto disegnando” o “sto giocando”. 

 

Scomponendo la sequenza di azioni nei passi che la compongono possiamo distinguere una prima fase di preparazione del luogo e degli strumenti; il ripetuto trascinamento del pennarello su un foglio con il risultato di produrre l'immagine di una linea imprecisa e frammentata; la valutazione del prodotto ottenuto e l'espressione della propria soddisfazione. Concentriamo l'attenzione sulle ultime due fasi: il disegno vero e proprio e l'osservazione del risultato.

Otteniamo così la sua realtà più semplice, vale a dire l'esecuzione di un gesto che attraverso l'utilizzo di uno strumento (il pennarello colorato) produce una modificazione di una superficie. Questo atto produce una differenza fondamentale tra un prima, in cui la linea ancora non è stata tracciata, e un dopo, nel quale sul foglio compare un elemento nuovo. “La linea […] è un certo squilibrio introdotto nell'indifferenza della carta bianca”, come scrive Merleau-Ponty. La superficie viene quindi investita da un'azione che ne comporta una modificazione conseguente registrandone la traccia e rendendone visibili i risultati. La circostanza fondamentale è che questa superficie diventi lo sfondo sul quale, in questo momento, un determinato soggetto traccia una figura. Il rapporto tra figura e sfondo, articolato anche nella dimensione della temporalità di un prima e un poi rispetto a un gesto consapevole del bambino, conferisce a quel tracciato grafico una salienza visiva che attira l'attenzione su quella linea e non su altre. 

Per chiarire questo punto è importante chiedersi di che tipo di segno si tratti e quale sia il suo riferimento. Se infatti è comune riconoscere nell'attività grafica del bambino un “disegno”, più raramente lo si è inteso tecnicamente come “segno”.

 

Attraverso la salienza visiva di un tracciato che si staglia su uno sfondo, il segno tracciato dal bambino concentra la nostra attenzione verso la causa della modificazione dello stato precedente dello sfondo: l'esecutore materiale del segno. Il tracciato grafico quindi non rappresenta un'entità del mondo esterno né in modo simbolico né iconico, ma indica qualcosa, qualcosa con cui intrattiene un rapporto esistenziale, vale a dire il bambino che l'ha disegnata. È quindi un indice che si riferisce all'identità personale del soggetto disegnatore, una marca della sua presenza. Per questo propongo di chiamare questa linea, questo tracciato fondamentale e costante in tutta la produzione grafica successiva, una linea-identità. 

Mi sembra utile adottare la definizione minima fornita dallo psichiatra Giovanni Jervis per cui l'identità personale è “riconoscersi ed essere riconosciuti”. Anche se parliamo di identità, come sostantivo singolare, in realtà occorre pensare a questo concetto come a un processo di identificazione, che non è detto debba condurre a una singola identità semplice, ma si possa riferire a una molteplicità complessa di identificazioni in base ai contesti. Un processo di continua produzione e negoziazione della propria posizione riconoscibile nel contesto socio-culturale.

 

Questa traccia grafica diventa la prova esterna e tangibile della presenza e identità del bambino, che ne può valutare la concretezza proiettata nell'immagine risultante. Infatti, la produzione di quello specifico tracciato grafico è inevitabilmente legata alle condizioni della sua produzione, potremmo dire dell'enunciazione, secondo le sue proprietà deittiche: nessun altro se non quel bambino ha prodotto quella linea, in questo momento, in questo luogo. 

L'operazione mentale che si innesca nella produzione e valutazione della linea-identità è la constatazione della propria identità personale resa visibile, concreta e permanente sul foglio. Alla domanda mentale “chi ha prodotto questa modificazione che vedo sul foglio”, la risposta è: io, qui, ora. Fornisce alla coscienza del bambino la soluzione visiva al fondamentale problema della garanzia della propria identità personale all'interno di un contesto spazio-temporale e sociale. Così anche per gli altri partecipanti al contesto che in ugual modo assistono alla produzione dell'immagine e, nel processo di creazione della salienza grazie al rapporto tra sfondo e figura, sono posti di fronte alla medesima domanda: chi ha prodotto questa linea? La risposta, mutatis mutandis, è: lui o tu, qui, adesso. Riconoscendo quindi, nella possibilità stessa del disegno, nella possibilità di lasciare segni, una possibilità di azione personale e, quindi, un'identità personale a cui si riferisce indessicalmente il tracciato visibile sul foglio.

 

Una donna della tribù Kalinga, nelle Filippine (© Jake Verzosa, Collection de l'Artiste).


Questa facoltà è definita da Alessandro Duranti come agentività primaria, cioè: “la possibilità di creare un dialogo, prima ancora di avere un dialogo con qualcuno in particolare o con noi stessi” e costituisce “indirettamente un atto di affermazione del Sé del parlante in quanto essere che è in grado di fare col linguaggio così come io faccio, non in un senso astratto ma in senso concreto sostenuto dalla coabitazione dello stesso mondo”. Così, la potenzialità del disegno esprime di per sé una “forza di presenza prima ancora che una forza orientata – un'intenzione – verso un'azione particolare”. La semplice linea frastagliata e imprecisa tracciata su un foglio apre dunque contemporaneamente la possibilità della comunicazione con gli altri e la conferma della propria identità. Infatti, anche se non comunica un contenuto proposizionale, il riferimento come indice all'autore restituisce insieme un'identità e una differenza, condizioni preliminari per qualsiasi interazione intersoggettiva.

 

L'azione educatrice degli adulti, l’addomesticamento del disegno selvaggio, tende, sia per ragioni di praticità sia per convenzione culturale, a privilegiare il foglio di carta come superficie per disegnare per eccellenza, escludendo le altre possibilità e relegandole in determinate situazioni, di sovente guidate da un adulto, come la pittura su vetro o sui sassi. Ma come si sa, soprattutto per i bambini, ogni regola positiva ammette e produce le sue eccezioni, specialmente se queste sono altamente significative e simbolicamente attraenti. Al riparo dallo sguardo vigile delle maestre, infatti, i bambini con gioia non perdono occasione per disegnare, cioè marcare della propria presenza con la loro “linea-identità”, ogni tipo di superficie. In particolare, una delle superfici non convenzionali predilette dai bambini è la pelle del corpo proprio e altrui. Se, in effetti, è quasi inevitabile che dopo una giornata di disegno le mani (e a volte le braccia, i visi e perfino i vestiti) siano sporchi – senza intenzionalità – di segni e macchie colorate, è altrettanto vero che spesso molti di questi segni sono prodotti intenzionalmente all'interno di contesti di gioco e di interazione. 

 

La letteratura antropologica riporta innumerevoli esempi di come il corpo e nello specifico la pelle sia soggetta a modificazioni e manipolazione simbolica diventando il campo sulla quale si proiettano valenze sociali e culturali. Come scrive Mariella Pandolfi nel capitolo Corpo del lessico curato da Alessandro Duranti, la superficie corporea può essere considerata una pelle sociale, quasi un confine tra la società e l'individuo come unità psico-biologica, sorta di palcoscenico sul quale gli esseri umani recitano il dramma della loro socializzazione”. Il corpo si dà fin da subito come un supporto adatto per il disegno e, se la teoria identitaria che ho proposto è in qualche misura attendibile, rappresenta forse una delle superfici privilegiate in quanto fulcro delle reti di relazione tra il sé e l'altro-da-sé. Soprattutto nel bambino in via di sviluppo, “la pelle come superficie di confine è tanto il medium del contatto quanto quello della separazione” (König) tra sé e gli altri. È, come la definisce König, un “organo interattivo” che “reagisce al mondo interno come a quello esterno”, una superficie di comunicazione con la propria interiorità e con il mondo sociale.

 

Une femme maorie vers 1890. Photo publiée avec l'aimable autorisation de Sir George Grey, Special Collections, Auckland Libraries


Disegnarsi addosso e disegnare addosso agli altri non è un semplice scherzo o dispetto, è un segno di inscrizione della propria linea-identità, da una parte come auto-marcatura, come discorso tra sé e sé reificato e esposto sulla propria pelle; dall'altra, come veicolo e rappresentazione di relazioni sociali. Tracciare una linea sulle proprie braccia, in un procedimento analogo a quanto già visto, è un modo per inscrivere e, contemporaneamente, introiettare e rendere visibile la propria identità personale, la propria agentività primaria, il proprio sé. Come spiega bene l'antropologo dell'arte Howard Morphy, così il guerriero che si ricopre di pitture di guerra che rispecchiano i valori di coraggio, fierezza e forza non lo fa solo per mostrarlo agli altri o per decorarsi per celebrare una vittoria, ma è un modo di comunicazione verso il sé: “L'artista dipinto e decorato non sta affermando (linguisticamente) “io sono fiero”, piuttosto sta creando un'immagine di fierezza, potere e identità di gruppo, che è parte integrante della presentazione stessa. Le pitture sul corpo sortiscono non solo un effetto comunicativo sugli altri, ma sul sé della persona, creando un'immagine di potere che è palpabilmente sentita”.

 

Allo stesso modo, imprimere marchi della propria presenza sul corpo dell'altro e viceversa, sottende la creazione, la riproduzione e la rappresentazione visibile di un legame sociale. Così, infatti, quando Marco, Lorenzo e Stefano (cinque anni) giocano al “gioco dello scarabocchiarsi” (come mi è stato da loro presentato) ribadiscono la loro relazione di amicizia e, quantomeno fino all'incontro con l'acqua e il sapone, questa resta impressa in modo ben visibile sulla loro pelle e a ogni atto percettivo, ogni volta che la si vede, rimanda al significato relazionale iniziale. Come mi dice Marco, dimostrando una consapevolezza approfondita – più o meno ingenua – di questo meccanismo, “eh... siamo amici e ci scriviamo”, intendendo “ci scriviamo addosso”, “ci scarabocchiamo a vicenda sulla pelle”.  

Il disegno sulla pelle funziona qui sia come mezzo di relazione interna al gruppo che di identificazione dall'esterno. Il gruppo di amici si presenta spesso come gruppo di gioco, cioè di bambini che condividono la partecipazione alla medesima attività ludica che non solo presuppone l'esistenza di legami amicali precedenti, ma che contribuisce a stabilirli. Una mattina, durante un momento di gioco libero, un gruppo di bambini radunati in un angolo dell'aula della scuola dell'infanzia stava litigando abbastanza rumorosamente.

 

Avvicinandomi ho capito che il motivo della discussione era il rifiuto da parte di uno di loro di farsi disegnare sul braccio un orologio, mentre tutti gli altri avevano questo disegno sul polso. Evidentemente, questo rifiuto di “marcarsi” come il resto del gruppo di gioco poneva il bambino in questione al di fuori del gruppo di amici. Parlando con quello che rimproverava più animatamente il bambino reticente, mi è stato detto senza mezzi termini che “è uno stupido perché non vuole l'orologio”. Questa dichiarazione di Momi trova una significativa connessione analogica con un passo tratto da Claude Lévi-Strauss riguardo alle pitture corporali in uso presso i Caduveo del Mato Grosso: “fra gli antichi Caduveo, il missionario gesuita Sanchez Labrador ha descritto la gravità appassionata con la quale gli indigeni dedicavano intere giornate a farsi dipingere; chi non è dipinto, dicevano, è “stupido””. Per i Caduveo chi non è dipinto è “stupido” perché rifiuta di iscrivere sulla propria pelle la propria appartenenza al gruppo e la sua tradizione, rifiuta l'ingresso compiuto nella condizione umana distinguendosi dagli altri, i non-umani. In termini lévi-straussiani, la pittura del corpo segnala il passaggio dallo stato di natura alla cultura: “bisognava dipingersi per essere uomini; colui che restava allo stato naturale non si distingueva dal bruto”. Dalla mia esperienza di ricerca nella classe di bambini emerge che Momi e il suo compagno riluttante giocavano spesso insieme; e credo che l'animosità con cui Momi invita l'altro a farsi disegnare l'orologio nasca proprio dallo scontro tra la consapevolezza della relazione di amicizia pregressa e l'attuale ritrosia a far parte del gruppo di gioco e quindi di inscriversi la marca della relazione sociale. Diventa così un amico che in questo momento non accetta lo stabilirsi e la riproduzione del legame, e la sua rappresentazione visibile. È “stupido” perché non vuole inserirsi e portare i segni di un gruppo del quale, secondo Momi, egli dovrebbe far parte di diritto.

 

Nella classe dei bambini di tre anni ho registrato un episodio simile. Un gruppo di quattro bambine si disegnano a vicenda una moltitudine di puntini sugli avambracci. La maestra interviene subito nel modo consueto raccomandando di disegnare sulla carta e non sulla pelle: “Ragazze, basta! Non ci si disegna addosso, si disegna sui fogli!”. Una delle bambine, quasi per giustificarsi, le risponde: “Ma non stiamo disegnando, ci stiamo puntando... perché abbiamo la malattia...” Le altre annuiscono e tornano a “puntarsi” l'un l'altra. Qui l'uso del disegno diventa un modo per cambiare lo stato del soggetto all'interno del mondo costruito dal gioco. Se il gioco è essere malati, allora “puntandosi” ci si ammala, simulando le papule di una malattia esantematica. La manipolazione del corpo attraverso il disegno, in questo caso, è la porta d'ingresso nel gruppo di gioco e nel mondo ludico creato dal bellissimo uso dell'imperfetto da parte dei bambini, il “facciamo che eravamo malate”. Un mondo che esploreremo in dettaglio nel prossimo capitolo.

 

Nel suo volume dedicato ai tatuaggi polinesiani, Alfred Gell sottolinea come “la pelle sociale è il supporto o il veicolo per l'espressione delle relazioni sociali […] un modo di creare ed evidenziare le differenze sociali, stabilendo identità sociali”.  Trasportato nel frenetico mondo sociale dei bambini, il carattere temporaneo dei disegni corporali, che scompaiono dopo poche passate di detergente, riflette perfettamente le dinamiche dei gruppi di gioco che si aggregano e disgregano continuamente. Ma, a ben vedere, l'alone dell'inchiostro rimane, come permangono i seppur mutevoli legami amicali.

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Perché non esistono uomini verdi o blu?

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Non ho mai pensato seriamente che i cinesi fossero gialli, cioè: sì, l'ho pensato da sempre, così come noi siamo bianchi. Per i neri non ci sono dubbi: qualcuno di veramente nero l'ho incontrato, lo si usa nei negozi delle firme internazionali; mia figlia è sobbalzata quando si è mosso e abbiamo riso tutti e tre. Di rossi invece non ne ho mai visti, però i pellerossa si dovranno pur chiamare così per un qualche motivo... Qualcuno deve avercelo raccontato; ricordo vagamente una lezione alle elementari.

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