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Ora che Dio è morto, che ne è del Mondo?

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Inizio a leggere alle sette del mattino, mentre attendo, in una corsia d'ospedale, la visita medica di una persona cara. Il testo è soffocante, soprattutto se ti sei alzato alle 5 e non hai trovato neppure un caffè aperto. Immediatamente ricordo la stessa sensazione di fronte a Diario di Hiroshima, di Michihiko Hachiya, il medico che racconta lo scenario post-apocalittico della bomba atomica; forse per associazione con la squallida corsia d'ospedale. 

La lettura si fa pesante, pure devo rimanere là, incollato al testo, finché la persona che ho accompagnato non esce dall'ambulatorio, ho bisogno di sentire quel senso di oppressione. Si tratta di un libro sulla fine del mondo, provo a trovare respiro nel ricordo dei miei studi giovanili. 

 

Nel 1977 esce La fine del Mondo, libro postumo dell'antropologo italiano Ernesto De Martino. Il libro è pubblicato a sette anni dalla morte dell'autore, quando, per l'antropologo napoletano, la fine del mondo era già da tempo accaduta. Il sottotitolo di quegli appunti, che avrebbero dovuto costituire l'impalcatura di un lavoro futuro, è Contributo all'analisi delle apocalissi culturali. Un anno prima di morire De Martino aveva già scritto un saggio dal titolo: Apocalissi culturali e psicopatologiche sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964.

 

Il caso della Fine del Mondoè un'ironia, un libro sulla fine del mondo pubblicato post-mortem, ma oggi, secondo Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro, la fine del mondo sembra assumere un significato differente. Da sempre si sente parlare della fine del mondo, annuncio millenarista, memento mori, profezia cosmologica, astrologica, ipotesi geofisica formulata da molti anni, connessa con l'ipotesi della costituzione del mondo. Qualcosa che accade all'umanità dall'esterno, per una volontà trascendente o per una transazione geologica. 

Si è parlato a lungo anche della morte di Dio, come nel noto aforisma della Gaia scienza, in cui il folle di Nietzsche annichilisce gli uomini del mercato con l'affermazione perentoria: “Lo abbiamo ucciso noi, io e voi!”.

 

Ebbene oggi siamo di fronte allo stesso dilemma riguardo alla fine del mondo. Ora che Dio è morto, che ne è del Mondo? Al libro aggiungerei un capitolo su Cassandra e l'avvento della catastrofe su homo demens. Da sempre, di fronte al possibile avvento di una catastrofe ci si divide in due gruppi: quelli che la considerano un fenomeno di poco conto (alla stregua degli uragani che devastano e passano) e quelli che la considerano un fenomeno epocale, accusati di esagerazione o di paranoia. Tra gli esseri umani che praticano attivamente la catastrofe ci sono coloro che lo fanno con un proposito cosciente – come nel caso della Shoah, dello sterminio degli Armeni, delle stragi praticate dagli Khmer rossi – e coloro che lo fanno in modo inconscio, come nel genocidio degli indiani delle Americhe o nel colonialismo. Nel primo caso la finalità distruttiva è praticata con proposito, qualcuno ha definito queste operazioni umane come “male assoluto”; nel secondo caso il proposito cosciente è il progresso, lo sviluppo, la crescita, che, come osservò nel 1968 Gregory Bateson, porta con sé distruzione ecologica.

 

Illustrazione di Andrew Archer.


Il problema contemporaneo sembra essere Gaia. La trasformazione della Gaia scienza in scienza di Gaia ci mette di fronte a una nuova istanza che riguarda la finitudine: la mia fine potrebbe coincidere con la fine del mondo, non più in senso soggettivo, ma in senso oggettivo: non si tratta della mia fine in Gaia, bensì della nostra fine “consustanziale” alla fine di Gaia: “l'«intrusione» nella nostra storia di un tipo di «trascendenza»” (p. 233). Gaia dunque sarebbe il nome di un evento, un'intrusione nella storia della natura, qui gli autori si riferiscono alla filosofa belga Isabelle Stengers. Si tratta di pensare il “fuori”, un mondo senza pensiero, un'irruzione dall'esterno, una fine della storia. I dati che forniscono gli autori sono molteplici e ben documentati: esplosioni atomiche, riscaldamento del pianeta, accelerazione delle mutazioni e dei cambiamenti conseguenti alle tecnologie umane. Insomma, se fino ad alcuni anni fa si pensava la fine del mondo come un evento “esterno”, oggi si tratta di pensarla come un evento interno, che ci riguarda direttamente, che potrebbe accadere di qui a pochi anni e, quel che più conta, che abbiamo prodotto noi umani. Un passaggio dal “si” al “noi”. O, per usare il linguaggio della clinica psicologica, dall'Es all'Ego. Aggiungerei dall'Es al Super-Ego. Questo movimento progressista e di sviluppo, che caratterizza il “periodo in cui il tempo è fuori sesto e scorre sempre più rapidamente”, si chiama Antropocene. Cos'è dunque l'Antropocene? “È l'epoca in cui la geologia entra in risonanza geologica con la morale, così come avevano profetizzato i celebri visionari Gilles Deleuze e Felix Guattari” (p. 46).

 

L'Antropocene sembra essere iniziato con la rivoluzione industriale: “Si pensava che l'edificio avrebbe tenuto in virtù del pianterreno, l'economia, ma ci siamo dimenticati delle fondamenta” (p. 46). La rivoluzione industriale porta con sé il modo di pensare illuminista, dal quale emerge che l'ipotesi della fine del mondo possa essere una realtà assai lontana, certamente preceduta dall'estinzione di homo sapiens, anch'essa da pensare in un avvenire indefinito, meno lontano della fine del mondo, ma comunque assai lontano. A questo modo di pensare sembra sfuggire come “l'umanità stessa sia una catastrofe, un evento improvviso e devastante nella storia del pianeta”.

 

Le apocalissi culturali e psicopatologiche di cui parlava Ernesto De Martino erano la descrizione di un mondo pre-moderno, un mondo contadino dove l'unità mistica tra il soggetto umano e l'oggetto naturale creavano un senso della finitudine inteso come unità indivisibile. L'uomo era parte della natura e i rituali esorcizzavano la fine del mondo, riproducevano una nuova unione in vista della fine, come per allontanarne l'apparizione, anno dopo anno, stagione dopo stagione. La Taranta di Galatina, dove la tarantola morde la spigolatrice scalza, era il luogo di osservazione privilegiato di De Martino. Decine di donne, ogni anno, cadevano in trance sentendo il rimorso (l'essere morse di nuovo dal ragno) di un rapporto tra loro e la terra (la terra del rimorso). Si tratta di un esempio da cui De Martino – coadiuvato dalle osservazioni cliniche di Michele Risso e Letizia Comba – trae riflessioni sulla presenza costante della fine del mondo nella vita contadina del Sud Italia: la distruzione del raccolto, le epidemie, i deliri, la morte precoce dei familiari, i dissidi interni alla comunità.

 

Oggi questo mondo non esiste più e anche i rituali che lo accompagnano sono finiti. Ogni forma di radicalismo, compreso quel radicalismo scientista e arrogante che domina le nostre università, ci sta conducendo verso la fine del mondo. Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro chiudono il loro libro con un'interrogazione di Isabelle Stengers: "Fino a quando saremo infestati dal modello ideale di un sapere razionale, oggettivo, suscettibile di mettere d'accordo tutti i popoli della Terra, resteremo incapaci di stabilire con questi altri popoli dei rapporti degni di tale nome". (Isabella Stengers, citata dagli autori, p. 236).

 

Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo 2017.

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Infestati dal modello ideale di un sapere razionale

Pedofilia

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Confesso di aver paura di scrivere o parlare di pedofilia – oggi, è come attraversare un campo minato. Il vespaio provocato dal romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete che desidera i bambini ma casto, mostra bene che la pedofilia tocca certi nostri nervi scoperti.

Siti in un’intervista (“Il caso Siti”, La Repubblica, 20 aprile 2017) si è sbagliato quando ha detto che desiderare i bambini senza farci nulla non è reato. Invece, si incrimina qualcuno anche solamente per aver visitato siti pedopornografici. Non solo gli atti pedofili, ma il desiderio pedofilo in sé oggi è criminalizzato. Come il decimo comandamento, il solo che proibisca un desiderio – dei beni altrui, compresa la donna altrui.

 

Anni fa una rivista di psicoanalisi mi chiese un intervento sulla pedofilia, e io scrissi un saggio in cui esaminavo alcuni casi di pedofilia presi dalla letteratura clinica. Con mia sorpresa il saggio fu rifiutato; il compianto amico Pietro Barcellona, membro della redazione, mi disse che quel mio scritto era apparso una lancia spezzata a favore dei pedofili. Caddi dalle nuvole. Il mio pezzo, almeno così credevo, era un’analisi scientifica, cioè distaccata, del mondo mentale pedofilico, senza una minima intenzione di apologia. Eppure, quel mio articolo è uno dei pochissimi, tra i tanti da me scritti, che nessuno abbia voluto pubblicare. In effetti, articoli anche di genere scientifico iniziavano con un anatema contro il flagello della pedofilia, con una denuncia di una quasi-cospirazione mondiale dei pedofili, ecc. Il mio saggio mancava di questo preambolo, forse perciò era apparso compiacente nei confronti della pedofilia.

 

Perciò tengo a informare prima di tutto il lettore di due cose: 1) non sono pedofilo; 2) ritengo giusto che la legge punisca l’adulto che indulga ad atti sessuali con bambini. Spero che, detto questo, io possa esprimere impunemente la mia idea.

Appunto, quel che mi sembra importante analizzare è proprio questa nostra esacerbata reattività quando si parla di pedofilia. Perché non è stato sempre così. Quando alla fine del XIX° secolo nacque la sessuologia medica, e Krafft-Ebing, Havelock Ellis e altri descrissero le perversioni – oggi chiamate parafilie – la pedofilia vi svolgeva un ruolo alquanto marginale. I medici europei di allora erano ossessionati piuttosto dall’omosessualità e dalla masturbazione. L’omosessualità era descritta come la peggiore perversione, del resto era perseguita penalmente in molti paesi (ma – questo lo si ignora – non in Italia, paese sempre permissivo nei confronti degli omosessuali). Gli omosessuali erano perseguitati in modo triplice: come peccatori dalle chiese, come malati mentali dagli psichiatri, e come delinquenti dallo stato. Quanto alla masturbazione, specialmente quella infantile, veniva denunciata come causa di terribili disturbi mentali e sessuali. I medici di allora ricorrevano a strumenti inquietanti per combattere “la peste onanista”, come corsetti antimasturbatori, astucci da erezioni, macchinari per allargare le gambe delle bambine, manette per le mani, addirittura cauterizzazione della clitoride, e altri sistemi sado-medici. All’inverso, si parlava e si scriveva ben poco di pedofilia. In sintonia con una certa omertà della popolazione nei confronti dei pedofili, soprattutto di quelli ecclesiastici, fino a pochi decenni fa.

 

Mio padre, professore di filosofia nato nel 1916, aveva studiato a Napoli in scuole di barnabiti e gesuiti, cosa che aveva prodotto in lui un desiderio di sacerdozio. Eppure ogni tanto alludeva a preti chiaramente pedofili; mi disse che un nostro caro amico di famiglia, una persona molto fragile, da ragazzo aveva accettato una relazione con un prete pedofilo. Mi disse che anche lui era stato oggetto di attenzioni, che aveva respinto. Apparirà oggi stupefacente che poi lui stesso mi mandasse a 15 anni a studiare dai barnabiti, a Napoli, istituto Bianchi, per due anni. E là alcuni compagni mi indicarono a dito i due o tre monaci “pericolosi”, dai quali stare alla larga.

Una volta un barnabita che non avevo mai visto, un uomo magro sulla trentina, mi dette appuntamento per parlarmi; evidentemente era il sacerdote incaricato della consulenza spirituale dei giovani allievi, tutti maschi. La sera mi recai al Bianchi. Attraversai lunghi corridoi bui con grandi finestroni, senza incontrare anima viva; quindi giunsi nella camera di questo sacerdote, anch’essa alquanto spettrale. Mi fece sedere di fronte a sé, molto vicino, la sua bocca quasi mi alitava in faccia, e mi prese una mano. Ricordo le sue mani fredde, i suoi grandi occhiali, il volto ossuto, la voce felpata e vischiosa. Senza andare troppo per le lunghe, mi chiese se avevo avuto polluzioni, se mi toccavo… mentre mi guardava fisso negli occhi come a volermi trivellare l’anima. Capii che dovevo tagliare la corda, difatti, senza rispondere alle sue domande, trovai una scusa e me ne andai.

 

Non so se quel tutore spirituale volesse sedurmi sessualmente, ma considero la sua lubrica curiosità sulla mia aurorale vita sessuale come già di per sé un attentato pedofilo. Era evidente che godeva nello strappare il velo di pudore degli adolescenti, nel penetrare anche solo verbalmente la loro intimità. Fu così che trovai del tutto pertinente la tesi che, molti anni dopo, Michel Foucault espresse in La volontà di sapere: che il nostro moderno interesse per il sesso, lungi dall’essere una novità rivoluzionaria, eredita una lunga tradizione, non solo cattolica, di investigazione della libido, di confessioni balbettanti, di puntiglioso smascheramento delle nostre fragilità sessuali.

 

 

Come mostra il film Spotlight di Tom McCarthy, quando il giornale The Boston Globe lanciò un’inchiesta sui preti pedofili ruppe un muro del silenzio. Ma questo muro non era stato alzato solo dalle alte gerarchie cattoliche, era mantenuto e rafforzato dalle stesse famiglie, non diversamente da quel che accadeva nella Napoli degli anni ’50 e ’60. D’un tratto, qualcosa che tutti sapevano ma di cui non si poteva parlare in pubblico, e che andava accettato come fosse un dato di natura, come i freddi invernali e la canicola estiva, veniva immesso nel discorso pubblico come oggetto di denuncia. Un cambio di discorso. O, come si dice in filosofia della scienza, un cambio di paradigma.

 

Sin dalla seconda metà degli anni ‘80 il mondo anglo-americano, pur dominato dall'apologia reaganiano-thatcheriana dei valori familiari, fu scosso dalla campagna contro il child abuse. D'un tratto un'intera società alzò un velo sulla privacy propria e altrui, e si convinse che una quota ingente di famiglie – anche insospettabili – praticava correntemente l'incesto e la violenza sui figli piccoli. Questo ciclone ha fatto breccia nella pedagogia, nella critica letteraria, nella psichiatria, nel cinema, ecc. Vi ricordate che per molti anni in tanti film americani i protagonisti prima o poi evocavano violenze o molestie subìte nell'infanzia, a opera di parenti o vicini? Se qualche personaggio rivelava turbe psichiche, potevate essere certi che prima o poi spuntava qualche abuso sessuale patito nell’infanzia. La psichiatria si convinse del valore patogeno del trauma, e il trauma per lo più erano abusi sessuali. Non si contavano i biografi di scrittori, artisti, politici, musicisti, ecc., che ricostruivano qualche violenza, o gioco erotico, di cui le suddette celebrità sarebbero state oggetto da bambini, come esperienze cruciali della loro vita. In Italia si dice "i panni sporchi si lavano in famiglia", invece nel mondo anglo-americano si andavano e si vanno a cercare prima di tutto i panni sporchi delle famiglie per esibirli in pubblico. La denuncia della pedofilia fu all’inizio una denuncia degli scheletri negli armadi delle rispettabili famiglie middle class. Poi il faro dell’attenzione si è spostato sui preti e sul “potere pedofilo”.

 

Eppure questa ricerca del parente pedofilo aveva orli paranoidi. Ho vissuto spesso negli Stati Uniti negli anni ‘90, e mi resi conto che in tante famiglie dei miei amici erano state sporte denunce per pedofilia da parte di figli o nipoti nei confronti di genitori, zii o nonni. Una febbre querelante, dove era difficile separare il delirio dalla rimemorazione di eventi reali, sconvolse le famiglie statunitensi. Se un americano soffriva di qualche malessere spirituale, si lambiccava il cervello per ritrovare nella propria lontana memoria situazioni e atti incestuosi, e di solito li trovava, perché spesso è difficile stabilire una linea di demarcazione netta tra l’abbraccio affettuoso e quello eroticamente stimolante.

 

Ha colto qualcosa di questo il regista danese Thomas Vinterberg. Nel 1998 Vinterberg diresse un film, Festen, in cui a una festa di famiglia ricca uno dei figli denuncia drammaticamente il padre-padrone per aver abusato sessualmente di lui e della sorella, morta suicida, quando erano piccoli. Era chiaramente una critica in chiave “di sinistra” della pedofilia familista, dove il pedofilo coincideva non solo col padre, ma anche con “il capitalista”.

 

Fotogramma tratto da Festen (1998), T. Vinterberg.

 

Poi nel 2012 Vinterberg produce Jagten, “Caccia”, distribuito in Italia col titolo fuorviante Il sospetto; mentre si tratta propriamente di caccia, di caccia al pedofilo. Un giovane maestro di asilo in un villaggio danese viene accusato (noi spettatori sappiamo ingiustamente) di aver sedotto sessualmente una bambina sua allieva. Il villaggio non è garantista, per cui tutti sono convinti che il maestro sia un pedofilo e perseguitano lui e il figlio adolescente. Poi il maestro viene scagionato dal giudice, ma questo non basta: egli continua a essere oggetto di violenze e ostracismi. Col tempo, tutto sembra calmarsi, il risentimento pare archiviato. Ma un giorno, durante una partita di caccia con amici, qualcuno che non vediamo spara addosso al maestro, mancandolo. Insomma, “il villaggio” continua a vederlo come un pedofilo, anche se è stato prosciolto da ogni accusa. Quel che Vinterberg coglie è insomma un bisogno collettivo di avere un pedofilo da perseguitare. Un paradossale desiderio di pedofili. Siamo nella logica del capro espiatorio, su cui tanto si è scritto. Così, la psicosi della pedofilia si è diffusa anche nel mondo carcerario e tra la criminalità. I condannati per pedofilia non possono essere messi in cella con i detenuti “normali”, altrimenti verrebbero sicuramente uccisi. Mentre un compagno di cella che ha ucciso più persone viene accettato.

 

Nel film di Vinterberg si tratta di fiction, ma storie analoghe sono accadute realmente in molti paesi. In Italia avemmo il caso inquietante di Rignano Flaminio: in questa tranquilla cittadina a nord di Roma, nel 2007, quattro insegnanti, tutte donne, della scuola materna locale e un autore televisivo furono accusati di praticare orge sessuali con alcuni piccoli allievi. Molti media parlarono di loro come di “orchi”, anche se sin dal primo giorno non ho mai creduto in una storia così assurda: possibile che quattro maestre tutte pedofile si ritrovassero guarda caso nella stessa scuola e portassero fuori dell’edificio scolastico dei bambini senza che nessuno se ne accorgesse? Sembrava una storia di caccia alle streghe del Rinascimento (anche allora, contrariamente a quel che si pensa, l’Inquisizione perseguiva donne che venivano denunciate “dal basso”, attraverso la vox populi, come streghe). In seguito tutti gli accusati sono stati assolti e le accuse archiviate, ma non c’era bisogno di aspettare quelle sentenze per rendersi conto che si trattava di un delirio collettivo. Una persecuzione come quella delle streghe di Salem nel Massachusetts, nel 1692, potrebbe ripetersi anche domani, qui in Italia; e le “streghe” sarebbero ovviamente delle pedofile.

 

Come spiegare questo orrore per il pedofilo, ambiguo perché esprime il desiderio di averne uno da perseguitare? Alcuni sostengono che esso è il segno di una nostra maggiore sensibilità al mondo infantile, che insomma oggi i genitori sono molto più attenti nei confronti dei figli. Dovremmo rallegrarci del fatto che finalmente la nostra società si sia accorta di qualcosa che pur esiste da che mondo è mondo, e cioè che i bambini vengono picchiati, i padri vanno a letto con le figlie e i fratelli con le sorelline, e alcuni preti seducono ragazzi e ragazze.

Non a caso, si dice, nelle società industriali avanzate facciamo sempre meno figli: anziché disperdere le cure e l’eventuale patrimonio tra tanti figli, preferiamo concentrare cure ed eredità su uno o due figli. Viviamo in una società dove il bambino è sempre più importante, da qui la tendenza – soprattutto italiana – a permettergli tutto. La psicosi del pedofilo sarebbe solo un corollario della venerazione per quello che Freud chiamava “Sua Maestà il bambino”.

Ma qualcun altro non la pensa così.

 

Mi colpì un episodio, letto sui giornali qualche anno fa. In una cittadina inglese si diffuse l’idea che ci fosse in giro un pedofilo. Una banda di uomini alticci andò in giro per la città, di notte, con una maledetta voglia di picchiarne uno. Videro una porta con su scritto “Paediatrician” e presero la scritta per “Pedophile” – devastarono lo studio della pediatra. Ora, quel che mi colpisce non è solo l’idea assurda che un pedofilo possa mettere una targhetta qualificandosi come tale, ma anche che, in vino veritas, si sia punita una persona che cura i bambini, non che li violenta. È una specie di lapsus freudiano, che andrebbe interpretato.

 

Emerge insomma un’ambivalenza nei confronti del bambino che andrebbe esaminata con attenzione. Come ha mostrato bene lo storico Philippe Ariès nel libro Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza, 1981), l’infanzia non è sempre esistita; la “scoperta” dell’infanzia è un evento relativamente recente, che risale al XVI° secolo; prima i piccoli d’uomo erano visti altrimenti. Insomma, ogni epoca ha un diverso sentimento dell’infanzia, ogni società la tratta, la veste, la educa, la ama, la detesta in modi diversi. Dovremmo chiederci quale sia il nostro modo attuale.

 

 

Mi pare che oggi trattiamo l’infanzia in una maniera che parrebbe del tutto opposta a quella che l’angoscia del pedofilo farebbe supporre. Ovvero, aboliamo sempre più la differenza tra i bambini e noi, soprattutto per quel che riguarda la sessualità. Innanzitutto vestiamo i bambini sempre più come noi adulti. Il successo della Barbie – attraverso i giocattoli gli adulti plasmano la mente dei loro bambini – la dice lunga: si propone alle bambine come ideale non una bambola-bambina, ma una ragazza alta e magra, quasi anoressica, bionda, modello scandinavo, vestita sportivamente… La Barbie ha imposto alle bambine il paradigma della donna moderna. Quanto poi alle altre bambole alternative alla Barbie, come Bratz, mi sembra che esaltino la figura della adolescente sexy e alla moda che va in discoteca. E non dobbiamo più dare scappellotti ai nostri bambini, proprio perché non li diamo agli adulti.

 

Il sesso viene insegnato nelle scuole, ovvero vogliamo che i nostri bambini sappiano sulla sessualità e sulla nascita più o meno le stesse cose che sappiamo noi. Favole come la cicogna o i bambini sotto i cavoli sono derise e vituperate. Inoltre esponiamo sempre più i bambini a immagini sessuali, attraverso la televisione, i rotocalchi, i film; questo spiegherebbe tra l’altro la tendenza delle bambine occidentali ad anticipare sempre più la loro pubertà. L’esposizione a scene erotiche ha l’effetto, pare, di affrettare il primo ciclo estrale. Aggiungiamo che la verginità non è più considerata un valore, così che se una ragazza perde la verginità a tredici anni, i genitori ormai non se ne preoccupano più di tanto. Evidentemente la teoria di Freud – che ha svelato un segreto di Pulcinella, il fatto che i bambini abbiano impulsi sessuali, cosa che ogni madre e padre e baby sitter sa – è stata assorbita dalla nostra cultura, per cui non reprimiamo più atti sessuali tra bambini. Certo non proibiamo più la masturbazione. Insomma, la barriera tra il mondo infantile e quello adulto – che era enorme ancora nella mia infanzia, anni ’50 – è caduta. Assieme al femminismo, che ha realizzato un’ampia omologia tra uomini e donne, un tacito bambinismo ha omologato sempre più bambini e adulti. Come si spiega allora questo accanimento anti-pedofili? Non contraddice la nostra tendenza a secolarizzare l’infanzia, ovvero a de-sacralizzarla?

 

Probabilmente proprio questa caduta della barriera bambini/adulti ha riaperto un vasto campo di tentazioni in molti: siccome i bambini sono “come noi”, perché non avere giochi sessuali con loro? Ci sono impulsi pedofili in moltissime persone, anche se sono repressi dalla nostra etica sessuale. La secolarizzazione dell’infanzia fa affiorare questi impulsi, da qui il terrore di esternarli. L’orrore per i pedofili – per coloro che non resistono a questi impulsi – va allora letto come un orrore per la propria stessa pedofilia. Il pedofilo funziona allora come capro espiatorio su cui delegare il proprio interesse morboso per i bambini. Come nel film di Vinterberg o a Rignano Flaminio, si ha bisogno di un pedofilo, anche se inventato, per incarnare in un altro le proprie tentazioni. È l’eterno ritorno della lettera scarlatta di Hawthorne: il pastore che perseguita la donna peccatrice è proprio colui che l’ha resa peccatrice.

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Dalla "scoperta dell'infanzia" all'infanzia oggi

Elogio dell’Occidente

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Franco La Cecla ama provocare e spesso lo fa in modo intelligente e originale. Lo aveva già fatto in Contro l’architettura, lui, architetto di formazione, scagliandosi contro le cosiddette “archistar”. Questa volta il percorso controcorrente lo ha portato a criticare le critiche che spesso vengono mosse, proprio dagli occidentali, e in particolare dagli antropologi, categoria di cui l’autore fa parte, all’Occidente stesso. Una delle caratteristiche del sapere antropologico è di fondarsi su un approccio relativistico, che non solo ha portato a dare pari dignità a tutte le culture espresse dalle diverse società umane, ma che spesso ha messo sotto accusa l’etnocentrismo e in particolare quello occidentale.

 

Pur non essendo una specificità dell’Occidente, l’etnocentrismo di questa parte di mondo è però quello che, almeno in epoca moderna, ha condizionato in modo più pesante il resto del pianeta. In un suo libretto del 1953 dal titolo Il mondo e l’Occidente lo storico inglese Arnold Toynbee scriveva: «Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è stato duramente colpito dall’Occidente (…) L’Occidente è stato l’aggressore capitale dei tempi moderni, e ciascuno gli potrà rinfacciare la propria esperienza di tale aggressione».

La Cecla non è del tutto d’accordo. Denuncia le colpe dell’Occidente, sia ben chiaro, ma ci avverte: attenzione, non dimentichiamone le conquiste. L’autore denuncia una certa attitudine di molti studiosi occidentali a manifestare una sorta di sentimento di odio nei confronti del proprio continente, inteso in senso culturale. Un atteggiamento che sembrerebbe portare a gettare via il bambino con l’acqua sporca. L’esotismo, altra malattia infantile del pensiero occidentale, conduce a volte anche molti antropologi a dimostrare una certa caritatevolezza nei confronti di altre culture, che vengono così ammantate di un’aura romantica, fingendo spesso di non vederne le contraddizioni o gli aspetti meno edificanti.

Il percorso dell’autore si sviluppa partendo ora da episodi personali, ora da considerazioni generali di carattere storico, antropologico, politico.

 

Ph Michael Wolf.


Non a caso La Cecla inizia il suo cammino partendo dall’India, che ha occupato e occupa ancora un posto di primo piano nell’immaginario esotico occidentale e ricorda, attraverso le parole di Jawaharlal Nehru, Gandhi e di scrittori contemporanei come Amitav Gosh e Dipesh Chakrabarty, come la cultura indiana abbia anche creato una rigida gerarchia castale, i roghi delle vedove sulla pira del marito defunto e spesso condizioni drammatiche di vita per il popolo indiano.

La Cecla è troppo acuto e sensibile per dimenticare i danni fatti dal colonialismo inglese e non solo, ma punta tutto su una parola: “nonostante”. Parte da un’idea, che può anche apparire un po’ cinica, ma senza dubbio realistica: non viviamo in un mondo perfetto e facendoci largo nella selva delle cose criticabili, cerchiamo di salvare quanto di buono è stato prodotto. E l’Occidente, secondo l’autore, nonostante la sua lunga storia di fallimenti, nefandezze e prevaricazioni, avrebbe gettato le fondamenta di principi universali come la libertà individuale, il diritto e la separazione tra religione e politica.

I trentacinque capitoli, che sembrano le tessere di un mosaico, poco a poco vanno a formare l’immagine, non certo perfetta, di una parte di mondo in cui, “nonostante” i gravi errori, c’è molto da salvare e da difendere e sarebbero queste caratteristiche ad attirare molti migranti verso l’Europa.

Forse questa posizione potrebbe essere discussa e a mio parere è più il sogno di un riscatto economico a muovere migliaia di esseri umani, che non un modello culturale, ma non dimentichiamo che le due cose non sono disgiunte.

 

L’invito che percorre tutto il libro è di provare a guardare all’Occidente, non solo dal suo interno, ma dal di fuori, insieme al resto del mondo e di tentare di cogliere i tratti migliori di ogni parte dell’umanità. A questo si potrebbe obiettare che non tutti potrebbero riconoscere l’universalità di certi valori, ma senza dubbio è uno sforzo che va fatto. Correndo sempre sul filo della lama, La Cecla si sposta in diverse parti del mondo, dalla medina di Tunisi, ai monti del Caucaso, dall’India alla Cina, proprio per guardare a noi con sguardi incrociati. Il risultato è convincente, nonostante qualche leggero scivolone, come quando afferma che l’India sarebbe un paese autoreferenziale, stupendosi della scarsa conoscenza di una regista indiana di Caravaggio e della pittura italiana. Quanti registi italiani o europei conoscono pittori o musicisti indiani del passato?

 

Il profondo sapere antropologico (e non solo) di La Cecla ci porta però a una visione più ampia e profonda, che finisce con l’interrogarsi sull’Europa di oggi, sulla crisi del modello capitalistico-finanziario, rispetto alla quale uno sguardo più allargato risulterebbe sicuramente utile. Anche per ricuperare quel sapere occidentale da salvare, provando a ri-separare l’apparato politico-militare-finanziario dell'Occidente dalla sua, per usare parole dell’autore, «costellazione culturale e deposito di umana esperienza».

Sarà l’immigrazione che ci salverà? Forse sì, se l’Europa, unita, saprà ritrovare e mettere in pratica quei valori che ha prodotto e di cui non sempre deve avere paura.

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Serie mondo

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In modo sempre più decisivo la serialità televisiva sta condizionando lo sviluppo, la storia e le prospettive del mondo audiovisivo, tanto sotto il profilo industriale quanto sotto quello artistico. Nell’acceso dibattito sul tema della serialità, continuamente si sente parlare di un presunto superamento della sperequazione tra televisione e cinema, nel solco di un incrocio tra le grammatiche specifiche di ciascun linguaggio. Ciò da un lato condurrebbe la televisione, classicamente votata a una sintassi semplice e rassicurante, a sperimentare modalità di racconto nuove e più complesse; dall’altro il cinema a raccogliere le istanze del miglior racconto seriale (la coralità o l’arco di trasformazione dei protagonisti, per dirne alcune). Impossibile escludere questa comunicazione tra i due linguaggi, tant’è che uno dei più forti segnali che il cinema recente sembra aver recepito dalla televisione, in Italia almeno, è stato il “recupero” dei generi.

 

Tuttavia, per interrogarsi sullo specifico seriale contemporaneo, appare necessario sganciarsi dall’onnipresente paragone con il cinema.

Ecco perché una possibile direzione di indagine per cogliere lo spazio verso cui si muovono i racconti seriali di oggi potrebbe essere presa in prestito non dagli studi sul cinema, ma dalla teoria letteraria. Prendendo in carico la nozione di opera mondo, proveremo a cartografare il territorio seriale per scoprire in che senso, nonostante l’eco “spaziale” che risuona nel concetto di opera mondo, la chiave di volta delle serie tv stia nel rapporto che esse intrattengono con il tempo.

 

Cosmogonie

In un testo classico degli studi di letteratura comparatistica, Opere mondo (Einaudi, Torino 1994), Franco Moretti faceva il punto su una serie di opere che occupano un posto speciale nella storia della letteratura e condividono alcune caratteristiche che le riconducono a quella che lo studioso definisce “epica moderna”: sono opere totali, frammentarie, interminabili, solcate da digressioni, stratificate, plurali, universali. Più recentemente, Stefano Ercolino ha ripreso alcuni spunti di questa riflessione per definire un certo tipo di oggetto letterario che chiama “romanzo massimalista” (Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015): libri ipertrofici, lunghi, corali, dissonanti, olistici che sono comparsi nella seconda metà del Novecento e hanno cambiato la letteratura contemporanea, da David Foster Wallace a Thomas Pynchon, da Roberto Bolaño a Don De Lillo. Al netto delle differenze tra queste due teorie, resta il fatto che entrambe individuino un filone di opere la cui specificità è l’incontenibilità, l’intertestualità, la forza pletorica con la quale dispiegano mondi.

 

Ma in che modo tale caratteristica può rivelarsi calzante rispetto alla struttura del formato seriale?

Le serie tv contemporanee sembrano essere costitutivamente disposte alla costruzione non già di racconti, quanto piuttosto di interi universi narrativi: la serie istituisce un mondo che è come un orizzonte di senso, una materia viva ma indistinta dalla quale, di volta in volta, prendono forma le varie storie che vediamo sullo schermo.

 

Ogni storia seriale ha infatti il suo doppio, la sua ombra, il suo complemento, in quelle che simultaneamente non vengono raccontate. Esse, però, questo sembra dirci la serialità, possono essere raccontate. La coralità è un artificio che ha le sue misure, simmetrica in Game of Thrones, in cui si stenta a riconoscere i diversi pesi narrativi; frustrante in certi tratti di The Walking Dead, in cui ci si dilunga su vicende secondarie, mentre altrove, fuoricampo, ci sono chiari portatori della storia a cui lo spettatore attende di potersi rivolgere (e a volte l’attesa dura intere settimane). Quel fuoricampo non è però messo a tacere durante la visione, anzi per le regole del gioco della fruizione vive, lontano, silenzioso, ma lo spettatore sa che vive, sa che nel frattempo, altrove, gli altri attori della storia stanno affrontando la loro avventura.

 

Tuttavia, per quanto il dispositivo seriale ci illuda di funzionare indipendentemente dal nostro ruolo di spettatori, esso ci convoca continuamente a metterci in gioco. La tensione paradossale di cui si alimenta il seriale è questa spinta con la quale dichiara insieme un ordine del discorso che non è per noi (la serie si “limita” a generare mondi) e che tuttavia non può che funzionare attraverso di noi (il mondo seriale chiede di essere abitato).

Come ci si orienta dentro l’orizzonte di senso del mondo seriale?

 

Ph: Olivier Culmann, Watching Tv series, 2004-2007.  

 

Spazio

La più acclamata e seguita serialità televisiva contemporanea si articola in uno spazio di racconto che gli addetti ai lavori definiscono arena-driven (per intenderci: Game of Thrones, Westworld, Lost, Twin Peaks, Broadchurch, Fortitudee così via). Significa che l’azione e il procedere del racconto sono guidati dall’arena, cioè dal contesto raccontato, più che dalle storie di un singolo personaggio (in tal caso parliamo di character-driven: The Young Pope, Breaking Bad, Dr. House, True Detective, Dexter). Ovviamente esistono diverse classificazioni ed etichette, molto flessibili e difficilmente univoche: una serie originale è un testo audiovisivo stratificato, plurale, difficile da ricondurre a una singola tipologia. Tuttavia porre l’accento sull’arena ci aiuta a mettere a fuoco un punto essenziale relativo alla “spazialità” delle serie tv. Nelle serie-mondo, lo spazio è così specifico perché istituisce un ambiente che lo spettatore è invitato ad occupare. Stanziarsi nello spazio seriale è un lavoro che coinvolge lo spettatore a un grado profondo,perché significa sganciarsi dal flusso del tempo diegetico per imparare a saltare da un angolo all’altro del mondo raccontato. Naturalmente lo spettatore non è messo in condizione di agire interattivamente scegliendo davvero il suo percorso di lettura (non ancora almeno). La serie però è congegnata in modo tale da simulare questo effetto. Quando scopriamo, attoniti, che la casa in cui Desmond si sveglia di buon mattino è dentro alla botola dell’isola di Lost,è come se la serie ci stesse suggerendo che stiamo scoprendo gli spazi, le pieghe, gli anfratti del suo universo: l’esperienza della fruizione si svolge come se stessimo saltando da un capo all’altro di quel mondo, come se avessimo, avrebbe detto Wolfgang Iser a proposito dei romanzi, “un punto di vista errante” che attua il racconto attraverso l’atto della fruizione.

 

Ma l’ambiente dispiegato dalla serie chiede di essere abitato dallo spettatore e contemporaneamente pone ostacoli alla sua abitabilità. Mentre il fruitore lotta per sentirsi a casa sua in mezzo alle molteplici storie che gli scorrono davanti, infatti, viene continuamente trascinato nel disagio di perturbanti rovesciamenti di trama o di relazione tra personaggi. La tensione drammaturgica si misura in questo continuo movimento, invito ad entrare nel mondo e straniamento da esso. Stranger Things ha fatto di questa doppiezza la sua cifra, combinando la condizione domestica per eccellenza, l’infanzia (il ricordo degli anni ’80 e lo sguardo incantato dei giovanissimi protagonisti) con l’inospitale per definizione, il mondo “sottosopra”.

 

Qual è allora lo spazio di ciascuna delle storie che convivono nel mondo seriale? Solitamente possiamo parlare di racconti principali o secondari, perché un autore imprime ad essi una forma chiara e dei rapporti gerarchici. Però nelle serie-mondo, questi lavori “olistici, ipertrofici, solcati da digressioni”, le cose sembrano andare diversamente. La serie è un racconto, e dunque contiene la promessa del suo stesso senso nel gesto di esser letta, ma al contempo ci fornisce la perpetua sensazione di girare a vuoto, senza puntare verso il suo compimento, come un mondo che esiste incurante di noi.

La presenza di un ordinatore degli eventi tende,infatti, a nascondersi tra le righe del testo. Lo spettatore sente di dover esplorare il mondo perché anche se questo è stato preordinato per lui, l’apparente assenza di un narratore che distribuisca gli spazi nella storia rende necessario padroneggiarli tutti per capirci qualcosa. Da qualche parte, questa è la confusa promessa delle serie, di quel mondo è nascosto il senso. Ma dove? Occultare il punto di arrivo è forse una delle più eclatanti operazioni narrative svolte da Westworld, una serie in cui la scrittura sembra tanto confusa da riuscire a restituire allo spettatore il senso di un mondo a tutti gli effetti, un mondo che semplicemente vive. In Westworld gli obiettivi non sono chiari, la statura dei personaggi è vaga, i conflitti ambigui: ogni volta che premiamo play è come se stessimo collegandoci in diretta streaming con una realtà che procede indipendentemente da noi.

 

Lo spettatore girovaga nelle selve del racconto imboccando percorsi tortuosi e apparentemente svincolati gli uni dagli altri, fidandosi del fatto che prima o poi un elemento consentirà di leggere retrospettivamente tutta la storia. Una fiducia che serve per andare avanti nella visione e che è alimentata da percorsi drammaturgici più o meno soddisfacenti, ma che di fatto è ingiustificata. La struttura seriale, infatti, è priva di telos. Non c’è, nel dispositivo produttore di storie che è la serie tv, un fine che non sia la sua stessa riproduzione. Come una stampante 3d, una serie vive per rigenerarsi all’infinito.

Ecco perché, se ci armiamo di pazienza e ci mettiamo a setacciare gli spazi del mondo seriale, dopo qualche giro a vuoto arriviamo a capire dove vada cercato il senso. Nel tempo.

 

Tempo

In un libro importante per le teorie della narrazione (The Sense of an Ending, Oxford University Press, 1967), lo studioso americano Frank Kermode si è chiesto quale sia il ruolo della fine all’interno dei racconti e in che modo essa influenzi il rapporto che abbiamo con lo scorrere degli eventi. Che cos’è la fine? A cosa serve? Paradigma cosmico che imprime un senso allo starsene lì del mondo e della vita, la fine è un principio ordinatore che fornisce all’esperienza del tempo una direzione. L’esperienza temporale della fine è – sostiene Kermode – l’attesa del procedere delle cose verso il proprio compimento: un vissuto che non esiste nella vita (perché il tempo della vita non ha inizio e non ha fine, è sempre in medias res) ma solo nei racconti. Attraverso le narrazioni impariamo a relazionarci al fluire del tempo per mezzo di categorie cognitive come inizio, svolgimento e fine: ecco perché il tempo ha, per noi, la forma di una freccia. Eppure, se da un lato impariamo il “senso di una fine” grazie alla narrazione di finzione, e dunque proiettiamo questa struttura così intuitiva di ordinamento delle cose anche nell’esperienza che facciamo della storia e della vita, dall’altro la nostra esperienza della storia e della vita è per forza di cose sospesa, perché nel tempo personale, autobiografico, non ci sono inizi, svolgimenti e conclusioni. Così attendiamo la venuta di una fine che non arriva mai e che dunque da imminente si fa immanente– questo è il principio del tempo cristiano, un tempo messianico, di attesa.

Alla struttura lineare dei racconti di finzione e storiografici che ad avviso di Kermode offrono agli uomini la consolazione della fine, le serie rispondono con un altro ordine del discorso.

 

 

Lo spazio-tempo seriale infatti, si finge privo di direzione, spalancando un’esperienza temporale che simula quella del vissuto biografico: il procedere della storia, a tratti desultorio e apparentemente sganciato dalle intenzioni dell’autore, risultando privo di un orientamento teleologico, si articola in configurazioni cicliche che gli consentono di tornare su sé stesso. Lost, ancora una volta, ce lo mostra con impareggiabile potenza quando lo spettatore scopre che il grido strozzato del protagonista Jack, fuori da un aeroporto statunitense («We have to go back, Kate»), non sta avvenendo nel passato, come si è creduto per tutto l’episodio, ma nel futuro – non si tratta di un flashback, ma di un flash forward.

Nelle serie la fine è esclusa dal racconto perché il rapporto tra le parti e il tutto è articolato in modo tale che la somma degli episodi ecceda sempre l’insieme, sforando la totalità. Ecco perché di una serie non vogliamo sapere come va a finire, ma cosa succede dopo.

 

Ciclico, ricorsivo, casuale, il tempo seriale è il tempo parcellizzato e incompleto della vita che si finge storiografico, cioè ordinato, orientato. Occultata dietro le ricorsive trovate della drammaturgia televisiva, dimora una struttura temporale che sta più dalle parti della vita che da quelle della finzione: di una serie non abbiamo mai un’esperienza complessiva, proprio come non l’abbiamo del vissuto autobiografico (è ciò che il finale dei Soprano ha mostrato con irripetibile forza). Nelle serie tv facciamo esperienza di mondi che vivono liberi dall’attesa della fine.

 

Fuori dallo schermo, nel luogo in cui il tempo e il mondo seriali si incontrano con quelli umani, vive lo spettatore. Cosa se ne fanno gli umani di questo spazio-tempo pletorico e inafferrabile che è dispiegato dalle serie-mondo?

 

Deve esistere un qualche nesso diretto, oltre a quello analogico, tra il tempo della vita individuale e quello dello schermo. La struttura potenziale del dispositivo seriale offre al fruitore un antidoto contro l’horror vacui: forse per questo i peggiori binge-watching si scatenano in solitudine, e si prolungano furiosamente fino a tarda notte, il tempo potenziale per definizione, il tempo fuori orario. L’attività di fruizione del seriale è un’attività che si svolge da soli (o con il proprio/la propria convivente – colui o colei con cui si condivide il tempo della vita), come la lettura, perché il tempo dello spettatore e quello del racconto intrecciano una silenziosa alleanza, svuotandosi l’un l’altro in una lotta feroce.

L’episodicità delle serie si dipana nella quotidianità della vita, creando un tempo di riserva, sospendendo il flusso degli eventi in virtù di un gioco del come se che simula che lo scorrere delle cose ricominci continuamente da sé stesso. La fine è trattenuta, sacrificata dal racconto che la esclude, facendola esorbitare dai propri confini. Espulsa dal mondo del testo e rinviata al mondo dello spettatore, la conclusione non ci offre la consolazione di un ordine fittizio ma al contrario la filigrana del tempo umano. Come insegna Shahrazād, finché il fuoco del racconto brucia, la fine resta lontana.

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Sconfiggere l'horror vacui

Un atlante delle emozioni

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La vaporosa malinconia lasciata dalla partenza di un ospite gradito. La commozione nel veder trionfare chi parte svantaggiato. La nostalgia per un luogo in cui non si è mai stati. Ognuno e ognuna di noi probabilmente ha provato almeno una volta uno di questi stati d’animo. E magari ha fatto fatica a descriverli e a nominarli, ha pensato che non fossero condivisibili, ha tentato di scuotersi di dosso queste strane sensazioni. Non sapendo che invece queste emozioni esistono: sono culturalmente riconosciute, hanno dei nomi, una storia e una geografia. La tribù baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea chiama awumbuk la malinconia lasciata dalla partenza di un amico che si è ospitato, e dispone ciotole d’acqua negli angoli della casa per assorbire la foschia che l’ospite lascia dietro di sé. L’empatia verso un outsider, l’eccitazione per la vittoria di chi è destinato alla sconfitta, in Giappone si chiama ijirashi. Il finlandese definisce kaukokaipuu il desiderio di essere in un luogo lontano, diverso da quello in cui siamo e in cui forse non saremo mai.

 

L’esistenza di queste parole testimonia che in alcuni luoghi, per effetto di particolari configurazioni sociali, la materia impalpabile e le sfumature impercettibili di cui sono fatte le emozioni si sono condensate in modo da dare luogo a dei concetti, a delle realtà interiori riconoscibili, che hanno richiesto la legittimazione di un nome. A guidarci in queste e in molte altre scoperte di geografia emotiva è l’Atlante delle emozioni umane compilato da Tiffani Watt Smith, recentemente pubblicato da Utet nella traduzione di Violetta Bellocchio. Sottotitolo: 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai.

 

 

Un atlante delle emozioni potrebbe sembrare un libro quasi inevitabile oggi, coerente con l’epoca forse più emotivamente satura della storia, e necessario alla sua decifrazione. Enormi correnti emotive attraversano la vita pubblica e politica, reazioni emoticoniche determinano le interazioni sociali, un costante overload emotivo alimenta, quasi come una droga, l’immaginario mediatico, dalle sceneggiature dei talent show a quelle di Hollywood, dalle emozioni forti della narrativa seriale a quelle pruriginose del gossip. Perfino il discorso scientifico, per tacere delle pseudoscienze, ha scoperto le emozioni: lo studio del cervello ha permesso di situare i processi biologici che sottendono alle emozioni, e di mostrare che la vita emotiva è fortemente connessa ai processi cognitivi “superiori”, che la razionalità è venata di emotività, che il cuore ha delle ragioni che la ragione spesso sta ad ascoltare.

 

E mentre il diluvio emotivo sembra forzare le strutture stesse del pensiero e la sua agibilità sociale, travolgendo con drammatiche accelerazioni il tempo lento della logica e dell’argomentazione, c’è chi tenta di organizzare una resistenza, segnalando la necessità di arginare la prossimità emotiva rispetto ai fenomeni, per ristabilire la distanza critica necessaria alla comprensione. Paul Bloom, ricercatore a Yale, ha scritto un libro intitolato Against Empathy, contro l’empatia, tentando di decostruire il mito della più “positiva” delle emozioni. L’empatia, come molti altri eccessi emotivi, può innescare pericolosi stati di coinvolgimento e iperreattività, che deformano l’analisi della realtà, e condizionano in senso anti-razionale i processi decisionali, con conseguenze nefaste, alcune delle quali molto visibili oggi, soprattutto per la vita pubblica e per l’agire politico.

 

La sfera emotiva rappresenta dunque un campo di negoziazione dei significati del presente, intorno al quale si sono aperte vaste prospettive interdisciplinari di ricerca: già da diversi anni si parla di emotional turn tanto in antropologia, quanto nelle scienze sociali e nella ricerca storica. E se è vero che di queste “svolte” disciplinari, spesso più apparenti che sostanziali, è costellata la storia recente delle humanities, è innegabile che il tentativo di fare delle emozioni un oggetto di studio, definibile culturalmente e storicamente, può abilitare una nuova comprensione dei fenomeni del passato, e un’indagine genealogica sull’attuale assetto psichico ed emotivo della società. Di questa svolta, di questa apertura di prospettive, partecipa senza dubbio l’Atlante di Watt Smith, che ha il merito principale di portare all’attenzione di un pubblico di non specialisti il fatto apparentemente contro-intuitivo che le emozioni possano avere una storia, un’esistenza culturale stratificata e variabile. Il concetto stesso di emozione è storicamente tracciabile, ha un’origine precisa, e non è sempre esistito come noi lo conosciamo: secondo Thomas Dixon (From Passions to Emotions. The Creation of a Secular Psychological Category, 2003) è il frutto di una laicizzazione, avvenuta all’inizio dell’Ottocento, del discorso sulle passioni sviluppato nel corso dei secoli in ambito teologico. Mostrare le radici storiche e l’evoluzione semantica delle emozioni è un modo di interrogare l’alluvione emotiva del presente, di ancorarla a una riflessione, di dare una solo apparentemente paradossale profondità agli aspetti superficialmente emotivi dell’esistenza contemporanea.

 

Il lavoro archeologico dell’Atlante delle emozioni umane non si contrappone soltanto alla coazione al consumo di emozioni effimere, ma anche a una diffidenza radicata in ambito accademico e scientifico, dove le emozioni sono state a lungo percepite come parte di quel complesso di dati immediati, di fatti della vita che cadono al di fuori dei fenomeni interrogabili con gli strumenti della cultura e della scienza. Il movimento di storiografia delle emozioni entro il quale si inscrive l’Atlante tuttavia è interessante proprio nel suo tentativo di dare conto dell’esistenza delle emozioni reali, di creare una connessione tra le rappresentazioni e le concettualizzazioni delle emozioni, culturalmente variabili, e la loro profondità antropologica, la loro esistenza trans-culturale e metastorica, la loro persistenza e immutabilità percepite.

 

La storiografia delle emozioni, sviluppata da oltre un decennio in ambito anglosassone e solo marginalmente penetrata nel dibattito italiano, pone il problema a suo modo scandaloso dell’esistenza concreta delle emozioni, si interroga su ciò che le persone realmente provano, e lo confronta con ciò che è ipotizzabile abbiano realmente provato in passato. A partire dallo studio delle mediazioni e delle rappresentazioni culturali delle emozioni, si tenta di andare oltre le mediazioni, per capire a quale nucleo esperienziale le rappresentazioni danno forma. Questo movimento è perfettamente visibile nell’Atlante pubblicato da Utet, che nel dare conto della storia culturale delle emozioni segnala sempre il filo che le lega all’esistenza quotidiana, alla situazione contemporanea, accostando anche alle emozioni fondamentali alcune condizioni nuove, inconcepibili in altre epoche, come il tecnostress o la cybercondria (la compulsione alla ricerca in rete). Ogni emozione è introdotta dalla descrizione di una situazione possibile, da uno spunto narrativo, che suggerisce anche come ogni stato emotivo contenga in sé l’embrione di una storia.

 

Ph: Alamy. 

 

In questo suo registro stilistico colloquiale il libro scherza anche con il linguaggio del manuale di autoaiuto o della guida alla vita emotiva, introducendo un aspetto che potrebbe far sollevare qualche sopracciglio. Ma nell’esibire familiarità con la vita emotiva corrente il libro viola, io credo con consapevolezza polemica, un autentico tabù degli studi storico-culturali, nei quali le teorie decostruzioniste e post-strutturaliste hanno agito in profondità (ma non solo queste: si tratta di un processo di ipostatizzazione del linguaggio e di astrazione delle pratiche simboliche che risale alle origini stesse della modernità), e hanno sedimentato l’idea che nelle interazioni umane tutto è cultura, rappresentazione, linguaggio, codice. Una diffidenza e un pudore profondamente radicati (e per molti aspetti giustificati), sorgono ogni volta che si devono maneggiare le nozioni di realtà, esistenza, vita, natura.

 

Al contrario, lo scarto introdotto dalla storiografia delle emozioni è il tentativo di partire dalle rappresentazioni, dalle articolazioni e variazioni culturali che interessano le emozioni, per bucarle, per arrivare a toccare qualcosa che fa parte delle nostre interazioni di base con l’ambiente, della nostra esistenza biologica. Non a caso, l’Atlante delle emozioni umane, così come gran parte delle ricerche affini, individua nel libro di Charles Darwin The Expression of the Emotions in Men and Animals, del 1872, lo sfondo antropologico sul quale si innesta  la storia culturale delle emozioni. Darwin compila una sorta di catalogo di fossili emotivi, di espressioni delle emozioni primordiali, che costituiscono il sostrato animale della vita emotiva, al quale si applicano le trasposizioni e le traduzioni culturali (e stupisce che manchi del tutto, in Watt Smith come nella maggior parte degli studi dello stesso tipo, un riferimento a Warburg, il grande rabdomante delle “forme emotive” cristallizzate nell’arte, che pensava di organizzare proprio in un atlante figurativo le immagini che hanno stilizzato nel movimento delle figure, esperienze psichiche ed emotive antropologicamente radicate).

 

Il concetto di traduzione è centrale nelle teorie delle emozioni che sono comparse in ambito storico. William Reddy, nel suo libro The Navigation of Feeling, ha descritto le rappresentazioni culturali degli stati emotivi come traduzioni del nucleo duro, persistente, trans-culturale dell’esperienza emotiva, e come atti linguistici che nel dire le emozioni necessariamente le plasmano, le informano. Esistono degli oggetti, le emozioni, che hanno a che fare con la vita biologica dell’individuo e che i linguaggi umani traducono. Le emozioni prendono la forma del discorso e dei gesti che le rappresentano: sono performance verbo-motorie che riattivano secondo modalità culturalmente definite esperienze antropologiche profonde, stati psichici antichissimi.

 

Una teoria delle emozioni fondata sul concetto di traduzione e di performance consente di superare tanto il dualismo psicologico tra realtà oggettiva e soggetto che la conosce, quanto la pandiscorsività del post-strutturalismo che nega l’esistenza di una realtà esterna al linguaggio. Le emozioni sono esattamente questa realtà esterna al linguaggio, che la mente cerca di catturare, concettualizzandola e formalizzandola. Nel farlo, mette in contatto processi biologico-cognitivi e strumenti culturali, elaborazioni interiori e forme sociali: le indagini neuroscientifiche sull’elaborazione cerebrale delle emozioni vengono integrate in questa prospettiva di studio, ma con un approccio critico che segnala come non bastano le reazioni chimiche del cervello a determinare un’emozione, mentre servono sempre un corpo e una mente che la agiscono in un contesto culturale. Eppure è proprio contro questo sfondo di reazioni corporee e di legami chimici che si ritagliano le emozioni culturalmente conoscibili.

 

Elisabeth-Louise Vigée Le Brun, Autoritratto, 1787.

 

La storia delle emozioni si intreccia alla storia della scienza e della medicina: serve una nuova concezione e una nuova cura del volto e in particolare della bocca perché possa affiorare, nella Parigi della metà del Settecento, la smile revolution indagata in un libro di Colin Jones (The Smile Revolution in Eighteenth-Century Paris). In un’increspatura emotiva, in una smorfia si manifesta il vasto complesso di trasformazioni sociali e culturali che preparano la prima grande rivoluzione politica della storia. Ed è a partire dalla storia della fisiologia umana, e della sua culturalizzazione, che si possono indagare le manifestazioni del pianto nella società inglese, mostrando come la mitologia dello “stiff upper lip”, della assoluta continenza emotiva del popolo inglese, sia non solo il frutto di una costruzione culturale, ma anche di precise politiche delle emozioni (è ciò che ha fatto Thomas Dixon nel suo Weeping Britannia. Portrait of a Nation in Tears).

 

Pensare alla nostra esperienza delle emozioni come al frutto di una traduzione ci riporta all’Atlante delle emozioni, la cui edizione italiana ha dovuto affrontare problemi traduttologici molto significativi. Non solo perché si è trovata di fronte a emozioni intraducibili, come quelle che abbiamo citato all’inizio, ma anche perché ha dovuto dare conto delle diverse storie etimologiche relative ai nomi di alcune emozioni, che nell’adozione di radici diverse rivelano diverse sfumature di significato. La pesantezza che si nasconde nella tristezza è più evidente nell’inglese sadness, etimologicamente legato al concetto di sazietà (e al latino satis), così come alla presenza di un peso rimanda più visibilmente boredoom, la parola inglese per “noia”. Ed è più facile vedere lo splendore che illumina la contentezza nell’inglese gladsomeness, sostantivo che rimanda al campo semantico della luce.

 

Questi affascinanti percorsi semantici e lessicali dimostrano ulteriormente che le emozioni hanno una storia e una geografia, e che la loro nebulosità può condensarsi in modo diverso a seconda dei climi culturali e sociali: è l’autrice stessa a utilizzare nella sua introduzione la metafora della catalogazione della forma delle nuvole per alludere al lavoro di classificazione delle emozioni. Della natura sfuggente e refrattaria alle definizioni univoche delle emozioni è specchio anche la struttura del libro: organizzato come un dizionario, funziona attraverso una rete di rimandi interni che lo rendono un ipertesto, e che servono a segnalare la contiguità e la sovrapponibilità delle diverse situazioni emotive, le sfumature che le fanno scivolare una nell’altra, l’instabilità molecolare dei campi emozionali. Tanto che diventa difficile smettere di seguire le catene analogiche, difficile circoscrivere la definizione di un’idea emotiva a una sola voce, difficile rinunciare a percorrere la selva di incroci e rimandi reciproci per seguire una lettura lineare. Come si fa, del resto, a segnare con esattezza il confine tra frustrazione ed esasperazione? Provare per capire. 

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Storia e geografia di realtà interiori

Alieni

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La sera del 19 settembre 1961 Betty e Barney Hill stanno procedendo sulla loro automobile in una strada del New Hampshire di ritorno dal Canada, quando sono intercettati da un oggetto volante. Barney scende dall’auto e con un binocolo vede un gruppo di piccoli umanoidi in uniforme nera che li guardano dai finestrini dell’astronave. Risale in auto, ma ben presto cade addormentato insieme alla moglie. Rientrano entrambi a casa verso le 5 e mezza del mattino. Nei giorni successivi ricostruiscono di essere stati prelevati da un’astronave e sottoposti a esami medici dagli alieni. Grazie a un trattamento ipnotico rivelano allo psichiatra che li cura di essere in contatto telepatico coi rapitori; ne tracciano anche la mappa stellare: il sistema binario di Zeta Reticuli. Da questa vicenda John G. Fuller ha tratto un libro, Prigionieri di un UFO, uno dei primi libri che ha portato all’attenzione del mondo il fenomeno dei rapimenti alieni.

 

 

 

Negli anni tra il 1950 e il 1960, come notò Giorgio Manganelli ci fu l’attesa dello sbarco dei marziani sul Pianeta Terra. Correvano notizie di astronavi precipitate in Messico, ma vi furono avvistamenti di oggetti luminosi anche in Val di Susa e dalle parti di La Spezia. Lo scrittore italiano tra il 1973 e il 1983 scrisse una serie di articoli sulle principali testate giornalistiche notando come l’odio per il Pianeta alimentasse attese e speranze apocalittiche: “speravamo in una fine del mondo che ci avrebbe consentito di sopravvivere”. I marziani non arrivarono, al che Manganelli concluse: “Dobbiamo distruggerci da soli?”. Il tema degli alieni è tornato di attualità da quando gli astronomi ci hanno segnalato che esistono nello spazio pianeti simili al nostro, e che dunque non siamo più soli. 

 

Nell’agosto dello scorso anno l’Osservatorio Europeo Australe ha annunciato la scoperta di un pianeta delle dimensioni uguali alla Terra, Proxima B, che orbita intorno a Proxima Centauri, alla distanza di solo 4,25 anni luce dal nostro Sistema solare, per cui una flotta di microastronavi sospinte da raggi laser, viaggiando al 20 per cento della velocità della luce, potrebbero raggiungere la nostra gemella in vent’anni. Da allora non trascorre mese che non si scoprano altri pianeti potenzialmente abitabili. Aumenta l’attesa non più di alieni che ci invadano, come accadeva nei decenni raccontati da Manganelli, ma della possibilità di trasferirci noi su altri corpi celesti, dato che il Pianeta Azzurro sembra in crisi, tra inquinamento, cambiamenti climatici e possibili conflitti finali. Tutto si è rovesciato nell’arco di qualche decennio e alla fine risulta plausibile quello che Jung aveva scritto nel 1958 in Un mito moderno: i dischi volanti sono i nostri sogni “veri” proiettati nel cielo sopra di noi, la ricerca di senso in un mondo che all’epoca appariva totalmente dominato dal progresso scientifico. Il represso appariva di colpo nella notte quale misterioso segno attraverso l’immagine dei dischi volanti, chiosava Manganelli lettore di Jung. Le recenti scoperte incentivate dalla messa in orbita del telescopio Keplero hanno spinto all’ossessiva ricerca della Terra gemella. Perché?

 

A questa domanda cerca di rispondere Jim Al-Khalili, irakeno di nascita, docente di Fisica teorica alla University of Surrey, autore di innumerevoli libri, in un volume che ha allestito con l’aiuto di diciannove ricercatori, scienziati e divulgatori scientifici: Alieni. C’è qualcuno là fuori? (Bollati Boringhieri, pp. 241, € 22). Tutto comincerebbe con una conversazione a tavola nel 1950 di Enrico Fermi con i colleghi del Los Alamos National Laboratory in New Mexico. Si discuteva sulla possibilità che la Terra fosse visitata da alieni a bordo di dischi volanti. Fermi fece una domanda semplice: “Dove sono?”. Presupponeva che data l’età e le dimensioni vastissime dell’universo, comprendente quasi cinquecento miliardi di stelle nella sola Via Lattea, molte delle quali dotate di sistemi planetari, l’universo dovrebbe traboccare di vita e di forme d’intelligenza capaci di produrre tecnologie per viaggiare nello spazio. E allora dove sono? La domanda resta ancora inevasa.

 

 

 

Per quanto solo il 36% degli americani creda agli UFO, mentre il 17% non ci crede, e il restante 47% è invece indeciso (ricerca del 2012 di National Geographic Society), l’attesa degli alieni è ancora molto forte, tanto che esiste la SETI (Search for Extraterrestrial Intelligenze) iniziata dai pioneristici approcci di Frank Drake, autore dell’equazione omonima. Nel 2015 è stato annunciato uno stanziamento di cento milioni di dollari della SETI e Stephen Hawking ha dato voce a un desiderio collettivo: “È tempo di impegnarsi a trovare una risposta, a cercare la vita al di là della Terra. È importante per noi sapere se siamo soli nell’oscurità”. Non sono più gli alieni a venire da noi, come accadeva cinquanta anni fa, ma noi ad andare da loro. Perché arrivavano invece i dischi volanti negli anni Cinquanta e Sessanta? Per ridurre in schiavitù l’umanità; per usarci come cibo; per prosciugare i nostri oceani; per procurarsi materie prime; per cercare una nuova casa; perché incuriositi dai terrestri. Lewis Dartnell, che in Alieni passa in rassegna tutte queste ipotesi, finisce per confutarle. Paul C. W. Davies, cosmologo e autore di libri di grande successo, avanza perciò l’ipotesi che siano state le scoperte di pianeti extrasolari, che vi siano circa un miliardo di pianeti simili alla Terra, a incentivare l’ipotesi di forme di vita nel cosmo.

 

Nel 1972, anno della pubblicazione di Il caso e la necessità di Jacques Monod, biologo premio Nobel, dominava l’idea che l’universo non era sul punto di “partorire la vita” e che dunque l’uomo fosse “solo nell’immensità indifferente dell’universo”; ancora nel 1981, Francis Crick, co-scopritore della doppia elica del DNA sottolineava come l’origine della vita sulla Terra fosse uno straordinario miracolo. Poi intorno agli anni Novanta, un altro premio Nobel, Christian de Duve, biochimico belga, ha ribaltato la situazione: la vita è un imperativo cosmico e l’universo ne abbonda. Davies pone la questione fondamentale: “il fatto che un pianeta sia abitabile non significa che sia abitato: lo può diventare soltanto se genera la vita”. E la vita è legata all’acqua liquida. Gran parte degli interventi più interessanti di Alieni s’interrogano su questo: cosa è la vita e come sorge? La formula, per quello che ci riguarda, è riassumibile così: energia, carbonio, acqua liquida e pochi altri elementi. La biochimica della vita sulla Terra, e forse anche altrove, si fonda totalmente sulle proprietà dell’acqua. Così, chiedendosi perché gli alieni non ci abbiano ancora raggiunti, o come fare per arrivare noi su pianeti simili al nostro, gli autori mobilitati da Al-Khalili s’interrogano sul perché esiste la vita sulla Terra; o meglio, perché ci siamo noi, Homo Sapiens Sapiens, e non un discendente diretto dei dinosauri?

 

Come conclude Ian Stewart, matematico inglese nella sua rassegna sugli alieni nella letteratura fantascientifica, gli extraterrestri “sono uno specchio nel quale poter osservare i nostri difetti e le nostre fobie”. Il modo con cui li trattiamo nei romanzi e nel cinema, o reagiamo alla loro presenza, “la dice lunga su noi stessi”. L’alieno vero è dentro di noi. Manganelli in uno dei suoi articoli, raccolti in Ufo e altri oggetti non identificati (Quiritta) concludeva che la moda degli UFO passerà, ma “non passerà la voglia dell’assurdo”. Avrà ragione? Scienza o fantascienza che sia, la realtà in cui viviamo sembra alimentare la smania della fine del mondo. Tra riscaldamento globale, sovrappopolazione, fantasie distruttive delle grandi potenze e altri cataclismi possibili, l’ipotesi di trasmigrare altrove alla ricerca di nuove terre abitabili sta diventando d’incontrovertibile attualità. Oltre che un grande affare economico. Sarà dunque meglio comprare un biglietto su una nave spaziale ai nostri discendenti, invece di lasciare loro in eredità un appartamento in una desolata città terrestre?

 

Questo articolo è già uscito su “L’Espresso”, che ringraziamo.

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Dentro di noi o nello spazio lassù?

Fanatismi al femminile

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In un’epoca fanatica di guerre e odi sembriamo non tollerare più neppure l’ambivalenza dei legami intimi e privati. “Non si fanno mai cattiverie che per il bene di qualcuno”, sostiene Lacan e poi aggiunge: “Salvo che si fallisce.” Dal punto di vista psicoanalitico la cattiveria è, dunque, un atto mancato. La versione femminile della cattiveria non fa eccezione: quando si è assolutamente certe di fare il bene dell’altro facilmente lo si danneggia. Il movente di Medea, come quello delle madri infanticide è precisamente salvare il figlio da un male, dalla follia – la stessa che le possiede – o da un pericolo, ad esempio un marito che avendo fatto del male a lei “non potrà che farne ai suoi figli”. L’assoluta e fanatica proprietà dei figli impedisce di pensare che essi hanno una storia diversa, separata, e quindi un altro destino.

La cattiveria è legata al fanatismo: si pensa di conoscere meglio dell’altro qual è il suo bene. Scrive Amos Oz: “Il fanatico si preoccupa assai di te. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso”.

 

La relazione tra fanatismo e femminilità è poco frequentata; più spesso quel tratto è declinato al maschile sotto la forma di terrorismo politico o di intransigenza religiosa. Credere di essere la sola a sapere infallibilmente qual è il bene del bambino è la forma del fanatismo materno.

Il fanatismo femminile è temibile e particolarmente occulto, strisciante, ammantato com’è di bontà e virtù: esso rovescia l’estrema cura in omicidio, la dedizione in distruzione, la troppa seduzione in assoggettamento. Joyce Carol Oates ha scritto una mirabile raccolta di racconti, La femmina della specie, in cui l’eccesso di virtù femminili porta a esiti nefasti: la sollecita cura dell'infermiera che diventa assassina per compiere un “atto di misericordia” verso i malati; o la donna che seduce un uomo – reso muto da una coltellata materna quindi impossibilitato a denunciarla – per fargli uccidere il padre di suo figlio che non la vuole più; o come la perversa "fedeltà" al padre nella figlia che, per troppo amore, diventa prostituta e tagliagole, all’insaputa del genitore. La Oates è una scrittrice ruvida, non cattura su corde consuete, conosce la sofferenza e la crudeltà della virtù femminile e non fa sconti. Racconta dell’attrazione femminile per l’arcaico e dell’inferno che possono essere i mondi popolati unicamente da donne.

 

 

Il corpo della bambina è uno dei luoghi privilegiati in cui, ad esempio, una madre può condurre la sua battaglia contro la matrigna: se il corpo della figlia è vissuto come una sua proprietà, la scelta di uno stile di abbigliamento o di un nuovo taglio di capelli della figlia può essere sentito dalla madre come un tradimento, soprattutto se il cambiamento della ragazza ricorda un tratto “ereditato” dalla matrigna. Camilla, una matrigna che ingenuamente ha osato tagliare di mezzo centimetro la frangia della figliastrina perché la bimba si lamentava che le dava fastidio agli occhi, è venuta a sapere che la madre ha portato l’episodio in tribunale. “Mamma se tu vuoi che io la odio, la odio”, dice il bambino alla madre parlando della matrigna, nel film Stepmother che, pur edulcorato e buonista, mostra, con questa battuta, quanto i bambini si possono rendere complici del fanatismo di una madre gelosa.

Il fanatismo femminile si annida nell’idea di perfezione, ed è un altro modo di declinare il godimento dell’Uno, dell’indifferenziato che presenta anche un lato totalitario: “un solo popolo, un solo leader, un solo pensiero; movimento verso l’Uno di cui la storia ha, in ogni occasione, confermato la forza di distruzione.”

 

Coraline è una bambina, protagonista di una favola cinematografica piuttosto apprezzata anche dagli adulti. Le bambine soprattutto sono attratte e spaventate da questa storia e domandano di rivederla spesso. Coraline ha undici anni e vive con i suoi indaffarati genitori in una casa sinistra, grande e sporca, dal frigo vuoto, con una madre sempre al computer, che non dà troppo retta alla figlia, che non cucina e un padre che cucina solo cose troppo sane e insipide. Il giardino che circonda la casa è desolato e piove sempre. Una notte, esplorando la casa, Coraline trova una porticina e un tunnel che la conduce in una casa identica ma impeccabilmente pulita e dal giardino ordinato, pieno di fiori colorati. Anche i genitori sono identici solo che la madre si interessa moltissimo alla bambina, cucina cose buonissime per la figlia e il padre compone canzoni per lei. Le due madri, uguali d’aspetto, si distinguono in una madre distratta dal lavoro e una madre perfetta, che si occupa solo di Coraline e della casa e che, come dichiara, vuole solo amarla ed esserne amata. La madre perfetta ha un unico inquietante dettaglio: degli strani bottoni al posto degli occhi che ne rivelano la disumanità. La manipolazione non tarda, infatti, a manifestarsi: non appena vede la bimba soddisfatta dall’essere rimpinzata di cibo e attenzioni, vuole cucirle dei bottoni al posto degli occhi, esattamente come i suoi, perché veda il mondo come lo vede lei. La resistenza ostinata di Coraline a non farsi cucire i bottoni fa sì che, nell’avanzare della storia, la coppia di genitori perfetti mostra pian piano la sua vera natura: crudele e persecutrice la madre, succube di lei il padre.

 

Fotogramma tratto da Coraline e la porta magica (2009). 

 

Come spiegare meglio ai bambini che la madre perfetta è pericolosissima? Il padre succube dice a Coraline “non voglio farti del male è la Madre che lo vuole”: anche lui è ostaggio della Madre impeccabile. Coraline è una favola che sostiene la madre imperfetta, impegnata in un lavoro e che non sta addosso alla figlia. Nel contempo, rivela il mostro invadente dietro la madre perfetta che si trasforma, alla fine del film, in una mano scheletrica, mortifera, che afferra la bambina la quale, dapprima ipnotizzata e soggiogata, non ne vuole più sapere della madre troppo devota. La mano della madre perfetta, con cui la figlia lotta alla fine del film, rappresenta la presa di quelle madri che non mollano le figlie, le controllano instancabilmente e non sanno separarsi da loro. Con uno stratagemma Coraline farà cadere la mano nel pozzo: le farà afferrare il vuoto in una sorta di una messa in scena, qui salvifica, del fantasma anoressico, in cui la ragazza si fa essa stessa vuoto, assenza del corpo, per non essere afferrata da una madre fanatica e divorante.

 

A volte la letteratura ha il dono di isolare i temi come in un laboratorio e di creare una finzione che non raramente è un distillato della loro verità. Il romanzo La pianista di Elfriede Jelinek racconta di una donna che la madre aveva fanaticamente e meticolosamente forgiato, fin da piccola, per farla divenire una pianista, sorvegliandola di continuo e smorzando ogni suo entusiasmo per ciò che era la vita all’infuori dello studio della musica, rendendola una donna fredda e dura. A quarant’anni vive ancora con la madre – il suo Uno –, è insegnante al Conservatorio di Vienna ed è corteggiata da un suo giovane allievo. Una magica sera i due musicisti si esibiscono insieme in una sintonia di mani e corpi. Qualcosa è accaduto tra loro con il medium della musica; al termine del concerto, lui accompagna per un tratto le due donne sperando di poter restare solo con la sua insegnante, ma la madre, come un amante geloso, li sorveglia da vicino e resta attaccata alla figlia. La pianista è attratta dal giovane e talentuoso studente, tuttavia al tempo stesso non vede l’ora che il ragazzo si dilegui per tornare a casa, rannicchiarsi nella sua poltrona preferita insieme alla madre nel loro salotto-utero, immutabile negli anni, e commentare insieme, solo loro due, il concerto appena terminato.

 

Questa brava figlia nel frattempo ha però sviluppato una perversione voyeuristica: segue nei boschi le coppiette e ne spia l’amore che non le è concesso provare. Una sera, essendo tornata un po’ troppo tardi da una di queste uscite, prevede che la madre “urlerà, farà una tremenda scenata di gelosia. Ci vorrà del tempo prima che si riconcili con lei. La figlia, dal canto suo, dovrà renderle una dozzina di servigi d’amore altamente specializzati [...]. Come potrebbe mai riuscire ad addormentarsi temendo di venir risvegliata subito dopo dalla figlia, che si issa sul letto matrimoniale per occupare la propria metà?”. Madre e figlia condividono oscenamente lo stesso letto. Quando, infine, la pianista si concederà allo studente innamorato, stilerà per lui delle regole di rapporto ispirate alla perversione sado-masochista che si è instaurata, a livello psichico, tra lei e la madre. Il ragazzo è l’occasione che il mondo le offre e che viene persa perché il giovane non è vissuto come incontro con l’alterità, ma portato dentro la perversione che le è familiare, assimilato a quella. Da parte sua, lui, che dapprima ha cercato nella donna un amore ideale, finisce per prestarsi al gioco, umiliandola in un’apoteosi di perversioni richieste dalla stessa insegnante, in una strabiliante performance da studente modello al termine della quale, però, abbandonerà la donna. A seguito di questa delusione, lei si ferirà con un coltello, vagando sanguinante e delirante per le strade di Vienna. 

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“Mamma se tu vuoi che io la odio, la odio”

Simbolico

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Tutte le culture sociali, com’è noto, fanno uso di simboli e sviluppano dei più o meno articolati linguaggi simbolici. Ma per gli antropologi il simbolico è qualcosa di notevolmente differente. Si tratta infatti di una dimensione particolare della realtà sociale. La dimensione propria del mito, della magia e dell’irrazionale, la quale sembra possedere al suo interno una specie di forza primordiale che è difficile da comprendere e controllare per gli occidentali contemporanei.

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L'importanza di perdersi nel bosco

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Dopo l'attentato di Manchester, nel quale al termine di un concerto di Ariana Grande sono rimasti uccisi numerosi ragazzi la maggior parte dei quali ancora minorenni, come dopo ogni atto di terrorismo su media e social network è circolata la domanda “Come spiegare gli attentati ai bambini”. Famiglia Punto Zero, social di promozione culturale della genitorialità e approfondimenti tematici sulla famiglia, ha girato la domanda a Nadia Terranova, scrittrice per adulti e ragazzi, che tiene una bella pagina dedicata alla letteratura per l'infanzia sull'inserto Robinson.

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Carlo Rovelli: le cose non sono, accadono

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La mattina era fresca e il cielo terso, il 21 luglio 1969 alle ore 02:56, quando Neil Armstrong mise piede sul suolo lunare. Maria Grazia, contadina irpina del sud Italia, guardando il primordiale schermo televisivo chiedeva ai nipoti se l’avessero, allora, portata sull’aia, tra i covoni di grano della recente mietitura, la luna, quella palla lucente. Se avessero aspettato che fosse costruita per intero dal momento che secondo lei la luna veniva fatta e disfatta ciclicamente da quel Marcoffio che, nella sua cosmologia, era l’artefice di quella piccola palla. E il tempo per la covata delle chiocce si sarebbe calcolato avendo lo strumento di misura finalmente vicino e a disposizione. Così come non ci sarebbe stato più il problema di coprire le patate nascondendole ai suoi raggi, visto che, se no, se ne andavano di luna. E lo stesso valeva per la gravidanza delle mucche e persino per i cicli mestruali. Finalmente, insomma, divenivamo padroni del tempo, non più esposti ai capricci della luna.

 

Sacra è l’acqua, sacra è l’aria, sacra è la terra. A renderle tali è il nostro modo di viverle nel tempo: in quell’attimo che separa il prima e il dopo e esalta e inghiotte ogni esperienza possibile. Reinventare il tempo e ricreare una mitografia del nostro esistere nel tempo: un compito epocale a cui non dovremmo più sottrarci.

 

Il rapporto con il tempo è il problema principale di noi esseri umani. Carlo Rovelli, alla maniera di Montaigne o di Lucrezio, compone un cammino nel tempo che lascia col fiato sospeso fino all’ultima riga, senza ostacoli, fluido, anche nelle svolte più impervie della fisica quantistica, che si presenta a noi resa garbata e gentile, ironica e leggera, grazie alla sapienza linguistica dell’autore. Che dilettandoci ci inquieta più di quanto si possa immaginare. Ma lo fa con la poetica di un Mandel'štam – ad esempio in Quasi leggera morte. Ottave, appena pubblicato da Adelphi con la cura magistrale di Serena Vitale –, libero di inoltrarsi nel non-tempo per riconoscere il tempo, intrepido nel negare l’esistenza dello spazio-tempo, per poi riconoscerne i fondamenti e il ruolo nelle nostre vite di breve durata. Rovelli ci porta indietro e in basso, sempre più indietro e in profondità, fino alla rarefazione del tempo, dove la creazione di ogni cosa e di noi è ancora in corso, per riportarci poi, con le ultime parole del libro, alla disposizione serena verso il nostro essere provvisorio nel tempo della nostra vita: “E va bene così. Possiamo chiudere gli occhi, riposare. E tutto questo mi sembra dolce e bello. Questo è il tempo” (p. 178).

 

“Forse il mistero più grande è il tempo”, aveva scritto all’inizio del libro Rovelli, ed è difficile dargli torto. Il tempo è, con ogni probabilità, la fonte della nostra ansia fondamentale. Siamo, infatti, la specie i cui individui, pur essendo finiti e consapevoli della propria finitudine, sono in grado di concepire l’infinito e di aspettarsi di essere eterni. In questo dilemma si consuma la nostra proiezione sul tempo. E dallo stesso dilemma nasce, con ogni probabilità, l’invenzione del sacro. Dai tentativi di elaborare l’ansia insopportabile della finitudine siamo indotti a creare spazi separati, il sacro appunto, sacer, in cui depositare la nostra angoscia e da cui trarre ragioni trascendenti in grado di contenerci e consolarci nella nostra esistenza peritura. Cosa accade se persino il fluire del tempo, tra passato, presente e futuro, si sfalda e il tempo funziona diversamente da come ci appare? “Gli aspetti caratteristici del tempo, uno dopo l’altro”, scrive Rovelli, “sono risultati essere approssimazioni, abbagli dovuti alla prospettiva, come la piattezza della Terra e il girare del sole” (p. 15).

 

 

In quelle approssimazioni è, forse, “tutto l’uomo, la sua collaborazione intelligente con l’universo, la sua lotta contro di esso, e la disfatta finale ove lo spirito e la materia che gli fa da sostegno periscono pressappoco insieme. Il suo disegno si afferma sin in fondo nella rovina delle cose”. Così scrive Marguerite Yourcenar in quel libro che viene da mettere in dialogo con la raffinata e sconvolgente analisi di Rovelli, che è Il Tempo, grande scultore. Il breve episodio che siamo, nel tempo, ha tutte le caratteristiche delle forme scultoree, metafore della nostra stessa esistenza: “La forma e il gesto imposti dallo scultore non sono stati per queste statue che un breve episodio tra la loro incalcolabile durata di roccia nel grembo della montagna, e poi la lunga esistenza di pietra deposta sul fondo delle acque” (p. 55).

 

Le domande con cui Rovelli ci pone a confronto sono di quelle che lasciano senza respiro. Se già il confronto con il tempo profondo ci procura non poche vertigini, come accade ad esempio con le considerazioni di Daniel Lord Smail in Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, appena pubblicato da Bollati Boringhieri, e abbiamo problemi a considerare una misura come l’ultimo milione di anni, figuriamoci come ci sentiamo a constatare che la stessa “struttura del tempo non è quella che sembra: è diversa da questo uniforme scorrere universale” […..] “La meraviglia è la sorgente del nostro desiderio di conoscere, e scoprire che il tempo non è come pensavamo, apre mille domande” (p. 14).

 

 

Se ci chiediamo perché ricordiamo il passato e non il futuro, o se siamo noi ad esistere nel tempo o il tempo ad esistere in noi, o cosa significa davvero che il tempo scorre e cosa lega il tempo alla nostra natura di soggetti, o ancora, cosa ascoltiamo quando ascoltiamo lo scorrere del tempo, in questo libro troviamo Rovelli che ci porta per mano e condivide con noi conoscenze e dubbi, mancanze e provvisori approdi, facendoci compagnia persino nell’incertezza.

 

A partire dal viaggio nello stato microscopico delle cose dove “la differenza fra passato e futuro scompare”. “Nella descrizione microscopica non c’è un senso in cui il passato sia diverso dal futuro” (p. 36). Insieme a noi e con l’aiuto di giganti come Boltzmann, Rovelli si chiede se il mondo può essere così profondamente diverso dalla nostra intuizione. E ci aiuta, da par suo, a comprendere che già in altre occasioni la nostra incredulità è stata sfidata, come per il movimento della Terra. Anche per il tempo l’evidenza è schiacciante: “tutti i fenomeni che caratterizzano il fluire del tempo si riducono a uno stato particolare nel passato del mondo, che è particolare per la ‘sfocatura’ della nostra prospettiva” (p. 37). Scopriamo così che l’entropia non è nient’altro che il numero degli stati microscopici che la nostra sfocata visione del mondo non distingue.

 

Ecco una rivelazione del libro di Rovelli: oltre ad essere un libro sul tempo dal punto di vista della fisica quantistica, L’ordine del tempoè un libro sulla psiche umana, sulla mente umana come espressione del nostro corpo-cervello-mente in azione in questo nostro mondo nelle relazioni con gli altri.

Scopriamo così che non solo non esiste un tempo comune a diversi luoghi, ma non esiste neppure un tempo unico per un unico luogo: che non c’è nessuno speciale momento che corrisponda a quello che qui e ora è il presente. Nella nostra esperienza personale il tempo è elastico: “Per quanto tempo è per sempre?” chiede Alice. “A volte, solo un secondo”, risponde il Coniglio Bianco. Ognuno di noi, del resto, ha esperienza di secondi che durano un’eternità e di giorni che durano un istante. D’altra parte, nonostante la nostra propensione rassicurante alla reificazione, il mondo è fatto di relazioni e di eventi, non di cose. Per rassicurarci e ancorarci noi costruiamo, come ha detto Jerome Bruner, “storie proprio così”. Rendiamo speciali le situazioni e le condizioni in cui viviamo. Nella maggior parte dei casi la coincidenza che noi stessi creiamo e alla quale crediamo, consegnandoci, dipende dal “confondere il verso delle relazioni causali: non è che le mele crescono dove la gente beve sidro, è che la gente beve sidro dove crescono le mele” (p. 131). Così come “è la presenza di abbondanti tracce del passato a produrre la sensazione familiare che il passato sia determinato. L’assenza di analoghe tracce del futuro produce la sensazione che il futuro sia aperto” (p. 143). Insomma, “inesorabilmente, lo studio del tempo non fa che riportarci a noi” (p. 146). “Capire noi stessi significa riflettere sul tempo. Ma capire il tempo significa riflettere su noi stessi” (p. 153). Il tempo “non è altro che una labile struttura del mondo, una fluttuazione effimera nell’accadere del mondo, ciò che ha la caratteristica di dare origine a quello che noi siamo: essere fatti di tempo. A farci essere, a regalarci il dono prezioso della nostra stessa esistenza, a permetterci di creare quell’illusione fugace di permanenza che è la radice del nostro stesso soffrire”.

 

Rovelli ci avvicina a un inedito senso di responsabilità, un senso che non conoscevamo e che oggi, in ragione della nostra ricollocazione nelle dinamiche del divenire, forse, diventa possibile. Vi sono strette interdipendenze tra il suo lavoro e quello di artisti come Bill Viola, nell’invitarci a prendere atto della nostra contemporaneità e della nostra condizione attuale.

 

Tra poesia e tecnica (poiesis), infatti, si esprime il fare arte di Bill Viola. Una sintesi che riesce a divenire linguaggio della contemporaneità. Un linguaggio distonico e contrastante con il clima dominante, fatto di immagini che spingono l’immaginazione ad assorbire il tempo e la lentezza, riportandoli a una possibilità conflittuale col presente: la riappropriazione dell’esperienza. L’alienazione dell’esperienza è forse uno dei segni più evidenti della vita contemporanea: quell’alienazione deriva, probabilmente, in primo luogo, dalla pretesa di scindere le emozioni dalla ragione, presente in tante ideologie e in tante prassi attuali, o dal tentativo e dalle pratiche di colonizzazione delle prime da parte della seconda. All’alienazione dell’esperienza concorre anche un uso generico o un abuso approssimativo delle emozioni, effetto di un “emozionalismo diffuso”. Come l’Umanesimo e il Rinascimento, dopo l’iniziale autoelevazione generata dall’avvento dell’esperienza simbolica prima, dalla produzione di segni “inutili” per un altro poi e, in seguito, dalla svolta ellenistica, costituirono un salto di qualità nell’emancipazione umana, proseguito poi con la Rivoluzione Francese, così oggi le espressioni artistiche di maggiore forza riescono a cogliere l’alleanza necessaria e difficile tra il tempo profondo della nostra storia e le infinitesime espressioni della nostra psiche. Noi, punti elementari e futili, passeggeri provvisori di una vicenda che ci prescinde, transitiamo velocemente.

 

Viola non ferma il tempo su una tela o in una scultura: no, con una sintesi che rende la tecnica più evoluta complice della creatività più distintiva, ci coinvolge in una scoperta del senso elementare dell’esistere. Cattura l’essenziale delle emozioni e le registra scannerizzando l’anima dei protagonisti che divengono specchio della nostra anima di osservatori. Di fronte ai lavori di Bill Viola si sperimentano aspetti del nostro sentire che a lungo sono stati, e tuttora sarebbero, insondabili e irraggiungibili: una sorta di movimento-quasi-fermo che conduce a penetrare l’intimità del sentirci e del sentire fino alla sua radicale origine. Ai confini del tempo dove tutto inizia. Viola crea una radicale alternativa all’estetica della misura: non perché non vi sia misura e rigore nel suo lavoro artistico, ma perché, come dovrebbe essere, la misura rimane sullo sfondo, non invade la scena. La scena è il legame ineluttabile, magnetico e incontenibile che si genera fra il gesto creativo e la mente dell’osservatore, dando vita a un mondo che non si può non abitare. La fusione emozionale tra la scena rappresentata e il mondo interno di chi osserva diviene senza confini e senza tempo e l’osservatore diviene parte della scena perché il suo mondo interno si fa tutt’uno con la rappresentazione. Il tempo delle immagini di Viola diviene ed è il tempo del mondo interno di chi guarda. Per questo motivo si apre uno spazio di scoperta che consente una connessione con il mondo emozionale interno che solo quell’arte rende possibile. Discriminante è la poetica del movimento e del tempo che distingue la creatività artistica. Una conferma formidabile dell’ipotesi e delle dimostrazioni scientifiche della ricerca di Vittorio Gallese e del suo gruppo, dalla risonanza incarnata alla molteplicità condivisa, come chiavi per comprendere il comportamento umano e il sistema cervello-mente relazionale che ci caratterizza. Il movimento è la vita della mente.

 

Del resto Rovelli opportunamente sostiene: “Il tempo è la forma con cui noi esseri, il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione interagiamo con il mondo, è la sorgente della nostra identità” (p. 161).

 

Viola non mostra né dimostra, lascia che la tecnica renda il movimento accessibile all’osservatore, attraendolo in risonanza in una partecipazione emozionale profonda, che consente a chi osserva di scoprire parti di se stesso. Emette segnali, l’opera di Viola, tali da generare enactment nell’osservatore, emanazione di possibili scoperte di sé, altrimenti inaccessibili. La tensione che si crea fra il “mondo osservato” dell’opera e il “mondo interno” di chi osserva ha il potere della con-fusione, dove il tempo scompare. Non si smette di essere se stessi proprio in quanto si diventa il movimento osservato, sperimentando l’ambiguità costitutiva dell’esperienza estetica. L’attenzione non diventa negazione ma una via per sperimentare autonomia e dipendenza insieme, come “luogo” dell’essere e del divenire. Esistiamo divenendo con gli altri. La tensione rinviante, quella caratteristica distintiva della nostra naturale propensione ad andare oltre i domini di senso esistenti, generando break-down creativi, e a immaginare e inventare i mondi che abitiamo, è magneticamente sollecitata, centellinata, dalla silenziosa meticolosità del movimento delle opere di Viola. Quella tensione rinviante ci rende una delle distinzioni di noi umani che non abitano mai solo il tempo presente, come sostengo nel libro: Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, con post-fazione di Vittorio Gallese, pubblicato da Umberto Allemandi & C, a Torino nel 2010.

 

 

La penetrazione infinitesimale nell’intimità delle cose del mondo, che si genera nelle creazioni di Viola, al punto di incontro tra l’azione dell’artista, l’opera e l’osservatore, lascia emergere quell’estensione del senso del possibile e del tempo vissuto di cui l’arte è capace. Quinto Orazio Flacco, quando scrisse Carpe diem voleva probabilmente indicare l’importanza della profondità del tempo vissuto, che i greci chiamavano kairòs.

 

Certo noi, specie naturalmente creativa, abbiamo la propensione all'infinito ed è decisivo per noi sfidare la finitudine pur conoscendo la sua ineluttabilità. La durata, l'estensione degli attimi, avvicinano a sognare l'eternità che è vivere il presente; perché è nel tendere verso la bellezza, forse più che nell'appagamento esaustivo, che sta l'incanto.

 

Quello di Bill Viola, dalle opere degli anni ’90 all’interpretazione caravaggesca di The Quintet of the Astonished, è un’espressione originaria dell’infinito contenere e dell’infinita scoperta, mano a mano che l’artista si affida, con una formidabile fusione tra tecnica e poetica, alla creazione di opportunità di estensione dell’esperienza estetica come via per la riappropriazione dell’esperienza tout-court, attraverso la narrazione del tempo esteso, che non è né la fissità di un quadro né la fugacità di un film, ma la simultaneità del tempo.

 

Bill Viola, The Quintet of the Astonished

 

Si può così scoprire come la riappropriazione del tempo, dello spazio e di un modo di intendere il senso della vita, mentre riescono ad essere tra i più moderni, riportano alle intime radici dell’uomo. Il connubio tra tecnica, pensiero e arte riesce nello scopo. Nell’arte di Viola la tecnica e il progetto sono parte integrante dell’opera, e l’esperienza dell’osservatore coevolve con essa. Con la poetica di Viola si può sperimentare quella contemporaneità del classico che Salvatore Settis ha così efficacemente analizzato. Dopo Antonello da Messina, in particolare con Ritratto di ignoto, e Caravaggio, sembrava che non ci fosse evoluzione possibile per rappresentare certi aspetti della luce e dell’espressione umana, e invece Bill Viola riesce ad essere classico e contemporaneo, indicando uno spazio per l’arte che la faccia essere all’altezza della sua storia e spazio e tempo di emancipazione per i contemporanei.

Allo stesso modo Rovelli, come Anne Carson in Antropologia dell’acqua, spalanca la descrizione per riflettere davvero sull’enigma del visibile: conduce un’intrepida meditazione sull’impotenza a trattenere il tempo e la vita, da cui forse deriva la sua bellezza, a trattenere chi amiamo, da cui deriva il nostro incanto e la nostra disperazione, proprio come è impossibile trattenere l’acqua tra le dita.

 

 

Abbiamo bisogno di una nuova mitografia per abitare il nostro tempo. La riflessione sul tempo ci può aiutare a trovarla. Ci serve un mito mite, nell’era di Trump, per creare dei paesaggi vivibili.

Il paesaggio, infatti, è come la lingua madre: non decidiamo di apprenderla né possiamo non apprenderla; non possiamo decidere intenzionalmente di non capirla; non possiamo dire di non appartenervi; non possiamo dire che non la conosciamo; non possiamo conoscere altre lingue se non a partire da quella che ci ha reso animali di parola. Come la lingua madre, il paesaggio è originario. Allora come mai siamo così impegnati a considerare il paesaggio della nostra vita solo come se fosse fuori dal tempo, come se fosse lo sfondo fungibile delle nostre scelte, la quinta teatrale intercambiabile della nostra pervasività senza limiti? Uno sfondo che diviene sempre più ristretto e mortificato, paradossalmente separato dalla nostra esistenza. Eppure il paesaggio è dentro di noi e intorno a noi; è il frutto delle nostre proiezioni e lo introiettiamo divenendo quello che siamo nella nostra continua individuazione. Inizia nelle nostre connessioni sinaptiche, laddove prende forma la nostra mente incarnata, situata ed estesa, e giunge fino a dove la nostra immaginazione ci conduce. Si estende, proprio in questi giorni, fino ai segnali ultimi che ci giungono da Voyager 1, mentre varca la pellicola dell’eliosfera ed entra nello spazio siderale, dopo 35 anni dal lancio e oltre 18 miliardi di chilometri percorsi. L’infinitamente piccolo delle nostre connessioni sinaptiche che ci permettono di immaginare e vivere il paesaggio e la musica dell’infinito che ci giunge dal cosmo, sono il paesaggio della nostra vita, nel tempo che ci è dato di vivere. Uscito dalle turbolenze dell’eliosfera e incontrando i primi raggi cosmici intergalattici, Voyager non ci parlerà più con i suoi segnali che impiegano 15 ore a raggiungerci. Varcando i confini dell’ignoto, non ci invierà più i “suoni del silenzio” provenienti dallo spazio e mai ascoltati prima d’ora. Andrà verso l’infinito portando con sé i segni di noi umani, dal teorema di Pitagora inciso su una lastra di rame placcata in oro, alla musica di Mozart.

 

Avrà però esteso il nostro paesaggio, il paesaggio della nostra vita. Noi piccoli esseri nell’universo infinito possiamo ricavarne un’etica della finitudine e curare il mondo come la nostra casa, il nostro giardino, o smarrirci nella ferita narcisistica che ci fa vivere la finitudine come una perdita di onnipotenza. Ma era ed è l’onnipotenza di Prometeo la finzione, con le sue conseguenze tragiche e distruttive. Un peccato di onnipotenza, forse il più grave dei peccati, ci ha portato e ancora ci porta, a trasgredire un principio etico su cui potremmo essere tutti d’accordo: smettere di distruggere il nostro luogo di nascita, l’unica nostra dimora presente e futura. La mente cosciente di noi esseri umani non può funzionare senza storie e senza dare significato a quelle storie. Avremmo bisogno di una sacralità, di una religio, capace di narrare storie che risarciscano il dualismo e la separazione che abbiamo operato tra noi e la natura, ritenendoci sopra le parti, e misconoscendo il semplice fatto che siamo parte del tutto. Narrino allora i poeti la nostra appartenente finitudine! Cantino alfine, ora che sappiamo di sapere che siamo parte del tutto, la bellezza di essere natura, di essere gli alberi con cui respiriamo, di essere acqua di cui siamo fatti, di essere aria, di essere terra, di essere animali tra gli animali, di essere una bella differenza tra le differenze. Ci aiuti la letteratura, ci aiuti la poesia a generare una mitopoiesi del limite. Del resto era stato Roland Barthes, nella lezione inaugurale al Collège de France del 7 gennaio 1977, a sostenere: “La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci interessa”. Antonio Tabucchi, nel libro postumo appena pubblicato, Di tutto resta un poco, scrive: “La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia”.

 

Scrive Daniele Del Giudice nel suo ultimo libro, In questa luce: “Ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio”. (...) “È comunque il paesaggio che ci è dato, una compresenza grottesca di naturale e artificiale, un fondale della quantità e dei suoi resti; difficilmente tale paesaggio potrebbe consentire quella triangolazione tra Natura, Io osservante e consapevolezza di una Divinità diffusa che garantiva la pacificazione dell’animo romantico. Tuttavia sono i luoghi dove viviamo i nostri rapporti con gli altri, e dove, pur con ogni altrove nella fantasia o nella nostalgia, ambientiamo i nostri sentimenti”.

Da sola quella triangolazione non emerge. Eppure noi ci possiamo provare: siamo mitopoietici. Creiamo miti come vie per conoscere e vivere il mondo.

 

La buona novella è che esiste la mitopoiesi: i miti si creano. La mitopoiesi può essere l’utero, la genesi di un mito mite adatto ad abitare il nostro tempo. “Il mito è una parola”, ha scritto sempre Roland Barthes. Il mito da generare risponde alla parola limite.

 

Si toccano due volte le labbra quando si dice mamma.

Si toccano una volta quando si dice mite.

La parola limite contiene la parola mite.

Allora, su, dal momento che ascoltando T.S. Eliot, “Per noi umani non c’è che tentare”, proviamoci! Creiamolo un mito mite!

 

Diventiamo finalmente attenti al tempo e ad abitarlo adeguatamente! Dell’attenzione a vivere nel limite, l’unica che ci può aiutare ad accorgerci del mondo e di noi nel mondo; l’attenzione, madre della considerazione. Parola magica, la parola considerazione: da cum-sidera (intorno alle stelle), indica bene la nostra capacità di autoelevazione semantica. Per vedere il limite e viverlo ci vuole l’altezza della nostra attenzione considerante. L’attenzione considerante è, del resto, la madre della poiesis, del “fare poetico”. E, come sempre, nessuno lo dice meglio dei poeti che, secondo Luigi Pagliarani, vivono al di sopra delle proprie possibilità.

 

“E a me sembra che la vita, questa breve vita non sia che questo”, scrive Rovelli, “il grido continuo di queste emozioni, che ci trascina, che proviamo talvolta a chiudere in un nome di Dio, in una fede politica, in un rito che rassicuri che tutto alla fine è in ordine, in un grande grandissimo amore, e il grido è bello e splendente. Talvolta è un dolore, talvolta è un canto” (p. 178).

 

Ascoltiamo insieme, la lezione di attenzione di Wislawa Szymborska:

 

Disattenzione


Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare
domande,

senza stupirmi di niente.

Ho svolto attività quotidiane,
come se ciò fosse tutto il dovuto.

Inspirazione, espirazione, un passo dopo
l’altro, incombenze,
ma senza un pensiero che andasse più in là
dell’uscire di casa e del tornarmene a casa.

Il mondo avrebbe potuto essere preso per
un mondo folle,
e io l’ho preso solo per uso ordinario.

Nessun come e perché –
e da dove è saltato fuori uno così –
e a che gli servono tanti dettagli in movimento.

Ero come un chiodo piantato troppo in
superficie nel muro

oppure
(e qui un paragone che mi è mancato).

Uno dopo l’altro avvenivano cambiamenti
perfino nell’ambito ristretto d’un batter
d’occhio.

Su un tavolo più giovane da una mano d’un
giorno più giovane
il pane di ieri era tagliato diversamente.

Le nuvole erano come non mai e la pioggia
era come non mai,
poiché dopotutto cadeva con gocce diverse.

La terra girava intorno al proprio asse,
ma già in uno spazio lasciato per sempre.

È durato 24 ore buone.
1440 minuti di occasioni.
86.400 secondi in visione.

Il savoir-vivre cosmico,
benché taccia sul nostro conto,
tuttavia esige qualcosa da noi:
un po’ di attenzione, qualche frase di Pascal
e una partecipazione stupita a questo gioco
con regole ignote.

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La reinvezione del tempo
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IL VOLTO DI TUTTI I VOLTI, di Alexis Jenni

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"Mio nonno era credente, praticante, viveva in una fede che mi è sempre parsa pesante. Ma non ne parlava, non la esplicitava mai; la posava sulla tavola e la tavola scricchiolava sotto il suo peso."

 

Inizia così Il volto di tutti i volti (Edizioni Qiqajon), un piccolo libro a metà tra narrazione e saggio, biografia e meditazione, vincitore del premio Spiritualités Aujourd'hui 2015, in cui l'autore, lo scrittore francese Alexis Jenni (vincitore nel 2011 del Premio Goncourt con il suo romanzo d'esordio L'arte francese della guerra, tr.it. Mondadori) ripercorre la propria esperienza di fede.

 

 

Jenni racconta di essere cresciuto in una famiglia permeata, da un lato, dalla religiosità del nonno, toccato dal dubbio una sola volta in tutta la vita e poi pervicacemente tornato alla sua fede pesante come un "blocco di ghisa", fonte di "prescrizioni, divieti, precetti di vita inderogabili", e dall'altro segnata dalla silenziosa contestazione della madre (la figlia di quel nonno), "né atea, nemmeno agnostica… semplicemente riservata". Attraverso la figura materna si forma l'impressione che la religione sia ancora un peso, ma questa volta "un peso che non diceva nulla". Da entrambi ricava, perciò, sia una naturale propensione alla fede, sia il desiderio di viverne una versione totalmente diversa, la volontà di "costruire una fede che non sia pesante né oscura, bensì forma di gioia; che non sia ripetizione di testi, applicazione di regole, ma fioritura di immagini attorno a una sorgente irraggiungibile …"

 

Cerca Dio, ne sente, come afferma ripetutamente, l'irresistibile richiamo, il gusto profondo, ma si chiede come farne esperienza, con quali strumenti, percorrendo quali vie. Così, come molti, s'immerge nella spiritualità orientale, pratica diverse discipline, tra le quali lo yoga grazie al quale sperimenterà quell'unione tra corpo, mente e spirito che sarà fondamentale nella sua ricerca religiosa. Ma scoprirà anche, alla fine, assistendo a un ufficio tibetano, che quel mondo non gli appartiene, che non avrà mai gli strumenti per impossessarsene al punto da essere qualcosa di più che uno spettatore sensibile e appassionato. E comprende di dovere cercare la propria strada nel suo mondo e nella sua cultura, come d'altra parte diversi anni fa lo stesso Dalai Lama aveva raccomandato. Rispondendo alla domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dell’attrazione crescente esercitata dal buddismo sugli occidentali, il Dalai Lama diceva di non conoscere alcuna persona che avesse abbandonato la propria tradizione e fosse felice, invitando esplicitamente a indagare innanzitutto nella propria cultura, dato che la verità e la spiritualità non hanno confini, non sono monopolio dell'una o dell'altra tradizione.

Jenni cerca, allora, se e dove, nel mondo cristiano cattolico, sia possibile un rapporto con il divino, fatto di serenità e gioia, come quello che aveva visto in Oriente, e gli sembra di coglierlo nella preghiera dei monaci e delle monache. Nei loro volti, racconta, scorge finalmente una fede che non rinuncia alla vita qua e ora in cambio di una promessa di vita eterna futura – la vita eterna, sostiene tra l'altro, se esiste deve essere già qui, deve cominciare già qui –, una fede che non è sottomissione né enunciazione di norme, ma vera "annunciazione".

 

Come si può arrivare a Dio? Come è possibile sentirsi pienamente immersi in qualcosa, o meglio in qualcuno, che non si può toccare, sentire, vedere, ma ci attrae con un richiamo che è impossibile ignorare, pur senza sapere neppure se esiste veramente? A questo punto, questi interrogativi che hanno accompagnato lo scrittore francese per tutta la vita, cominciano a trovare una risposta che gli sembra avere senso: la strada per arrivare a Dio passa dal corpo e dai suoi sensi.

 

© Denis Félix

 

Quella che Jenni delinea è la sua personale via di accesso al senso del divino, non è la sola, naturalmente, ed è interessante non solo come lo sono tutti i racconti sinceri di esperienze vissute, ma anche per il ruolo determinante e interamente positivo che assegna al corpo, così a lungo penalizzato nella religione cristiana – e con pessime conseguenze –, anche per chi aspira a una vita spirituale. L'identità del corpo e dello spirito, di cui parla Alexis Jenni, in realtà appartiene al più autentico pensiero ebraico e cristiano, ancora libero dall'influenza del pensiero greco, egemone nel momento in cui il cristianesimo si diffondeva nel mondo e poi dominante per secoli sull'Occidente. È greca, non cristiana né tantomeno ebraica, la radice della visione del corpo come fonte del male e prigione dell'anima, e pertanto condannato e mortificato. Il corpo non è un fardello "pesante, inutile, oppure sofferente" come è stato dipinto da occhi malevoli o ingannati da ombre oscure del tutto estranee al cristianesimo reale, che si fonda proprio sulla risurrezione del corpo e non sull'immortalità dell'anima, come l'antica filosofia greca. "Essere ossessionati dal corpo sofferente, il proprio, quello degli altri, quello di Cristo, rende difficile l'accesso alla gioia", sostiene Jenni, mentre Dio è gioia pura e libertà. E se tanto non bastasse, soltanto il corpo è "quell'intersezione di due mondi", quell'unico punto in cui umano e divino possono incontrarsi e riconoscersi, amarsi o respingersi.

 

Alexis Jenni racconta, poi, come attraverso i sensi sia possibile fare in qualche modo esperienza di Dio, intersecare il divino, e comincia dal gusto, un "senso povero", ma importante perché proprio seguendo il piacere che traiamo dalle cose, tracciamo il percorso della nostra vita. Per quanto lo riguarda, afferma: "Ho il gusto di Dio", e questa inclinazione naturale lo ha portato a cercare, con tutto se stesso, di liberarsi dalla zavorra dell'esempio del nonno per conservare la fede grazie a un modo diverso di interpretarla e di viverla. Parla, poi, della vista che, pur essendo il nostro senso principale, è irrilevante per la fede, giacché "dello spirituale non si vede mai nulla". Ma d'altra parte, come ci ha dimostrato la scienza confermando l'intuizione che Saint-Exupery mette in bocca al Piccolo Principe, l'essenziale è invisibile agli occhi, e alla vista sfugge completamente la vera natura della realtà. Essa è importante per orientarsi nel mondo materiale, ma nel mondo dello spirito contano molto di più percepire e intendere.

 

A questo proposito, l'autore racconta di un'esperienza vissuta in una piccola chiesa romanica, raggiunta dopo un grande sforzo compiuto in bicicletta: nell'assoluto silenzio, sente che "questo"– così chiama il trascendente ancora indicibile – che cerca è proprio lì, presente, vivo e riconoscibile. E capisce che il suo volto, se gliene si vuole dare uno, non può essere altro che "il volto di tutti i volti". È vero, Dio non ha un volto, ma il suo volto è quello di tutti gli uomini ed è riassunto nell'unico volto di Cristo "che assomiglia a tutti e a ciascuno". In quel momento percepisce Dio come assoluta benevolenza per ogni vita e per ogni cosa, oceano di benevolenza, davanti al quale si sente sommerso da un'infinita riconoscenza e gratitudine per quella meravigliosa invenzione che è la vita.

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La guerra di Instagram, Snapchat e Facebook

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Quasi due anni fa, qui è stato pubblicato un mio articolo su Snapchat, un social network all’epoca non molto conosciuto in Italia che ho scelto di analizzare per la peculiarità delle sue storie, brevi testi sincretici composti da video e immagini, dalla durata e dalla permanenza limitata, copiate neanche troppo velatamente da Instagram e Facebook, grazie a cui sono diventate di dominio pubblico. Negli ultimi tempi, infatti, le storie sono diventate il canale comunicativo preferito dei personaggi pubblici, tanto che la stampa spesso e volentieri le usa come fatti oggetto di notizia.

 

Dopo un boom iniziale, le storie di Snapchat hanno registrato un declino di visualizzazioni attestato attorno al 40% causato dall’avvento di quelle di Instagram che, dal canto suo, in 25 settimane dal lancio, da agosto 2016 fino metà gennaio 2017, ha raggiunto i 150 milioni di utenti giornalieri dopo un periodo di magra, probabilmente dovuto al social di Spiegel e Murphy. I primi a venire meno agli aggiornamenti di Snapchat sono stati gli influencer, che hanno immediatamente appurato il calo di visualizzazioni spostandosi sul più fruttuoso Instagram. Il maggior volume di condivisioni di storie su Instagram è dovuto alla componente demografica, ovvero al target di utenti dai 25 ai 35 anni, la cui maggior parte non si è resa conto della clonazione coatta di Snapchat, dato che, come abbiamo fatto presente prima, la maggioranza degli snapchatters ha dai 18 ai 24 anni. Instagram si conferma più trasversale alle varie fasce di età, come dimostra il confronto tra le visualizzazioni delle storie del brand Nike sui due social media: quella più popolare di Snapchat ha raggiunto 66.000 visualizzazioni, mentre la prima condivisa su Instagram ha raggiunto le 800.000 in 24 ore.

 

I dati appena esposti servono a tratteggiare un quadro della situazione e a individuare i protagonisti principali di queste storie che possono essere anche guardate attraverso lenti particolari, ossia dei filtri da apporre alle immagini o ai video, ovvero l’altra innovazione realizzata da Snapchat con dignità di copia da parte di Facebook e Instagram. Le Lenti lanciano una sfida al reale incidendo sullo statuto ontologico e culturale dei testi sincretici social mediali; la visualità di massa acquisisce una nuova prassi figurativa incentrata sull’apposizione di maschere che distorcono il volto e la voce. In questo modo si offre al pubblico un simulacro istantaneo di se stessi, una simulazione di esistenze ed esperienze ulteriori, spettacolarizzando il contenuto creato perché, alla fine dei conti, se di messa in scena si tratta, bisogna sorprendere chi guarda.

 

Snapchat ha instaurato un regime scopico mutuato da una forma della cultura popolare, quella della parodia, dei meme, per fare auto-ironia e suscitare empatia, o solo ilarità, nei follower.

Il volto si deforma e assume fattezze inconsuete, i connotati vengono ricostruiti su tratti stereotipati o non umani. Il tocco sullo schermo rende possibile il riconoscimento del viso dell’utente, a cui le maschere-lenti aderiscono quasi alla perfezione, separandolo dal resto del corpo e donandogli nuova unità, temporalità, spazialità e forma. La maschera ingloba lo sguardo, che penetra l’osservatore installando un débrayage attoriale e spazio-temporale, ma soprattutto, come hanno scritto Deleuze e Guattari in Mille piani, “non nasconde il viso, è essa stessa un viso”, significa un divenire garantendo la “viseificazione della testa e del corpo”. Seppur per un tempo limitato, le Lenti contribuiscono a fondare l’identità della comunità di utenti, offrendo una griglia di lettura simile a quella delle funzioni riconosciute alle maschere dall’antropologia culturale e dall’etnologia. La Lente si rivela essere un attivatore di antropo-poiesi, un modello di costruzione dell’uomo, di fabbricazione del suo fare, che rimette in gioco relazioni sociali e individuali. Mediante le lenti lo snapchatter realizza se stesso sulla dicotomia velamento/svelamento, o simulazione/dissimulazione, dove da un lato trascende la sua reale identità per manifestarsi in una certa condizione, mentre da un altro esplicita ciò che generalmente nasconde. Esibizione e occultamento sono due facce di una stessa medaglia, che si richiamano costantemente nella narrazione di modelli di vita.

 

La creazione di esseri zoomorfi, metà frutta, oppure mascherati da hippie o clubber, appaga il desiderio di trasformarsi, di mimetizzarsi, accrescendo l’universo di senso dell’individuo. A tale proposito Francis Affergan (2005, p. 314) ricorda che “le maschere spazio-temporalizzano una storia vissuta o traiettorie di vita particolari, mettendo in scena e contribuendo a visualizzare degli eventi che, diversamente, resterebbero invisibili o muti”. Le lenti possono essere inquadrate rispetto a una presa di coscienza del presente, del momento di vita, tanto che potremmo definirle con Lévi-Strauss (1985, p. 179) “finzioni socializzanti”, un inganno per piacere e piacersi, per essere accettati e condivisi. Possiamo pensare alle lenti come a un compromesso a cui scendere per trasfigurare l’identità in modo socialmente desiderabile, un bricolage immaginario delle reinvenzioni del reale, in cui la distruzione e ricostruzione costante delle storie costituisce una dimensione ludica della quotidianità, finalizzata a trasformarla in evento.

Chi condivide il proprio vissuto sui social, inforca delle lenti, indossa delle maschere che operano un processo di estetizzazione dei loro comportamenti.

 

Instagram vs Snapchat.

 

Alla fine dei conti, le storie sono lo specchio del byt lotmaniano, del conglomerato di pratiche del quotidiano, che, come afferma Franciscu Sedda (2012, p. 118), consiste in uno “spazio di una ambivalenza fondamentale, di una costante tensione fra familiarità e straniamento, automatismo e invenzione, ripetizione e differenza”. Familiarità perché le storie raccontano del decorso della vita, della routine e delle sue piccole e grandi variazioni, mentre straniamento e invenzione descrivono l’arricchimento del quotidiano con maschere e filtri, quegli effetti che rendono speciale la normalità. Il tutto è reiterato in blocchi scanditi da un massimo di tempo, diversi tra di loro per forma e contenuto, ma ridondanti in quanto ricchi di elementi formulari.

 

La denominazione “storia” pone alcune questioni di ordine concettuale sulla sua definizione da un punto di vista teorico. Secondo Gérard Genette (1976, p. 75) la storia è “il significato o contenuto narrativo”, dove il significante è il racconto, mentre il discorso, la narrazione, è l’atto che lo produce.

Rispetto alle categorie paradigmatiche di tempo e persona, per Émile Benveniste (1971) la storia, o racconto storico, include il passato e la terza persona, mentre il discorso si caratterizza per il presente, l’imperfetto e il futuro, declinati in prima e seconda persona. Le storie social appartengono alla dimensione del presente durante la loro enunciazione, però cessano istantaneamente di farne parte quando vengono pubblicate. Chi realizza una storia può farlo in prima persona, parlando di sé, o riprendere eventi a cui partecipa, presenziandovi come narratore omodiegetico. In entrambi i casi il tempo della storia, del racconto e della narrazione coincidono, e i crononimi sono ben specificati da marche, espresse in ore, che indicano il momento in cui è stato pubblicato il contenuto e, a volte, da filtri recanti data e orario della ripresa. Il discorso si trasforma in storia perché si instaura un dialogo, pur se schermato e a distanza, tra soggetto della narrazione e destinatari, mirato a innescare una serie di reazioni e a generare un circolo virtuoso di interazioni.

 

Le storie dei social media sollevano un problema ermeneutico al pari del racconto, perché non si tratta di imitare l’azione in accezione aristotelica, ma bensì di narrarla nel suo farsi, di registrarla sic et simpliciter nella sua autenticità, di documentare il discorso. Parafrasando Giovanni Manetti (2013) “la grande operazione manipolativa” di Snapchat, Instagram e Facebook trasforma il discorso in storia e viceversa, tempi e persone incluse. Gli attori dell’enunciato sono colti mentre stanno agendo, momento che viene cristallizzato e ripetuto in loop per un giorno, operando una continua celebrazione dello scorrere del tempo. Ecco che la storia dei social assume significato proprio rispetto al tempo, potremmo intenderla come l’atto di bloccare quell’istante lungo trenta secondi facendolo diventare durativo, prolungando la sua breve vita in extremis, per altre 24 ore.

 

Se inquadriamo la rapida consunzione delle storie nel discorso di moda operato dai brand, ci rendiamo conto che siamo innanzi a una metafora dei consumi. Consumo e consunzione non hanno in comune solo il rapporto di sinonimia, la loro relazione serve a esplicitare l’atto di usufruire di un bene fino alla sua distruzione e, allo stesso tempo, all’annullamento del consumatore nei confronti del bene stesso. Dunque le storie condivise dai profili griffati possono valere come presa di coscienza della realtà effimera delle cose, del loro ciclo di vita sempre più breve e veloce.

 

Pertanto le storie di Instagram condivise da brand e influencer incarnano strettamente la loro forma di vita, cristallizzata nel momento stesso in cui accade, producendo un surplus di senso, un supplemento prezioso che rende più efficaci le immagini “permanenti” pubblicate sul social network. Le storie sono più intime e private delle fotografie degli outfit, raccontano di famiglia e amore, di situazioni comuni a tutti, come ad esempio pranzo e cena, di risvegli romantici e di attese aeroportuali. Sottraendo lo sfavillio del lusso resta la quotidianità delle persone, ciò che basta a rendere credibili i contenuti a milioni di seguaci. La scansione temporale è sempre uguale, quel tanto che basta a rendere familiari, intime e rassicuranti le storie, dove la ridondanza delle situazioni soddisfa le attese dei follower, rimarcando la schematicità della forma di vita in chiave pedagogica e informativa. Gli oggetti e gli eventi del sistema moda sono rappresentati senza illusioni, senza sovrastrutture metafisiche, esplicitando la loro durata limitata per poter gioire della pienezza della loro esistenza.

 

Nel mio volume Social Moda. Nel segno di influenze, pratiche e discorsi (Franco Angeli, 2017) ho ampliato la disamina delle storie evanescenti perché le considero di fondamentale importanza nell’ambito del sistema della moda e dei discorsi digitali in generale. Perciò ho deciso di condividere con i lettori un brano tratto dal mio ultimo lavoro, rimaneggiato per l’occasione, per aggiungere un tassello al mosaico analitico nato proprio su Doppiozero.

 

Nota di lettura

 

Le storie e le loro lenti costituiscono un terreno di indagine congeniale alla semiotica e ad altre discipline quali l'antropologia strutturale, l'antropologia filosofica, la linguistica e la narratologia. A partire da tre concetti cardine quali maschera, storia e discorso, ho fatto riferimento a una costellazione di teorie che hanno contribuito a comporre le categorie d'analisi presentate in questo brano. Per ulteriori approfondimenti sulle maschere consiglio la traduzione italiana de La via delle maschere di Lévi-Strauss (Einaudi, 1985), e del contributo di Francis Affergan nel libro corale Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia (Meltemi, 2005), a cui aggiungo le osservazioni di Deleuze e Guattari in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 2003). Benveniste e Genette si sono a lungo occupati della problematizzazione concettuale di storia e discorso, specialmente nei rispettivi volumi Problemi di linguistica generale (Il Saggiatore, 1971) e Figure III. Discorso del racconto (Einaudi, 1976). Per quanto concerne la semiotica rimando all’excursus storico di Giovanni Manetti dal titolo In principio era il segno: momenti di storia della semiotica nell’antichità (Bompiani, 2013) e alla semiopolitica delle culture di Franciscu Sedda, autore di Imperfette traduzioni (Nuova Cultura, 2012).

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Bun sì cujun no

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Ragionando sulla catastrofe di piazza San Carlo

«Riesci a respirare? Vedi?» chatto alle 20.54 di sabato 3 giugno 2017 al mio figlio sedicenne da casa, «Ahahah si» mi risponde alle 21.03. Un genitore, quando il figlio comincia a girarsene da solo in città con il suo smartphone, all’inizio è molto apprensivo: cerca di localizzarlo in modo onesto, senza spyware, cerca di sapere dove va, con chi va, cosa fa, quando ritornerà. Ha paura che venga travolto da un’auto mentre legge su WhatsApp una delle chat dei suoi dieci o venti gruppi, pensa che possa essere derubato o accoltellato. Ma se ha un buon rapporto con lui, può diradare, sapere più o meno qual è la banda con cui esce, quante birre più o meno berranno, e quanti spinelli più o meno si faranno. Lo lascia andare per il suo mondo, per la sua città, con il suo branco, perché sa che la sua città, Torino, Italia, 3 giugno 2017, grosso modo ha un basso tasso di possibile strage terroristica. Non è Parigi, non è la Francia, non è Londra, non è il Regno Unito, ma sa che poi ci sono la Norvegia e le stragi in un ritiro di ragazzi laburisti, e uno studente impazzito che mitraglia in un liceo americano… Cerca di non farsi divorare dal panico quotidiano, che ha sostituito o che si accompagna molte volte al pane quotidiano per cui molti di noi si battono ogni giorno.

 

 

Così, come cantava Noel Gallagher degli Oasis, io il 3 giugno mi rilasso e « I'm gonna start a revolution from my bed», perché nella politica credo ancora, ma preferisco la politica dell’amore, in due in un letto abbracciandosi e accarezzandosi, perché l’amore che si espande da me in un altro, e agli altri, e al cosmo, è molto più forte e persistente di ogni contingenza politica e di ogni egoismo.

 

Alle 22.30 di sabato 3 giugno 2017 squilla il mio, di smartphone: è la suoneria personalizzata che ho riservato a mio figlio sedicenne; quando tuo figlio è fuori con gli amici, e ti telefona, c’è qualcosa che davvero non quadra. Mi sfilo dall’amore e lo sento senza fiato, con la voce roca, «Pa’ c’è stato un attentato in piazza San Carlo! Sto scappando! Sto correndo verso casa! Sono tutti impazziti! Sono scappati tutti! Dicono che è una bomba, che hanno sparato! È un massacro! È pieno di gente a terra, ne ho dovuti scavalcare correndo, c’è sangue dappertutto!». Dopo pochi minuti citofona: si è fatto di corsa più di due chilometri, è un atleta ma i polmoni gli stanno scoppiando mentre cerca di capire cosa è capitato.

 

 

Ma cosa è capitato è una catastrofe civile: piazza San Carlo, nel cuore barocco di Torino, può contenere secondo la Questura sino a 45.000 persone gomito a gomito. Accendo SkyTg24 e comincia la diretta: nessuno sa niente, nessuno capisce niente, né quella sera, né nei giorni successivi. Un giudice indaga da sette giorni, ma non è ancora chiaro cosa ha originato tre successive spaventose ondate di panico che hanno schiacciato in ogni direzione i 30.000 ragazzi (della Juve e non della Juve: mio figlio è del Toro come il figlio di Bonucci), che erano lì per una serata davanti al grande schermo televisivo dove si trasmetteva dal Millennium Stadium di Cardiff la finale di Champions League di calcio tra Real Madrid e Juventus. Al 3-1 del Real la piazza è muta di afflizione. Quel silenzio è stato il principale fattore ambientale che poi, per un petardo forse, per uno stronzo che ha spruzzato i vicini di spray urticante al peperoncino, per non si sa tuttora cosa, ha scatenato una tempesta perfetta di panico nella folla.

La folla è folle, si sa.

 

Ma tutti, tutti quei 30.000 hanno ormai come noi nel sangue l’ordinaria adrenalina che ci fa scattare a correre quando può toccare a noi che un militante seguace dei tagliatori di gole del Daesh ci abbia scelto per quel minuto di quel giorno in quella piazza di quella città.

 

 

Poco dopo lo schermo di SkyTg24 si taglia in due, perché parte la diretta dal London Bridge di Londra: un altro furgone lanciato contro la “normale folla di cittadini occidentali in festosa serata”, altri militanti Daesh che balzano giù e tagliano gole sino a che il poliziotto più vicino non li trasforma in kamikaze morti.

 

Quella sera ho sentito allargarsi dentro di me e dentro di noi una sensazione immensa, troppo vasta per ragionarla, di disfatta morale. La piazza svuotata, una distesa di bottiglie di vetro rotte, di scarpe perdute, zaini perduti, occhiali rotti, sciarpe usate come bendaggi. 

Quindi, nelle ore e nei giorni successivi, chi era lì ed è diventato uno degli oltre 1.500 feriti, chi non era lì e aveva figli e amici lì, chi era lì come mio figlio e non sapeva più niente dei suoi amici e dopo un’ora riusciva a fare il censimento, e a conteggiarne uno al Pronto Soccorso con i piedi e le ginocchia e le braccia tagliate dai vetri di birra venduti abusivamente nella piazza sin dal pomeriggio, giorno dopo giorno ha cercato di sapere qualcosa di quel puzzle impazzito.

 

Sono passati sette giorni, e la paura poco per volta è diventata indignazione per la inaudita leggerezza organizzativa di Città e forze di polizia, commozione per gli 8, poi 5, poi 3 che erano in coma in fin di vita (una donna rischia ancora di morire perché ha il torace sventrato dalla calca), poi sbalordimento per l’apparire il giorno dopo della sindaca Appendino in un paio di minuti di dichiarazione, che con la permanente fresca e di ritorno dalla tribuna di Cardiff, il volto robotico e inespressivo, la voce a-patica e inespressiva, dichiara le prime parole dello “Stato” cui solitamente noi affidiamo i nostri figli in uscita nel mondo limitrofo: «Circa i fatti accaduti ieri sera in Piazza San Carlo a Torino durante la proiezione su maxischermo dell'incontro Juventus-Real Madrid, ove la folla presa dal panico e dalla psicosi da attentato terroristico, causati da eventi in corso di accertamento da parte dell'Autorità Giudiziaria, ha lasciato precipitosamente la piazza con danni causati dalla calca, le attività di soccorso poste in essere nell'immediatezza hanno consentito allo stato di medicalizzare 1527 persone di cui 1142 a Torino e le restanti negli Ospedali limitrofi…»

 

Da quel momento la questione è diventata anche politica: chi non è del M5S come la sindaca ne ha chiesto la testa, anche tutti i partiti all’opposizione che al ballottaggio dell’anno scorso l’avevano votata pur di far cadere la testa al sindaco PD Piero Fassino. Il Ministro degli Interni Minniti (PD) si reca a Torino e verifica eufemisticamente «che qualcosa non ha funzionato nella prevenzione e nelle garanzie di sicurezza»; poi l’ex sindaco PD della Città, Chiamparino, ora Presidente della Regione Piemonte, appare in tv e dice che «qualcuno dovrebbe almeno avere l’umiltà di scusarsi per il poco fatto nel senso della prevenzione e della sicurezza». E si arriva a venerdì, quando il Prefetto di Torino Saccone (il cui capo è il Ministro degli Interni) decide o viene invitato a decidersi a fare lui le prime scuse: «Io sono il responsabile generale dell’ordine e della sicurezza pubblica e quindi rientro tra le persone che devono chiedere scusa. Però guardando al futuro, e imparando da questa lezione così dura. In questo momento non si sa che cosa abbia innescato il panico, perché alla base c’è un “non fatto” che rende il tutto ancora più difficile da prevedere e da gestire».

 

Così, una settimana dopo, racconto quella notte, in cui il riquadro sinistro del televisore mostrava un vero attentato terroristico a Londra, con veri morti, e tanti veri poliziotti e vere ambulanze, mentre il riquadro destro mostrava un non-vero attentato terroristico a Torino, con alcuni quasi-morti, 1.500 ragazzi tagliuzzati e insanguinati, pochi poliziotti, una sola ambulanza, e un Sindaco molto molto diverso dal Sindaco di Londra Khan (di fede islamica), che appare subito in televisione per farsi portavoce di empatia, di incoraggiamento, di commozione, di resistenza, di coraggio, di solidarietà intorno agli ultimi veri valori che rimangono nelle persone più che in tanta politica e tanto stato: il ragazzo immigrato del Ghana che insieme a un alpino italiano si gettano a proteggere il bambino cinese calpestano dalla calca, facendolo respirare e portare in ospedale; i ragazzi di buon senso che allineano le scarpe abbandonate e i telefonini persi perché qualcuno possa ritrovarli; i pochi cittadini residenti nella zona che aprono i loro portoni quando ragazzi terrorizzati citofonano implorando di aprire, e che li confortano poi nella loro casa con un bicchier d’acqua e un abbraccio (come è accaduto a Manchester e a Londra nei recenti attentati)…

 

Mio figlio si è sentito in colpa per giorni perché «pa’ scappando ho dovuto calpestare gente caduta»; ma solo io gli ho parlato: né un sindaco, né un altro adulto, né uno dei pochi poliziotti che lasciavano bonariamente entrare i ragazzi con gli zaini pieni di birra perché “siamo tutti tifosi e stasera non c’è pericolo”.

 

In Francia, in Inghilterra, la consuetudine con l’imprevedibile morte improvvisa per terrorismo ha denudato l’unico nocciolo che ci permette di non impazzire d’odio, rabbia, angoscia: la solidarietà, la compassione, la capacità di “non guardare indietro con rabbia”, ma ancora avanti con la certezza che i valori della vita sono la bellezza della creatività e la dolcezza degli abbracci.

 

Una settimana dopo quella sera anche la sindaca M5S di Torino Chiara Appendino ha trovato la lucidità e la calma per inviare una lettera aperta ai cittadini, pubblicata da "la Stampa" il 10 giugno: «Ad essere ferita è un'intera città, che per la prima volta ha conosciuto su se stessa gli effetti di un clima di instabilità globale e crescente incertezza, pur in assenza di un evento terroristico...» E ancora: «Per ogni persona a terra c'è n'erano due che la rialzavano. Per ogni ferito c'era uno sconosciuto che lo medicava o lo proteggeva. Per ogni grido di paura c'è stata una voce a tranquillizzare... Un sindaco, però, rappresenta un'intera comunità... per questo desidero porgere le mie scuse a tutte le persone coinvolte».
Anche il Pubblico Ministero Antonio Rinaudo dopo una settimana forse ha trovato un principio del perché: dopo il terzo gol del Real qualcuno avrebbe urlato insulti contro i giocatori della Juventus, e un gruppo di ultras avrebbe reagito con lanci di oggetti e un principio di rissa... di lì rumori strani, secchi... forse petardi... di lì le ondate di terrore nella folla.

 

Ariana Grande, al cui concerto sono morti ragazzi per terrorismo, si è ritrovata pochi giorni fa a Manchester con Chris Martin dei Coldplay, e ha cantato con migliaia di ragazzi protetti in quell’assembramento pubblico da molti poliziotti molte ambulanze molti controlli e bicchieri di plastica per la birra, Don’t look back in anger degli Oasis. ONE LOVE era il motto, e da questa vicenda spero che mio figlio esca con la convinzione che ci si salva la pelle senza fare del male agli altri, aiutando gli altri.

 

 

Verità e amore hanno sempre portato guai agli uomini che l’hanno praticata e predicata. Jesus in Matteo 10;16 dice «siate prudenti come serpenti e semplici come colombe». I Legnanesi, in un loro magnete, scrivono «Bun sì, cujun no». E i monaci buddhisti cinesi, a furia di prendere bastonate dai briganti impararono la difesa non-offensiva, ovvero le arti marziali con mani e bastone.

 

 

Poiché ci restano amore, prudenza, semplicità, ma non passività cogliona alla indifferenza di tante donne e uomini di potere o alla ferocia assassina di terroristi assassini che hanno letto poco e male il Corano, io concludo ricordando con simpatia l’episodio di quell’hooligan che a Londra, urlando «fuck off! sono del Millwall!» (squadra di calcio della seconda divisione inglese), si è scagliato a mani nude contro gli accoltellatori per prenderli a cazzotti, rimediando varie coltellate. «Estote parati» ha tra l’altro detto Jesus: «Siate pronti», tenete accese le lanterne, perché la morte può cogliervi in ogni momento, ed è più bello morire in umana condivisione. Magari con un buon corso di karate o krav maga ebraica per i mala tempora che currunt. «Non mettere la tua vita nelle mani di una rock band» cantavano gli Oasis: non deleghiamola più neanche noi nelle mani di qualche anaffettivo. Restiamo uniti.

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Ragionando sulla catastrofe di piazza San Carlo
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Postcards from South Africa

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Italian Version

 

A Short History of South African Photography, by Rory Bester, Thato Mogotsi and Rita Potenza, is an exhibition hosted by Fotografia Europea XII at the Cloisters of St. Peter, Reggio Emilia, to celebrate the 40thanniversary of the agreement (June 26, 1977) between Reggio Emilia and the African National Congress, and the centenary of the birth of Oliver Tambo (1917-1993), leader of the anti-apartheid movement and the ANC.

Chronologically ordered, it is a selection of images that traces the history of South Africa from the dominion of the British Empire to present day. The shots come from archival collections (Die Erfenisstigting Archives, UWC Robben Island Museum Mayibuye Archive, BAHA, Transnet, Times Media, Independent Media Archive), museums (Museum Africa, McGregor Museum, Smithsonian Institution), and artists. It is notable how the authorship of individual photographers gains more and more importance as the show moves forward, progressing closer to the present day. This also marks a shift from a photograph that is historical documentation to one that is historical metaphor.

 

It is a surprise to me that it is still preferable to devote space to the reconstruction of the memory of a former British colony, rather than to the Italian colonial history, especially at a time in which the racist connotations of the word ‘integration’ increase in volume and quantity. An interesting ‘oversight’ is on the ground floor of the cloisters where, at the entrance of the Berengo Gardin exhibition, a large picture of the artist's studio also features African masks from his collection. I call that an ‘oversight’ because, while I do not blame the curators of Berengo Gardin's exhibition, I think it is particularly symptomatic of the slow evolution of the decolonization mindset within our geographic boundaries, as proved by the (avant-garde?) spoils of past Cannibal Tours.

 

The exhibition A Short History of South African Photography is an example of how it is possible, working with archives, to not only present but absolutely construct and select a story and a memory that are not necessarily collective. In fact, as can be expected, almost every shot up to the 2000s was made by white photographers. Indeed the show's viewers, myself included, are all white (which is quite common in Italy).

 

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto Twins, 1995, Courtesy the Artist.

 

Opening the show is a shot by Abe Goldstein about a miners' dance in Johannesburg in 1920. Many visitors to the South African mines in the 1920s were invited to watch these traditional dances performed by African miners. Photos of these performances for white visitors were common in that period and would appear on postcards, and business and tourist brochures. In the Goldstein shot, it is not clear whether it is a staging or spontaneous act. In this way, a photograph is capable of censoring the memory itself: the colonial gaze is inherent in everything that is not seen and which remains hidden.

 

Photography is not only a form of testimony, but is also, above all, a form of interpretation of history, as can be seen from the comparison of two images dated 1928: in the first, the South African women's national swim team consists of white women in either a swimsuit or uniform; in the second, The Waterbearers of the Venda Tribe of Sibasa are portrayed by Irish photographer Alfred Martin Duggan-Cronin. The connection of the two photographs reveals an ethnocentric prejudice: in seeking the nakedness of primitive man, Duggan-Croninimmortalizes it from the "objective" point of view of the European ethnographer.

 

Coming from Museum Africa is a photograph taken in Pretoria in 1938, depicting A Parish Priest with Two White Men Dressed as Zulu Warriors During the Celebrations of the Great Trek Anniversary, the "great migration" of the Boer colonists (in Dutch, "farmers") who, in rebellion against the policies of the British rule established in 1835, left Cape Colony and headed north, where they founded some republican communities beyond the Orange River, across into Natal and beyond the Vaal River. This carnivalesque image reminds us that, when slavery began in 1658, the first schools were run by confessional churches, and the fact that one of the consequences of the Great Trek was the establishment of the apartheid regime. Thus, a disconnection can be seen between the documentation and representation of apartheid: by focusing on minor details, in this case almost humorous, a vast part of reality is left outside the visual field of the images.

 

In 1949, the Voortrekker Monument in Pretoria, designed by Gerard Moerdyk (1890-1958), a great admirer of Mussolini, was inaugurated. To represent the event, celebrated in the city’s amphitheater, the exhibition curators chose a shot from the Die Erfenisstigting archive, where the separation between a white and a black crowd is highlighted. The inaugural ceremony held on December 16, 1949, commemorates the triumph of Voortrekkers over the Zulu inthe Battle of Blood River in 1838. It is an attempt at reconciliation between British and Afrikaner settlers.

 

In a photo on the opposite wall it is possible to see three well-dressed black men playing a sort of tic-tac-toe game on a sidewalk. Behind them, on the wall of a building, are the words "We won’t move." This photo, titled Waiting to Commence Forced Removals, was shot at Sophiatown around February 9, 1955, when D.F. Malan sent 2,000 police armed with guns and rifles to destroy Sophiatown, and remove and relocate its 65,000 inhabitants to Meadowlands. The National Party set up a residential-reserve enclosed compound with homes devoid of toilet, water and electricity. What is emerging also here is therosy and glossy portrayal of an episode of mass racism. Instead of the dead and the deportees, the photographer decided to capture three well-dressed men playing. In fact, even in fascist colonial photographs, the "indigenous" rarely worked.

 

Jürgen Schadeberg, We won't move, Sophiatown , 1955

 

However, I find it problematic that an image like this is "left as is" without accompanying explanations that mention the Natives Resettlement Act of 1954 by the National Party, or that suggest the disguised violence in a propaganda image. One may think the fault lies with the ignorance of those who cannot decode an image because they do not know the history of South Africa. But what if this happens within an exhibition that aims to illustrate a Short History of South Africa? With what impression can a visitor leave such exhibition if complete contextual information is not provided? Probably with the same impressions that come from a honeymoon safari or hunting trip between whites to South Africa.

 

Eli Weinberg is the photographer of We Stand by Our Leaders, portraying a crowd near Drill Hall, December 19, 1956, on the opening day of the Treason Trial of Nelson Mandela and other ANC leaders. Roads outside the courtyard are crowded with thousands of demonstrators. In the shot, a row of people of color, sympathetic to the accused, are seen in a polite and dignified manner. Men and women carry signs, "We Stand by Our Leaders"; among them, a smiling white baby in shorts and with a wristwatch stands out. He is the son of the photographer.

 

Eli Weinberg, We stanbd by our leaders, 1956, courtesy Times Media Collection.

 

Photographs like this, taken in public, show a form of complicity or obligation, mediated by the relationship between the photo’s subject and the white photographer: the apartheid system — with its immense resources of physical intimidation, bureaucratic control, and psychological coercion — causes the opposition, under the control of police and soldiers, to remain "in their place." The rigidity of the poses conveys an equally rigid interpretation of the event, time, and aesthetic choice of the photographer, opening up a reflection on the complicity of photography in building an archive.

 

Eli Weinberg, Police check passes and parcels, 1961, Courtesy UWC, Robben Island Museum, Mayibuye Archive.

 

Women taking a break on the lawns in front of the Union Buildings, Women's March, is the photograph chosen to symbolically represent the year 1956. Twenty-thousand women organized a march to Pretoria’s Union Buildings to protest the proposed amendments to the Urban Areas Act. They left signed petitions, addressed to Prime Minister Strijdom, who was sympathetic to Afrikaner nationalism, at his office doors. A protest chant composed for the occasion became a symbol of the women's struggle in South Africa: "Strijdom, Wathint 'abafazi, wathint' imbokodo" ("Strijdom, now you have touched the women, you struck a rock”). In the photograph, women take a break sitting on the lawns in front of the Union Buildings; they do not sit on the empty benches because they are reserved for Europeans. The archive is also an area of uncertainty in which the sense of guilt and atonement expresses the status of the privileged.

 

The first color image you encounter is At Durban: But the rickshaw puller is from Zulund. In the photograph, a Zulu man in traditional costume brings a white couple on his rickshaw to Durban town, one hour away by car. The three are posed smiling, looking at a fourth man who seems to be talking to them cordially, a few steps from the means of transport. Zulu men who ride rickshaw can still be found close to the Durban seafront.

 

Since 1950, colonial fascism has also been expressed through the law of citizen registration, which established the creation of registers on which the racial details of the inhabitants must be recorded. Each person is classified as "white, mixed, or indigenous, as the case may be." In the photo by David Goldblatt, Afternoon tea being served to two men repairing a car on a sidewalk in Fairview, taken in Johannesburg in 1965, the racial inferiority of a black woman serving tea to two white men is clearly shown.

 

David Goldblatt, Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, 1965.

 

The exhibition continues with the funeral of “The Cradock Four” and the struggles for non-racial politics through boycotts.

 

David Goldblatt, After their funeral a child salutes the Cradock Four, Cradock, Eastern Cape, 20 July 1985, 1985, black and white photograph.

 

The narrowest passageway of the exhibition is dedicated to 1994 and the "unconditional" release of Nelson “Madiba” Mandela, when the African National Congress (ANC) took office and Nelson Mandela was elected as the first president of a post-apartheid nation. It seems that the curators, opting for this setup, wanted to highlight the cosmetic policy of the move from a racist state to a confederal democracy, which has not disassociated the new South Africa from the colonial capitalism that has governed the country since the 16th century. This seems to be confirmed by 21st century photographs that are more evocative than actual documentation of events.

 

A photograph taken by George Hallett in Cape Town in 1997, Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission, portrays a security officer showing this method of torture to the Commission for Truth and Reconciliation. The reconciliation of past liberation movements and racism put into action by the Commission for Truth, led by former Archbishop Desmond Tutu, reflects the spirit that animates the new South Africa. Among those who have obtained amnesty for crimes committed before April 1994 are assassins of members of the ANC and other political opponents, right-wing terrorists, members of the Conservative Party and of the Boere Kommando group. This feeling of reconciliation is also fueled by the relationship between white European imperialist settlers and a small corrupted"colored" and Asian bourgeoisie who work with colonial multinational companies.

 

George Hallet,  Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission,  Cape Town, 1997.

 

In South Africa today, white people control almost the whole of the economy, directly and indirectly, and the majority of the excluded population functions as an internal neo-colony. In Italy, the policy of racial integration also translates into the opening of refugee camps, or parts of territory outside the normal legal order, where the legal status of the refugee is questioned (due to the discontinuity between birthplace and nationality). The presence of an exhibition in Italy in which apartheid is censored by the eyes of white colonists, while the last ten years of South African history are documented by historic metaphors of photographers of color, is an evidence of the self-righteousness with which history is turned into an embellished series of aesthetically respectable postcards.

 

Translation by Laura Giacalone.

 

A Short History of South African Photography, by Rory Bester, ThatoMogotsi and Rita Potenza. Fotografia Europea XII, Cloisters of St. Peter, Reggio Emilia, from May 5 to July 9, 2017.

 

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Cartoline dal Sudafrica

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Jodie Bieber, The Silence of the Ranto twins,

English Version

 

A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza, è una mostra ospitata da Fotografia Europea XII a Reggio Emilia presso i Chiostri di San Pietro, per celebrare il 40° anniversario del patto tra la città di Reggio Emilia e l’African National Congress (26 giugno 1977) e del centenario dalla nascita di Oliver Tambo (1917-1993), leader del movimento anti-apartheid e dell’ANC.

Ordinata in senso cronologico, è una selezione di immagini che ripercorre la storia del Sudafrica da dominion dell’impero britannico ai giorni nostri. Gli scatti, provengono da collezioni di archivi (Die Erfenisstigting Archives, UWC Robben Island Museum Mayibuye Archive, BAHA, Transnet, Times Media, Independent Media Archive), musei (Museum Africa, Mc Gregor Museum, Smithsonian Institution) e artisti. È da notare come l’autorialità dei singoli fotografi acquisti sempre più importanza a mano a mano che si procede nell’esposizione, ovvero che ci si avvicina ai giorni nostri. Ciò segna anche un passaggio da una fotografia che è documento storico a una che è metafora storica.

 

Mi stupisce che tutt’oggi venga preferito dedicare spazio alla ricostruzione della memoria di una ex colonia britannica, invece che alla parentesi coloniale italiana, specialmente in un momento in cui le venature razziste che la parola integrazione porta con sé aumentano di volume e quantità. Interessante svista, a tal proposito, è al piano inferiore dei chiostri, ove all’ingresso della mostra di Berengo Gardin è stata allestita a parete una grande immagine dello studio dell’artista che, fra le sue collezioni, ha anche quelle di maschere africane. La chiamo svista perché non ne faccio una colpa dei curatori della mostra di Berengo Gardin, ma perché credo che sia un particolare sintomatico della scarsa evoluzione di un pensiero di decolonizzazione all’interno dei nostri confini geografici, e i bottini di passati Cannibal Tours ne sono prova (avanguardista?).

 

La mostra Una breve Storia del Sudafricaè un esempio di come sia possibile, lavorando con degli archivi, non solo presentare ma soprattutto costruire, selezionandola, una storia e una memoria, non necessariamente collettive. Infatti, come ci si può aspettare, quasi tutti gli scatti fino agli anni Duemila sono stati realizzati da fotografi bianchi. D’altronde anche i fruitori della mostra, inclusa la sottoscritta, sono tutti bianchi (il che non è in Italia una grossa novità).

 

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto twins,

Jodie Bieber, The Silence of the Ranto Twins, 1995, Courtesy the Artist. 

 

Apre il percorso uno scatto di Abe Goldstein avente per oggetto una danza di minatori nel 1920 a Johannesburg. Molti visitatori delle miniere in Sudafrica negli anni Venti vengono invitati a guardare queste performance di danze tradizionali di minatori Africani. Fotografie di questi spettacoli per visitatori bianchi sono, in questo periodo, comuni e appaiono su cartoline, brochure aziendali e opuscoli turistici. Nello scatto di Golastein non emerge chiaramente il fatto che si tratti di una messa in scena, ma sembra piuttosto un atto spontaneo. Emerge così il modo in cui una inquadratura fotografica sia capace di censurare la memoria stessa: lo sguardo coloniale è tutto ciò che non vede o che non consente di vedere.

 

La fotografia non è solo una forma di testimonianza ma anche, e soprattutto, una forma di interpretazione della storia, come emerge dal confronto tra due immagini datate 1928: nella prima la squadra nazionale femminile di nuoto sudafricana è composta da donne bianche in costume da bagno o in uniforme; nella secondaI portatori d’acqua della tribù Venda a Sibasa sono ritratti da Alfred Martin Duggan-Cronin. La vicinanza delle due fotografie mette in luce un pregiudizio etnocentrico attraverso il particolare interesse del fotografo irlandese Duggan-Cronin nel cercare la nudità dell’uomo primitivo, immortalandola dal punto di vista “oggettivo” dell’etnografo europeo.

 

Proveniente da Museum Africa è una fotografia scattata a Pretoria nel 1938 che ritrae un Parroco con due uomini bianchi vestiti come guerrieri Zulu durante le celebrazioni dell’anniversario del Grande Trek, la «grande migrazione» dei coloni boeri (in nederlandese «contadini») che, insofferenti all’amministrazione inglese iniziata nel 1835, lasciano la Colonia del Capo dirigendosi a nord, dove fondano comunità repubblicane al di là dei fiumi Orange e Vaal e nel Natal. Questa immagine carnevalesca ricorda che, quando nel 1658 cominciava la schiavitù, le prime scuole erano gestite da chiese confessionali, oltre al fatto che una delle conseguenze del Grande Trek fu proprio l’istituzione del regime dell’apartheid. Si verifica quindi uno scollamento tra la documentazione di episodi dell’apartheid apparentemente definitivi e la loro rappresentazione: la focalizzazione su particolari minori, o come in questo caso goliardici, offusca una vasta fetta di realtà lasciata all’esterno del campo visivo delle immagini.

 

Nel 1949 a Pretoria viene inaugurato il Monumento Voortrekker, disegnato da Gerard Moerdyk (1890-1958), grande ammiratore di Mussolini. Per rappresentare l’evento, celebrato nell’anfiteatro cittadino, i curatori della mostra scelgono uno scatto proveniente dall’Archivio Die Erfenisstigting, dove è messa in evidenza la separazione tra una folla bianca e una nera. La cerimonia inaugurale, il 16 dicembre 1949, commemora il trionfo dei Voortekkers nel 1838 sugli Zulu nella battaglia di Blood River. Si tratta di uno sforzo di riconciliazione tra britannici e afrikaner.

 

In uno scatto sulla parete opposta si vedono tre uomini di colore ben vestiti mentre giocano ad una sorta di tris su un marciapiede. Dietro di loro sulla parete di un edificio campeggia la scritta “We won’t move”. Questa fotografia, intitolata Waiting to Commence Forced Removals, è stata scattata a Sophiatown in prossimità del 9 febbraio 1955, giorno in cui D.F.Malan invia duemila poliziotti armati di pistole e fucili a distruggere Sophiatown e a rimuovere i suoi sessantamila abitanti per trasferirli in massa a Meadowlands. Lì il Partito Nazionale ha istituito un recinto abitativo-riserva le cui case sono prive di servizi igienici, acqua ed elettricità. Ciò che emerge anche in questo caso è la pulizia e il perbenismo laccato con cui viene illustrato un episodio di razzismo di massa. Invece dei morti e dei deportati, il fotografo ha deciso di immortalare tre uomini ben vestiti mentre giocano. In effetti, anche nelle fotografie coloniali fasciste gli «indigeni» raramente lavoravano.

 

Jürgen Schadeberg, We won't move, Sophiatown , 1955

 

Trovo comunque problematico il fatto che una immagine come questa venga “lasciata passare” senza spiegazioni di accompagnamento che ricordino l’emanazione dell’Atto di Reinsediamento dei Nativi del 1954 da parte del Partito Nazionale o che suggeriscano le violenze camuffate da una immagine di propaganda. Forse è colpevole solo l’ignoranza di chi non è in grado di decodificare una immagine perché non conosce la storia del Sudafrica? Ma se è la mostra stessa a volere illustrare una Breve storia del Sudafrica, con che idea può mai uscire dall’esibizione un visitatore se non gli vengono fornite delle chiavi di lettura complete? Probabilmente con la stessa idea che può farsi del Sudafrica durante un Safari in viaggio di nozze o durante una battuta di caccia fra bianchi.

 

Di Eli Weinberg è la fotografia We stand by our leaders che ritrae una folla vicina alla Drill Hall il giorno di apertura del Processo del tradimento il 19 dicembre 1956. Nelson Mandela e altri leader dell’ANC vengono arrestati in un raid e processati per tradimento. Le strade al di fuori della corte sono affollate da migliaia di dimostranti. Nello scatto una fila di persone di colore, simpatizzante con gli accusati, è in posa in atteggiamento gentile e dignitoso. Uomini e donne portano il manifesto “We stand by our leaders”; tra loro spicca un bambino bianco sorridente, in calzoncini corti e con un orologio al polso. È il figlio del fotografo. 

 

Eli Weinberg, We stanbd by our leaders, 1956, courtesy Times Media Collection.

 

Fotografie come questa, ovvero scattate in pubblico, mostrano una forma di complicità, o forma d’obbligo, mediata dal rapporto tra il soggetto ritratto e il fotografo bianco: l’apparato dello stato dell’Apartheid – con le sue immense risorse di intimidazione fisica, controllo burocratico e coercizione psicologica – induce l’opposizione, sotto il controllo di polizia e soldati, a stare “al proprio posto”. La rigidità delle pose si trasmette in una più altrettanto rigida interpretazione dell’evento, del tempo fotografato e della scelta estetica del fotoreporter, aprendo una questione sulla complicità della fotografia nella costruzione di un archivio.

 

Eli Weinberg, Police check passes and parcels, 1961, Courtesy UWC, Robben Island Museum, Mayibuye Archive.  

 

Women taking a break on the lawns in front of the Union Building, Women’s March è la fotografia scelta per rappresentare simbolicamente in mostra l’anno 1956. 20.000 donne organizzano una marcia presso gli edifici dell’Unione a Pretoria per protestare contro gli emendamenti proposti dalla Legge sulle Aree Urbane. Contro i lasciapassare presentano una petizione indirizzata a Strijdom, Primo Ministro simpatizzante per il nazionalismo afrikaner. Una canzone composta per l’occasione e diventata simbolo della battaglia delle donne in Sudafrica recita: “Strijdom, Wathint’ abafazi, wathint’ imbokodo” (“Strijdom, se colpisci una donna, colpisci una roccia”). Nello scatto donne in pausa sui prati davanti allo Union Building non siedono sulla panchina, vuota, perché riservata a europei. L’archivio è anche una zona d’incertezza in cui il senso di colpa e l’espiazione esprimono la condizione dei privilegiati.

 

La prima immagine a colori che si incontra è At Durban: But the rickshaw puller is from Zulund. Nello scatto un uomo Zulu in costume tradizionale, la cui popolazione si trova ubicata a un’ora di macchina dalla città di Durban, porta una coppia di fidanzati bianchi sul suo risciò. I tre in posa guardano sorridendo un quarto uomo che pare parli con loro cordialmente, a pochi passi dal mezzo di trasporto. Uomini zulù che trainano risciò si trovano tutt’oggi vicino al lungomare di Durban.

 

Dal 1950 il fascismo coloniale si esprime anche attraverso la legge sull’anagrafe della popolazione, la quale stabilisce la creazione di registri in cui devono figurare dettagli razziali per gli abitanti dell’unione. Ogni persona è classificata come «bianca, meticcia o indigena, secondo il caso». Nella fotografia di David Goldblatt Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, scattata a Johannesburg nel 1965, l’inferiorità etnica e di diritto della donna nera che serve il tè a due uomini bianchi è messa in luce chiaramente.

 

David Goldblatt, Tè del pomeriggio servito a due uomini che stanno riparando un’auto su un marciapiede a Fairview, 1965.


La mostra continua dando spazio al funerale dei “quattro Cradock” e alle lotte di boicottaggio per una politica non razziale.

 

David Goldblatt, After their funeral a child salutes the Cradock Four, Cradock, Eastern Cape, 20 July 1985, 1985, black and white photograph.

 

Al rilascio “senza condizioni” di Nelson “Modibo” Mandela, all’entrata in carica nel 1994 dell’African

National Congress (ANC) e all’elezione di Nelson Mandela a primo presidente di una nazione post-Apartheid è dedicato il corridoio più stretto della mostra. Sembra quasi che i curatori, optando per questa soluzione di allestimento, abbiano voluto evidenziare la politica cosmetica di passaggio da uno stato razzista a una democrazia confederale, che non disgiunge il nuovo Sudafrica dal capitalismo coloniale, che dal XVI secolo di fatto governa il paese. Il che pare essere confermato dagli anni Duemila, raccontati da fotografie che sono più evocazioni di eventi che documenti veri e propri.

 

Una fotografia scattata da George Hallett a Cape Town nel 1997, Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission vede messo in scena il metodo della “borsa bagnata” davanti alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione.

La riappacificazione tra ex movimenti di liberazione e razzismo messa in Atto dalla Commissione per la Verità, guidata dall’ex arcivescovo Desmond Tutu, riflette lo spirito che anima il nuovo Sudafrica. Hanno ottenuto l’amnistia, riconosciuta per i crimini commessi fino all’aprile 1994, assassini di membri dell’ANC e di altri oppositori politici, terroristi di destra, membri del Parlamento per i conservatori, membri del Boere Kommando. Genera un tale sentimento di riconciliazione il legame tra le classi dei coloni imperialisti bianchi ed europei e una piccola “borghesia colorata” ed asiatica, che, corrotta, collabora con le multinazionali dei coloni.

 

George Hallet,  Jeffrey Benzien demonstrating the wet bag method of torture at a hearing of the Truth and Reconciliation Commission,  Cape Town, 1997.

 

In Sudafrica oggi i bianchi controllano la quasi totalità dell’economia, in modo diretto e indiretto, e la maggioranza della popolazione esclusa ha la funzione di neocolonia interna. In Italia la politica di integrazione razziale si traduce anche nella apertura di campi profughi, ovvero in pezzi di territorio posti al di fuori dall’ordinamento giuridico normale, e in cui è messa in discussione la legalità del rifugiato (dovuta alla discontinuità fra natività e nazionalità). Presentare in Italia una mostra in cui l’apartheid è censurata dallo sguardo di coloni bianchi, mentre gli ultimi dieci anni di storia sudafricana sono documentati da metafore storiche di fotografi di colore, documenta anche quanto perbene sia la sensibilità di chi aggiusta il trucco alla storia.

 

A short history of South African Photography, a cura di Roby Bester, Thato Mogotsi e Rita Potenza. Fotografia Europea XII, Chiostri di San Pietro, Dal 5 Maggio al 9 Luglio 2017.

 

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Le proteste in Ungheria

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Dieci anni fa ho partecipato a una “graduation” alla Ceu University a Budapest, fondata dal miliardario americano George Soros. Victor Orbán, con una legge che esclude dall’Ungheria le istituzioni universitarie che non fanno ufficialmente parte della Ue, vuole chiuderla. La Commissione Europea ha annunciato il 26 aprile scorso di aver aperto una procedura d’infrazione contro l’Ungheria, proprio per l’adozione di questa legge, che Bruxelles ritiene rimetta in causa il principio della libertà accademica e quindi incompatibile con i valori democratici della Ue.


L’Ungheria ha un mese di tempo per rispondere sul piano legale alla Commissione.

La vicenda della legge ormai soprannominata “anti Soros”, che ha provocato manifestazioni di protesta con numeri importanti dentro e fuori l’Ungheria, vede Orbán premier ultra conservatore, che da quell’istituzione è stato sostenuto nel suo percorso di studi, opporsi a un’università che non è certo in linea con il suo governo nazionalista. Il testo di legge approvata dal Parlamento ungherese, il 4 aprile 2017, prevede che le università straniere (extra UE), non potranno attribuire dei diplomi con validità nazionale senza un accordo con il governo in carica. Quindi la Ceu internazionale dovrà trasferirsi negli Stati Uniti, mentre l'istituzione che resta a Budapest sarà messa sotto il diretto controllo del governo ungherese.

 

 

Accade che l’Unione Europea, della quale Orbán respinge ogni critica, anche sul diritto che si è arrogato di bloccare la cosiddetta rotta balcanica per i migranti costruendo più muri per difendere i confini ungheresi, in questo caso è usata come un grimaldello per limitare una libertà,per far morire un luogo del sapere che attira studenti e docenti provenienti da tutto il mondo e che genera idee, curiosità e indipendenza.

Il rettore della Ceu, Michael Ignatieff, ex leader del Partito liberale in Canada e professore a Harvard, era andato a Bruxelles proprio per ottenere il sostegno dei dirigenti europei contro la chiusura dell’università da parte del governo ungherese. “Ho il dovere di dire all’Europa cosa c’è in gioco – ha dichiarato – è la prima volta dal 1945 che uno Stato membro dell’UE cerca di chiudere una libera università. Questo ci porterebbe in un territorio inesplorato e a un attacco ai valori fondamentali”.

 

Un’università “normale”, un’eccellenza internazionale a Budapest

Se ripenso alla graduation del 2006, una “festa di laurea” a tutti gli effetti, che si svolgeva all’Operetta Theater di Budapest in una domenica di giugno, è evidente lo stravolgimento di quello scenario rispetto a una situazione così paradossale. Allora si respirava un’atmosfera fiduciosa e di normalità. Mentre si aspettavano i dottorandi, i laureandi, ospiti e famiglie, fervevano le attività intorno a un signore anziano in toga rossa, pronto a consegnare le pergamene a più di cinquecento dottori appena laureati in legge, in economia, filosofia e antropologia, accolto con la disinvoltura di chi è ben conosciuto da luoghi e persone. Il giorno della cerimonia, i parenti dei laureati, che attendevano di entrare nel teatro per il grande evento non sembravano preoccuparsi troppo di lui, mamme, papà, nonne e zii, prendevano posto, colorando con gli abiti della festa e i cappelli nuovi, l’Operetta Theater dai piccoli palchi d’oro alla moda viennese di fine ottocento. Il personaggio in rosso si muoveva tra il palco e la sala indaffarato, intorno a lui alcuni giovani con cui scambiava parole, fogli di carta, appunti, pronto a dire qualcosa d’importante, dopo la stretta di mano accademica e la fotografia di rito: che la Central European University avrebbe superato i 400 milioni di dollari di finanziamento. Non poteva aver dubbi, i danari sono suoi, è lui che ha deciso di fondare quell’università. L’uomo in toga rossa era George Soros.

 

 

 

Quell’atmosfera di normalità è continuata negli anni, tanto da mettere in secondo piano la realtà di un’istituzione universitaria fondata da uno dei capitalisti che più divide l’opinione pubblica mondiale. Hanno parlato i numeri degli iscritti, dei laureati, delle tante nazionalità rappresentate nell’università da studenti e insegnanti, e il fatto che CEU è considerata tra le 100 università migliori al mondo dai ranking mondiali, tra le prime in Europa in Scienze Sociali.

Si è realizzato negli anni un melting pot tra i talenti delle repubbliche che gravitavano intorno all’ex Unione Sovietica; alla Ceu sono passati i più promettenti rumeni, polacchi, bulgari, estoni, lapponi, con partenariati anche con la Bocconi, e in seguito altre università italiane, alcuni per conseguire un doppio diploma in economia internazionale. Non mancano gli olandesi o i tedeschi, e anche gli americani che rimangono alcuni trimestri per un master in executive business, in molti provenienti dalla Purdue University dell’Indiana, in programmi sostenuti dalle business school di Tiburg (Olanda) e da Hannover.

 

Inoltre, l’università mette a disposizione regolarmente alcune borse di studio per studenti di etnie Rom che abbiano completato un corso di livello universitario, per raggiungere un grado d’inglese tale da poter seguire programmi di studio post laurea con valore internazionale. Negli ultimi 12 anni questa iniziativa ha preparato più di 250 studenti Rom, con l’obiettivo che le popolazioni Rom guardino a questi giovani come dei nuovi modelli nei quali identificarsi, che possano avere un ruolo di leadership nelle loro comunità ai fini dell’integrazione. Un programma in espansione, attualmente corroborato dalla danese Velux Foundations, che ha attribuito nel 2016 oltre 155 milioni di euro per finanziamenti, borse e premi, con finalità d’integrazione e innovazione sociale.

 

Una misura punitiva, con limitazione inaccettabile alla libertà accademica

Proprio quest’apertura alle minoranze etniche, alle popolazioni che diversamente non avrebbero accesso a una formazione superiore, ha messo la Ceu nella condizione di subire una disposizione che sembra davvero punitiva. La legge impone alle università “extracomunitarie” di avere campus nel loro paese di origine ma Ceu, basata a Budapest da 25 anni, non ha campus negli Stati Uniti, e non vuole averne. Si tratta chiaramente di una scelta fatta dai fondatori dell’università: un ateneo con un’unica sede a Budapest per attirare studenti dell’Europa Centrale e Orientale, con uno stile d’insegnamento angloamericano, con le stesse certificazioni delle più prestigiose università degli Stati Uniti, per entrare in concorrenza con loro nel contesto mondiale.

 

Decisioni prese prima del 1991, proprio per lasciare alla Ceu University tutta la libertà possibile, dal punto di vista accademico, della scelta degli insegnanti e dei docenti. Orbán lo sa bene, e vuol colpire proprio queste libertà. Il provvedimento intende boicottare il progetto di Soros: dare al proprio paese un’università per promuovere un pensiero liberale e indipendente ispirandosi al modello dell’Open Society, l'ideale a cui lui stesso si è ispirato alla London School of Economics partecipando alle lezioni del filosofo della scienza Karl Popper.

 

Un’università in ostaggio

Che la Ceu University fosse nata con la vocazione di voler contrastare la politica xenofoba attraverso la conoscenza, con una comunità accademica internazionale e inclusiva, Orbán lo sapeva bene e da prima del 1989. Sin troppo, per essere stato lui stesso sostenuto dal fondatore dalla Ceu. Quando l'attuale premier ungherese si opponeva al regime con Szdsz, l’Alleanza dei democratici liberi, ottenne una borsa di studio proprio dalla Soros Fondations per andare a studiare a Oxford. Tornò progressista e sostenitore della difesa dei diritti civili. Per tutti questi motivi, la legge sulle università internazionali sembra avere un solo bersaglio: buttare fuori dal paese ciò che rappresentaquell’università, insieme con il sistema delle Ong che combattono i comportamenti illiberali del premier ungherese, alcune delle quali sostenute proprio da Soros. In questa scontro, maldestramente dissimulato, tra Orbán e Soros, la CeuUniversity è presa in ostaggio.

 

Oggi, con uno scenario politico internazionale completamente cambiato, per Orbán premier la presenza, in casa sua, di un’università che vuol insegnare la leadership ai Rom e che lavora sulla diversità di studenti e docenti, è un simbolo che non può sopportare. Un’istituzione universitaria che, mentre il capo del governo dà il via alla costruzione di una seconda barriera lungo il confine con la Serbia e la Croazia, per continuare a bloccare il passaggio dei migranti lungo la rotta balcanica verso la Germania, ha sul suo sito un bando per attribuire borse di studio “to Roma, Sinti, Kale, Travelers, and other ethnic groups of Romany heritage, including those who identify themselves as Gypsie.” Con una pagina Facebook dedicata e aggiornata con gli ultimi deadline per candidarsi al programma.

 

Si sono mobilitati i premi Nobel

Dall’annuncio di questa decisione giudicata discriminante, le manifestazioni di protesta si sono moltiplicate: 17 premi nobel hanno firmato una petizione esprimendo solidarietà alla Ceu, e così l’Accademia di Ungheria. Saranno in totale 28 gli istituti universitari a essere potenzialmente coinvolti dai nuovi regolamenti.

 

La professoressa Judy Dempsey, senior fellow alla Carnegie Europe– tra le più accreditate istituzioni di ricerca per l'analisi politica estera europea a Bruxelles su argomenti che vanno dalla Turchia al Medio Oriente – ricorda in un articolo del blog Strategic Europe,le flying universities:erano chiamati così i seminari che importanti accademici tenevano nei propri appartamenti, che ebbero grande seguito in Polonia. Le università underground servivano a proteggere l’identità nazionale e la cultura in molte occupazioni. Dopo il 1945, questi seminari si diedero la missione di garantire uno spazio libero dall’indottrinamento comunista. Anche l’Ungheria aveva strutture parallele simili, per difendere l’istruzione e la libertà di pensiero. “Sono state strenuamente difese da giovani e adulti, donne, anziani, qualunque fossero i rischi. Oggi una legge che voglia controllare la libertà di un’istituzione universitaria è un allarme sociale”, conclude Judy Dempsey.

 

È vero che nel corso dei secoli, le università di tutta l'Europa Centrale hanno lottato per conservare i loro centri di eccellenza e integrità. Alcuni accademici hanno interrotto l'insegnamento.

Si continua oggi, e non solo con la Ceu: anche in Bielorussia gli studenti critici nei confronti del regime del presidente Alexander Lukashenko trovano accoglienza e ricevono il sostegno da parte dell'Unione Europea per studiare nella vicina Polonia o in Lituania, ma non certo in Ungheria.

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La Commissione Europea difende CEU University, contro Orbán

Trump e il narcisismo

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Negli ultimi tempi i commentatori fanno a gara nel cercare di inquadrare Donald Trump in termini psicopatologici. Alcune riviste mi chiedono una sorta di cartella clinica del presidente americano. Ad esempio, mi si chiede se si può parlare di infantilismo di Trump, a 71 anni.

Parlerei nel suo caso non di infantilismo quanto piuttosto di inizio di demenza senile. Oggi il termine “malattia senile” tende a essere bandito – come quello di “stagnaro” per dire idraulico – perché suona offensivo per i vecchi. Essendo io quasi settantenne, mi sento in diritto di parlar male degli anziani. Il demente senile si infantilizza, da qui l’impressione che Trump sia infantile. Nel senso che si incrociano deficit cognitivi con deficit morali, in particolare, chi invecchia male non ascolta più chi non la pensa come lui o lei. Mi ha colpito quando Trump denunciò un terribile attentato in Svezia mai avvenuto; semplicemente aveva visto la sera prima alle Fox News un’inchiesta sulla Svezia in cui si diceva che il tasso di criminalità era aumentato in quel paese per colpa dell’afflusso di immigrati. Trasformare un aumento statistico in un attentato terroristico rivela una grave deficienza nel categorizzare concettualmente l’informazione. Pare che Trump segua solo Fox News, perché è il canale conservatore che la pensa come lui, non sembra interessato ad ascoltare altre campane. Sono convinto invece che Obama, per esempio, ascoltasse anche Fox News. In seguito, Trump si è addormentato twittando qualcosa, per cui l’ultima parola era un guazzabuglio di lettere; certi colpi di sonno improvvisi sono tratti senili.

 

L’ultima perla (l’ultima mentre scrivo) è il twitter mandato al sindaco di Londra Sadiq Khan dopo l’ultimo attentato in Inghilterra. Mentre ancora la zona attorno al London Bridge era chiazzata di sangue, Trump ha deriso il sindaco perché aveva detto ai londinesi che non c’era alcuna ragione di essere allarmati… Ma Khan aveva detto solo che i londinesi non devono allarmarsi se vedono aumentare la presenza della polizia armata in città. Si dirà: non è demente l’uomo Trump, è demente la sua ideologia, anche se in milioni la condividono (ad esempio, il 40% degli americani approva la sua uscita dagli accordi di Parigi sul clima). Ma anche chi segue una ideologia demente, se ha posizioni di grande responsabilità si rende conto che non può applicarla as such. Il voler perseguire a ogni costo il proprio progetto può generare disastri. Trump ricorda il generale Buttiglione, eroe radiofonico di un tempo: “uno come me non si arrende mai, nemmeno di fronte all’evidenza”.

 

Ammettiamo che l’involuzione senile di Trump si accentui: che cosa farà il suo staff? Questo è un problema che si pone a qualsiasi team presidenziale o regale: cosa fare se la Guida suprema dà fuori di matto o rimbambisce? Qualcosa del genere accadde con Ronald Reagan: i segni dell’Alzheimer – che fu reso pubblico solo nel 1994, cinque anni dopo la fine del secondo mandato – erano palesi quando lui era ancora presidente. Lo ha confermato il figlio Ron. Ricordo che negli ultimi tempi le apparizioni pubbliche di Reagan erano rade e veloci. Il suo “cerchio magico” riuscì a otturare le falle.

Il caso più celebre è quello di Giorgio III d’Inghilterra, re dal 1760 fino alla sua morte nel 1820. Da vecchio re Giorgio divenne pazzo, alcuni pensano per una malattia del sangue detta porfiria, altri pensano che fosse maniaco-depressivo, comunque finì completamente demente. La corte corse ai ripari nominando reggente nel 1811 suo figlio, il principe di Galles.

 

Il punto è che il presidente americano ha il controllo delle armi atomiche. Se Trump, dopo aver visto una trasmissione Fox, decidesse di buttare una bomba atomica su Pyongyang o su Teheran, chi glielo impedirebbe? Stanley Kubrik immaginò uno scenario simile nel film Dr. Stangelove del 1964: un generale americano diventa psicotico e dà ordine agli aerei US di bombardare atomicamente l’Unione Sovietica. Il presidente americano e tutto il suo staff non riescono a evitare la catastrofe nucleare.

                           

Altri si chiedono se Trump possa essere diagnosticato come narcisista. Il concetto di narcisismo, elaborato da Freud ma oggi di uso comune, è uno dei concetti psicoanalitici più complessi, disorientanti e ambigui. Dire che qualcuno è narcisista è dire tutto e dire niente. Molti credono che il narcisismo sia una patologia, ma per Freud il narcisismo è una componente essenziale alla base di ciò che chiamiamo auto-stima, amor proprio, apprezzamento delle proprie qualità e quindi senso di sicurezza in se stessi, ecc. Diciamo che in Trump c’è troppo di tutto ciò che ci fa normali: troppa auto-stima, troppa ammirazione per le proprie capacità, troppo amor proprio, troppa sicurezza in se stesso, ecc.

 

Comunque, vedo un certo tipo di narcisismo nei trumpisti. Alcuni americani che hanno votato per lui mi hanno detto, per giustificare i suoi passi falsi, “Nessuno è perfetto” (non so se pensassero alla famosa frase finale del film A qualcuno piace caldo). Ovvero, è quello che pensano di se stessi, che non sono perfetti. Questo forse significa che la democrazia occidentale sta entrando in una nuova fase, che potrebbe portare alla sua fine. In passato si ammiravano e si votavano leader che sembravano tendere alla perfezione, che appartenevano a un mondo diverso da quello della gente comune, come Lincoln, De Gasperi, De Gaulle, Gandhi, Aldo Moro, Nelson Mandela, ecc. Si pensava allora che la democrazia selezionasse un’aristocrazia morale, nel senso proprio di aristoí, i migliori. Col tempo, si sta affermando l’idea che bisogna eleggere non i migliori ma gente comune come noi, “non perfetti”, anche se hanno realizzato quello che io, persona comune, vorrei realizzare: avere molti soldi, essere simpatico, avere molte donne – o essere la donna di costui – accumulare potere, e vantarmi sfacciatamente di tutto ciò. La massa elegge non più persone che non saremo mai e che nemmeno vorremmo essere, ma persone che vorremmo essere, quelli che Freud chiamava “io ideali”. Il narcisismo è anche votarsi al proprio Io ideale. 

 

Adorare Berlusconi o Trump illustra quindi la banalità degli ideali egoici di massa, che esprimono quella che chiamerei mediocrazia. Nel senso che si preferiscono leader “mediocri come me” – appaiono più autentici – ma anche nel senso che, per lo più, costoro vengono dai media o ne hanno il controllo. Esprimono bene una mediocrità diffusa oggi legittimata ed esaltata dai media.

 

 

Quando Berlusconi emerse negli anni ’90, alcuni (pochi) dissero che il modulo Berlusconi non sarebbe rimasto una specialità italiana, ma sarebbe stato esportato in Occidente; del resto l’Italia aveva già esportato con successo il ‘kit’ fascismo. Nessuno però avrebbe previsto che il modulo Berlusconi si sarebbe affermato proprio nel paese più importante, gli Stati Uniti d’America, con Trump. Anziché far ricorso al concetto-tappabuchi di populismo, dirò che il modulo Berlusconi ha queste caratteristiche:

 

(a)    Un leader carismatico che si situa a destra – ma non necessariamente – e che non viene dalla politica, ma dall’imprenditoria.

 

(b)   Oltre che imprenditore, questo leader è impresario. Comunque viene da, o ha avuto a che fare con, il mondo dello spettacolo, in particolare televisivo. La leadership politica tende sempre più a identificarsi con la spettacolarità: da qui Reagan, Schwarzenegger, Grillo, e ovviamente Trump, famoso per il serial The Apprentice.

 

(c)    Questo leader spara a zero contro l’establishment politico, talvolta fonda un suo partito personale, e si propone come portavoce della gente comune, dell’“uomo qualunque” come diceva Guglielmo Giannini (il quale apparteneva, anche lui, al mondo dello spettacolo: era drammaturgo e cineasta). Giannini aveva capito le cose con mezzo secolo d’anticipo.

 

(d)   Questo atteggiarsi a uomo della strada afferma uno stile politico che rifugge dalle accortezze diplomatiche e impone uno stile colloquiale, spesso sbracato, che porta a gaffe clamorose; da qui il disprezzo che le leadership politiche tradizionali votano a questo leader. Su Berlusconi sghignazzavano vari leader europei, su Trump invece non sghignazza nessuno perché ha troppo potere.

 

(e)    Questo leader esibisce sfrontatamente la propria ricchezza e successo, le propone come modello a chiunque, e non fa mistero di una vita sessuale intensa e promiscua. Questo non gli aliena, stranamente, il voto della parte bacchettona e puritana della popolazione, anzi, drena proprio questo tipo di consenso verso di sé. Fenomeno apparentemente paradossale su cui ci interrogheremo.

 

Ci possono essere varianti nei contenuti politici tra questi glamorous mavericks– ad esempio Berlusconi non sembra sostenere la politica di Trump, a differenza di Salvini. Ma le cinque caratteristiche di cui sopra restano essenzialmente le stesse. Questo modulo potrebbe diffondersi nel mondo, come abbiamo detto.

 

Il modulo Berlusconi-Trump potrebbe portare al tramonto della democrazia. Potrebbe generare regimi come quello di Putin in Russia o di Erdogan in Turchia, una pseudo-democrazia in mano a un autocrate. Non a caso Putin è molto ammirato in Occidente soprattutto da chi vota per Trump, Le Pen, Salvini o Grillo. Da un’inchiesta recente risulta che il 57% dei votanti Lega ammira Putin più di ogni altro leader straniero (più di Trump e Le Pen); quanto agli elettori del M5S, preferiscono anch’essi Putin e Trump, il 42% di loro il primo e il 34% il secondo. Putin è molto meno ammirato da chi vota per gli altri partiti (I. Diamanti, “M5S, il partito trasversale scelto da giovani e operai”, La Repubblica, 3 giugno2017, pp. 2-3). Conclusione: chi è xenofobo e anti-europeista ama “un uomo forte” fortemente nazionalista.

 

Una certa filosofia – che Francis Fukuyama popolarizzò – ci porta a considerare la democrazia pluralista come la vetta dell’evoluzione storica dell’umanità e quindi, come ogni stadio evolutivo, di fatto irreversibile. Ma non è così. La storia insegna che spesso dei regimi non-autoritari possono lasciare spontaneamente il posto a regimi dispotici, senza bisogno di guerre o colpi di stato. Ne abbiamo vari esempi storici. Fu il caso dei comuni italiani medievali, i quali poco a poco “evolsero” in signorie. I comuni medievali non erano democratici stricto sensu, ma si basavano su una pluralità di corporazioni che cercavano di amministrare la città dal basso. La lotta politica all’interno dei comuni era però violenta, spesso sanguinosa, guelfi contro ghibellini, il potere era sempre instabile; da qui una certa stanchezza della libertà e il bisogno di avere “un signore”. Il quale poteva essere un condottiero (come gli Sforza), un nobile (come i Gonzaga) o un banchiere (come i Medici).

 

Non possiamo escludere che un processo simile possa prodursi nelle democrazie moderne. Un popolo si può stancare di godere della libertà e può affidarsi a un despota rassicurante che sappia usare bene i media, a cui delegare le scelte essenziali. Cosa che già nel XVI° secolo Etienne de la Boétie aveva perfettamente colto parlando di “servitù volontaria”. E che Michel Houellebecq ha ripreso di recente col romanzo Sottomissione.

 

Resta l’enigma del perché piacciano tycoons come Berlusconi o Trump. La risposta possibile è complessa, per cui posso solo accennarne qui.

Trump ha detto di recente una cosa molto profonda: “Se uscissi sulla Fifth Avenue con un mitra e ammazzassi un po’ di persone, non perderei un voto”. Chi adora Berlusconi o Trump perdona loro tutto.

Perché Berlusconi o Trump proclamano urbi et orbi: “io godo!” Questo scatena una certa invidia tra alcuni, ma tra i molti produce non solo ammirazione, soprattutto sottomissione. C’è una forte tendenza, in molti di noi, a farci strumento del godimento di una figura divina, e divina proprio perché si pone come campione di ogni godimento. Siamo come quelle donne che evidentemente godono nell’essere trattate da un uomo come suo puro oggetto di piacere. Nel famoso romanzo Histoire d’O, scritto da una donna, la bella O si lascia schiavizzare da molti uomini per far piacere all’uomo che lei ama. Donne che assecondano il loro uomo in tutto, che magari si lasciano anche prostituire, se a lui fa comodo. Un godimento che Freud chiamò masochistico, e che va ben oltre una certa tipologia di donna: esso è alla base di molti rapporti sociali.

 

Un tempo la folla assisteva alle laute cene che certi re del tempo andato tenevano di fronte ai sudditi: la folla godeva del godimento del re. Oggi si gode nel sentir parlare delle amanti di Berlusconi e nell’ammirare la moglie bimbo di Trump (bimbo in inglese è il tipo di donna con una bellezza vistosa ma superficiale, bambola del desiderio sessuale).

Come disse Lacan, il godimento degli esseri umani è il godimento dell’Altro.

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Come si può arrivare a Dio?

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"Mio nonno era credente, praticante, viveva in una fede che mi è sempre parsa pesante. Ma non ne parlava, non la esplicitava mai; la posava sulla tavola e la tavola scricchiolava sotto il suo peso."

 

Inizia così Il volto di tutti i volti (Edizioni Qiqajon), un piccolo libro a metà tra narrazione e saggio, biografia e meditazione, vincitore del premio Spiritualités Aujourd'hui 2015, in cui l'autore, lo scrittore francese Alexis Jenni (vincitore nel 2011 del Premio Goncourt con il suo romanzo d'esordio L'arte francese della guerra, tr.it. Mondadori) ripercorre la propria esperienza di fede.

 

 

Jenni racconta di essere cresciuto in una famiglia permeata, da un lato, dalla religiosità del nonno, toccato dal dubbio una sola volta in tutta la vita e poi pervicacemente tornato alla sua fede pesante come un "blocco di ghisa", fonte di "prescrizioni, divieti, precetti di vita inderogabili", e dall'altro segnata dalla silenziosa contestazione della madre (la figlia di quel nonno), "né atea, nemmeno agnostica… semplicemente riservata". Attraverso la figura materna si forma l'impressione che la religione sia ancora un peso, ma questa volta "un peso che non diceva nulla". Da entrambi ricava, perciò, sia una naturale propensione alla fede, sia il desiderio di viverne una versione totalmente diversa, la volontà di "costruire una fede che non sia pesante né oscura, bensì forma di gioia; che non sia ripetizione di testi, applicazione di regole, ma fioritura di immagini attorno a una sorgente irraggiungibile …"

 

Cerca Dio, ne sente, come afferma ripetutamente, l'irresistibile richiamo, il gusto profondo, ma si chiede come farne esperienza, con quali strumenti, percorrendo quali vie. Così, come molti, s'immerge nella spiritualità orientale, pratica diverse discipline, tra le quali lo yoga grazie al quale sperimenterà quell'unione tra corpo, mente e spirito che sarà fondamentale nella sua ricerca religiosa. Ma scoprirà anche, alla fine, assistendo a un ufficio tibetano, che quel mondo non gli appartiene, che non avrà mai gli strumenti per impossessarsene al punto da essere qualcosa di più che uno spettatore sensibile e appassionato. E comprende di dovere cercare la propria strada nel suo mondo e nella sua cultura, come d'altra parte diversi anni fa lo stesso Dalai Lama aveva raccomandato. Rispondendo alla domanda di un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dell’attrazione crescente esercitata dal buddismo sugli occidentali, il Dalai Lama diceva di non conoscere alcuna persona che avesse abbandonato la propria tradizione e fosse felice, invitando esplicitamente a indagare innanzitutto nella propria cultura, dato che la verità e la spiritualità non hanno confini, non sono monopolio dell'una o dell'altra tradizione.

Jenni cerca, allora, se e dove, nel mondo cristiano cattolico, sia possibile un rapporto con il divino, fatto di serenità e gioia, come quello che aveva visto in Oriente, e gli sembra di coglierlo nella preghiera dei monaci e delle monache. Nei loro volti, racconta, scorge finalmente una fede che non rinuncia alla vita qua e ora in cambio di una promessa di vita eterna futura – la vita eterna, sostiene tra l'altro, se esiste deve essere già qui, deve cominciare già qui –, una fede che non è sottomissione né enunciazione di norme, ma vera "annunciazione".

 

Come si può arrivare a Dio? Come è possibile sentirsi pienamente immersi in qualcosa, o meglio in qualcuno, che non si può toccare, sentire, vedere, ma ci attrae con un richiamo che è impossibile ignorare, pur senza sapere neppure se esiste veramente? A questo punto, questi interrogativi che hanno accompagnato lo scrittore francese per tutta la vita, cominciano a trovare una risposta che gli sembra avere senso: la strada per arrivare a Dio passa dal corpo e dai suoi sensi.

 

© Denis Félix

 

Quella che Jenni delinea è la sua personale via di accesso al senso del divino, non è la sola, naturalmente, ed è interessante non solo come lo sono tutti i racconti sinceri di esperienze vissute, ma anche per il ruolo determinante e interamente positivo che assegna al corpo, così a lungo penalizzato nella religione cristiana – e con pessime conseguenze –, anche per chi aspira a una vita spirituale. L'identità del corpo e dello spirito, di cui parla Alexis Jenni, in realtà appartiene al più autentico pensiero ebraico e cristiano, ancora libero dall'influenza del pensiero greco, egemone nel momento in cui il cristianesimo si diffondeva nel mondo e poi dominante per secoli sull'Occidente. È greca, non cristiana né tantomeno ebraica, la radice della visione del corpo come fonte del male e prigione dell'anima, e pertanto condannato e mortificato. Il corpo non è un fardello "pesante, inutile, oppure sofferente" come è stato dipinto da occhi malevoli o ingannati da ombre oscure del tutto estranee al cristianesimo reale, che si fonda proprio sulla risurrezione del corpo e non sull'immortalità dell'anima, come l'antica filosofia greca. "Essere ossessionati dal corpo sofferente, il proprio, quello degli altri, quello di Cristo, rende difficile l'accesso alla gioia", sostiene Jenni, mentre Dio è gioia pura e libertà. E se tanto non bastasse, soltanto il corpo è "quell'intersezione di due mondi", quell'unico punto in cui umano e divino possono incontrarsi e riconoscersi, amarsi o respingersi.

 

Alexis Jenni racconta, poi, come attraverso i sensi sia possibile fare in qualche modo esperienza di Dio, intersecare il divino, e comincia dal gusto, un "senso povero", ma importante perché proprio seguendo il piacere che traiamo dalle cose, tracciamo il percorso della nostra vita. Per quanto lo riguarda, afferma: "Ho il gusto di Dio", e questa inclinazione naturale lo ha portato a cercare, con tutto se stesso, di liberarsi dalla zavorra dell'esempio del nonno per conservare la fede grazie a un modo diverso di interpretarla e di viverla. Parla, poi, della vista che, pur essendo il nostro senso principale, è irrilevante per la fede, giacché "dello spirituale non si vede mai nulla". Ma d'altra parte, come ci ha dimostrato la scienza confermando l'intuizione che Saint-Exupery mette in bocca al Piccolo Principe, l'essenziale è invisibile agli occhi, e alla vista sfugge completamente la vera natura della realtà. Essa è importante per orientarsi nel mondo materiale, ma nel mondo dello spirito contano molto di più percepire e intendere.

 

A questo proposito, l'autore racconta di un'esperienza vissuta in una piccola chiesa romanica, raggiunta dopo un grande sforzo compiuto in bicicletta: nell'assoluto silenzio, sente che "questo"– così chiama il trascendente ancora indicibile – che cerca è proprio lì, presente, vivo e riconoscibile. E capisce che il suo volto, se gliene si vuole dare uno, non può essere altro che "il volto di tutti i volti". È vero, Dio non ha un volto, ma il suo volto è quello di tutti gli uomini ed è riassunto nell'unico volto di Cristo "che assomiglia a tutti e a ciascuno". In quel momento percepisce Dio come assoluta benevolenza per ogni vita e per ogni cosa, oceano di benevolenza, davanti al quale si sente sommerso da un'infinita riconoscenza e gratitudine per quella meravigliosa invenzione che è la vita.

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Dati. Tracce nel web

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Le aziende che operano nel mondo digitale hanno incontrato delle difficoltà nell’interpretare le persone, a causa delle notevoli differenze esistenti tra quello che queste dicono di sé e dei propri comportamenti e quello che fanno realmente. Hanno deciso pertanto di privilegiare la raccolta e l’elaborazione delle numerose tracce che vengono lasciate dagli utenti in Rete, dalla ricerca su Google al pagamento di un biglietto ferroviario. Oggi è possibile fare ciò abbastanza agevolmente e senza la necessità d’interpretare tali tracce, né di ricavarne caratteristiche applicabili a fenomeni sociali più vasti. I dati si accumulano automaticamente grazie al processo di digitalizzazione in corso nella società e, una volta raccolti, possono dare vita anche a dei «meta-dati». Producono cioè ulteriori informazioni.

 

Ad esempio, conoscendo i movimenti effettuati e le persone frequentate da un individuo, si può sapere molto sullo stato di salute o sulla vita privata di questi. Come è stato riportato dal giornalista Paolo Pagliaro nel libro Punto, una ricerca condotta dall’Università di Cambridge in collaborazione con Microsoft su 58.000 utenti staunitensi di Facebook ha mostrato come i «mi piace» messi sullo schermo permettano di conoscere molto bene la personalità individuale. I ricercatori, infatti, hanno individuato con una precisione dell’85% le preferenze politiche e dell’88% se la persona era gay (pp. 18-19).

 

È possibile in questo modo superare anche le barriere relative alla privacy individuale. E addirittura, come ha scritto il filosofo Byung-Chul Han in Psicopolitica, «I big data rendono leggibili, forse, i nostri desideri, dei quali noi stessi non siamo espressamente coscienti. In effetti, in determinate circostanze sviluppiamo inclinazioni che si sottraggono alla nostra coscienza; spesso non sappiamo neppure perché all’improvviso compare in noi un certo bisogno» (p. 75). Ma in tal modo il singolo viene conosciuto molto bene. Si può, per esempio, valutare il carattere e la personalità di un individuo in maniera più precisa dei suoi stessi amici e parenti. E anche anticiparne opinioni e desideri.

 

Photo courtesy Amy Gizienski Flickr.com/agizienski, Part of the Blanton Museum's online database.

 

Ciò ha messo in difficoltà una lunga tradizione di analisi sociologica e statistica basata sulla messa a punto di categorie descrittive del mondo sociale. Come appare d’altronde evidente nell’ambito politico, dove oggi gli individui comuni nutrono spesso un intenso sentimento di diffidenza verso i politici, i giornalisti o gli esperti. Essi, infatti, non si riconoscono più nelle categorie interpretative che cercavano di comprenderli. Così, come ha affermato il sociologo inglese William Davies nell’articolo La fine dei fatti pubblicato da Internazionale, «Non solo le statistiche sono considerate inattendibili, ma sembra quasi che abbiano qualcosa di offensivo e di arrogante. Ridurre le questioni sociali ed economiche ad aggregati numerici o medie appare un insulto alla dignità politica delle persone» (p. 39).

 

Il potente processo d’individualizzazione che è in corso da diversi decenni all’interno delle società occidentali avanzate fa sì d’altronde che gli individui siano sempre più difficilmente riconducibili a quelle categorie che in passato permettevano di aggregarli. Ciò rende la società sempre più difficoltosa da rappresentare. Se in precedenza si poteva infatti suddividerla in gruppi che la rendevano più semplice e facilmente gestibile, oggi ciò non è più possibile. Il mondo sociale appare come un insieme d’individui totalmente privo di logica. Dominique Cardon ha raccontato nel volume Che cosa sognano gli algoritmi di come oggi anche le imprese non ragionino più in termini di categorie come i classici target socioeconomici del marketing.

 

Tutte queste operazioni incontrano però alcuni limiti, perché le registrazioni dei comportamenti umani che vengono utilizzate come base delle elaborazioni effettuate riguardano solamente i soggetti attivi ed è stato ampiamente dimostrato da diverse ricerche che nel Web tali soggetti sono da considerare una ridotta minoranza della popolazione presente. Addirittura, secondo alcuni studi, quasi il 90% degli utenti del Web non produce attivamente dei contenuti. Per non dire dei molti che al Web non sono in grado nemmeno di accedere. Inoltre, spesso i dati che vengono raccolti per essere elaborati sono anche male organizzati. Il che rende difficoltoso il confronto tra dati di origine differente. Va considerato, infine, che i dati raccolti sono a volte anche falsi, perché rappresentano il prodotto dell’azione di veri e propri “robot cliccanti”, cioè programmi informatici che si comportano come se fossero degli esseri umani.

 

Questo modo di procedere produce inoltre solitamente delle previsioni che prescindono da un modello interpretativo e che sono il risultato di correlazioni effettuate solo a posteriori tra i comportamenti registrati. Ciò rende i fenomeni sociali ancora meno comprensibili e soprattutto, come ha scritto Cardon, «Malgrado la moltiplicazione dei sistemi di misura, non sappiamo prevedere meglio le crisi finanziarie, i terremoti, i punteggi delle partite di calcio e i risultati elettorali» (p. 62).

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Sistemi di misura e previsioni
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I Grimm. Il padre di Cenerentola e altre storie

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Le fiabe sono vere, scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane.

Nell’introduzione al suo libro di riscrittura di undici fiabe dei Grimm (Il padre di Cenerentola e altre storie, [Illustrazioni di Stefano Levi della Torre], Manni editore, Lecce 2016.), Stefania Portaccio scrive:

 

Entrare nelle fiabe era un’eccitazione fisica ed emotiva: smarrirmi nei boschi stando sdraiata sul divano del tinello; superare grandi prove […]. L’incantesimo di gustare delle cose vere dentro le non vere.

 

Il nucleo realistico delle fiabe sta nel loro essere racconti di formazione: la figura protagonista presenta alcune qualità incoraggianti (talento, bellezza, gentilezza…) ma si trova all’inizio immatura e in una situazione problematica. È come in attesa di rivelarsi agli altri e a sé stessa. Nel suo percorso di maturazione incontra rivali che le contendono aspirazioni e ruoli; incontra aiuti magici a doppio taglio, metafora delle energie del contesto, e solo se saprà prenderle per il verso giusto le saranno di aiuto nelle prove che dovrà affrontare per arrivare infine alle nozze principesche, cioè alla maturazione e ad un soddisfacente rapporto tra i sessi. Inclusi la sconfitta degli antagonisti, anche attraverso l’elementare giustizia della vendetta. Vicende in cui ciascuno, femmina o maschio, può riconoscere qualcosa che lo riguarda.

 

 

Questo è il vettore infantile delle fiabe. Ma che succede se, come in questo penetrante libro di Stefania Portaccio, poeta, il vettore si inverte, e le fiabe vengono ripercorse da adulti, e appaiono non più come preventivi, ma consuntivi di una vita? Se lo sguardo non si proietta verso un futuro speranzoso e univoco ma si confronta con percorsi vissuti non sempre risolti?

Succede che le fiabe, che Lella Ravasi (“Le fiabe del focolare o l’horror del focolare”, in Rivista di psicologia analitica, 89/2014) definisce “miti minori che attraversano la vita”, diventano occasione di indagine di sé ed esperimento di mitobiografia, secondo l’accezione terapeutica che ne dà Romano Màdera (Romano Màdera, Luigi Tarca La filosofia come stile di vita, introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, 2003).

 

La riscrittura delle fiabe è una pratica diffusa nel mondo anglosassone, soprattutto ad opera di donne. Una per tutte, le Transformations (1971) di Anne Sexton, diciassette poesie ispirate ad altrettante fiabe dei Grimm, riscritture a cui l’autrice si sente debitrice per la loro influenza stimolante e liberatoria. Le fiabe sono testi aperti, come già scriveva lo stesso Jakob Grimm nel 1813: “tutte le fiabe sono state fissate tanto tempo fa, in infinite variazioni, il che vuol dire che non si fissano mai”.

 

Per queste sue variazioni sui testi dei Grimm, l’autrice segue due strade, quella della prosa e quella della ballata. Nella prima resta il “C’era una volta”, una distanza di tempo e di luogo che sottrae la storia alla contingenza ma per significare la trasposizione nell’immaginario di una struttura che si riproduce in ogni vita (così come Freud parla di Edipo, di un mito remoto, per dire però di un complesso, attuale in ogni generazione); permane il “lieto fine”, che però si complica: i fatti, i rapporti, i personaggi fiabeschi si gravano del peso dell’esperienza, e la luce del desiderio si adombra della concretezza di ciò che è avvenuto nell’incrocio tra desiderio e realtà. Situazioni e personaggi scendono dal cielo fiabesco per incarnarsi, decodificati, in persone reali e in situazioni attraversate. Tradurre gli stereotipi e i personaggi fiabeschi nel registro della propria esperienza adulta fa emergere dalla fiaba lo spirito del romanzo, vicende di soggetti a tutto tondo, pur se la forma rimane quella breve, concentrata e semplice della fiaba.

 

 

Come ha vissuto, ad esempio, il padre di Cenerentola (la fiaba cha dà il titolo alla raccolta) la storia di Cenerentola? Nella riscrittura la fiaba diventa la sua storia; il padre non è più soltanto una condizione della vicenda, è lui stesso un soggetto, un punto di vista.

 

Scrive l’autrice nella nota al testo:

 

In Cenerentola c’è un padre inerte, che non sa difendere la figlia dalla matrigna. Io lo rendo attivo e racconto il suo lento districarsi dall’illusoria comodità della delega. In particolare mi è piaciuto inventare la complicità con la quale padre e figlia si accordano per mentire riguardo ai vestiti, che Cenerentola riceve per magia materna, ma dei quali il padre si ascrive il merito, riappropriandosi così di quello che avrebbe dovuto essere il suo compito. Colmare una mancanza mi ha consolata.

 

L’ultima frase svela il motore personale della riscrittura, presente in tutte le note ai testi, invito a chi legge a fare altrettanto, a ripercorrere le fiabe a partire dalla consapevolezza adulta delle proprie ferite: nei testi in prosa per propria personale consolazione, e nelle ballate per dare voce a quanto rimane invece inconsolabile o irrisolto, ma col relativo sollievo di trarlo alla luce.

 

Se non protagonista, il padre è almeno motore della peripezia in altre due fiabe: L’omino senza nome, scaturita dall’originale Tremotino, e La fanciulla senza mani, ma la sua figura è presente in quasi tutti i testi in prosa, di più e diversamente che nelle fiabe originali.

È chiaro il bisogno di caricare questo ruolo di responsabilità verso il femminile, rispondendo così a una carenza sentita a livello personale, ma espressa a livello mitico. Questo passaggio, dal biografico al mitobiografico, si accentua ne La fanciulla senza mani, una fiaba attualmente poco nota, nella quale è il padre a mozzare le mani alla figlia. Che cosa sono le mani se non il segno della capacità di fare, di farsi, di trasformare, cioè la possibilità di una propria autonomia? Nelle sua nota al testo l’autrice ci racconta che sono state le parole “senza mani” a catturarla. Ci racconta anche che la fiaba era molto nota in passato, in molte versioni, la più famosa la Penta manomozza di Basile, che deve sfuggire alla brama del fratello proprio per le sue mani, tanto che lei se le taglia e gliele dona. Ma io penso a Pelle d’asino che deve camuffarsi per sfuggire al padre, e a Maria di legno, raccolta da Calvino. Fiabe diffusissime fino al Seicento, e che tutte riguardano fanciulle perseguitate da familiari maschi.

 

In una presentazione romana del libro di Stefania Portaccio, Pina Galeazzi, studiosa di psicologia analitica, ha scelto, di soffermarsi sulla riscrittura di questa fiaba, della quale molti analisti si sono occupati. La fiaba porta infatti al cuore della questione dell’incesto, e la riscrittura che ne fa l’autrice la rende esplicita, ma anche la ricompone, poiché il padre, con le sue lacrime di pentimento, farà ricrescere alla figlia le mani di cui l’aveva privata. Conosciamo però anche un destino diverso, quando il rancore è un ostacolo invalicabile.

 

È “Il sasso aguzzo del rancore”. E l’autrice dà cittadinanza nella ballata a questo sentimento, veleno tenace in un processo trasformativo. Il rancore come sasso compare già in una sua poesia giovanile, che usa la forma chiusa del sonetto e della rima, come chiusa è anche la forma fiaba. Le forme date aiutano a mettere “in forma” contenuti che altrimenti non si riesce a mettere a fuoco, calando il loro bruciare nel calco raffreddante di un gioco formale.

 

Ecco che rantolando va il rancore

e con un sasso atterra il mio pensiero

che s’era alzato oltre l’aere nero

volendo sprigionarsi dal dolore

 

come pietra che chiude m’è il livore

per gli interstizi ove ariosa io ero

prima ch’esso arrivasse e tutt’intero

si prendesse il mio fegato e il mio cuore

 

(Stefania Portaccio, Contraria Pentecoste, I Quaderni del Battello Ebbro, 1996, p. 27)

 

 

Sappiamo che l’incesto può avere molte declinazioni, da quella simbolica a quella concreta. Nella relazione tra padre e figlia la costante difficoltà sta nel segnalare a quel femminile nascente tutto il desiderio e insieme tutta la libertà che le spetta. Lo sguardo paterno capace di esprimere il riconoscimento della bellezza della figlia e insieme la sua libertà di persona protesa oltre, è difficile, sia culturalmente sia psichicamente. Al momento del passaggio della figlia dall’infanzia dell’adolescenza, il padre facilmente sceglie o di ritirarsi, disinteressandosi alla sua sorte, o se ne impossessa in vario modo. Le donne si trovano spesso alle prese con questa vicenda di menomazione in cui spesso il padre incestuoso non è il padre reale ma un padre interno, un maschile interiorizzato, depositario comunque, troppo reticente o troppo indiscreto, di un riconoscimento necessario dell’alterità sessuata, riconoscimento intricato anche nel rapporto con la madre, tanto da intervenire come fattore di autocensura sofferente o insofferente. 

 

La riscrittura de La fanciulla senza maniè un buon esempio dell’esperimento mitobiografico, quel partire da sé ma per affondare questo sé in una questione che lo trascende. Qui un autentico pentimento risana entrambi, figlia e padre. Un lieto fine ottenuto attraverso un percorso lento e accidentato, e attingendo a risorse del tutto assenti nella fiaba originale.  

È solo grazie all’immissione di queste nuove e diverse risorse che queste riscritture possono mantenere un sia pur vacillante, non trionfale, lieto fine: Non “vissero felici e contenti”, ma semplicemente “vissero”, come nota Francesco Tarquini.

 

La risorsa nuova di Cenerentola è suo padre; la risorsa nuova della fanciulla senza mani, sono i piedi, che la fanno procedere oltre le situazioni di blocco (“i piedi mi dovrai mozzare per tenermi ancora in questa casa”, dice per due volte, in diverse circostanze, la ragazza); la risorsa nuova di Raperonzoloè una terza madre, Ester. Una madre positiva, introdotta, ci dice l’autrice nella sua nota, a bilanciare una madre immatura, che non poteva arginare le proprie voglie infantili di cibo, immediate e dunque incapaci di proiettarsi al futuro per sé e per la figlia, e l’altra madre, la maga Gothel, una madre possessiva che non voleva che la ragazza crescesse. L’autrice introduce Ester che invece accudisce la ragazza e poi la lascia andare. Ma la introduce anche perché qualcuno ci sia a sottolineare un tema che sta al cuore delle fiabe, e che queste versioni esplicitano e rinnovano: il tema del tempo. Il tempo appunto della formazione.

Ester chiede stupita ai due giovani perché non abbiano messo in atto per primi lo stratagemma di tagliare le trecce alla ragazza e attaccarle ai cardini della finestra per fuggire dalla torre. I due giovani rispondono: “non ci è venuto in mente”.

Perché non erano maturi. La loro unione era fuori tempo. 

 

 

E così è anche per il perdono tra figlia e padre, in La fanciulla senza mani: avviene perché il tempo è maturo. Perché il dolore è stato fruttuoso.

Ed è il tempo la risorsa nuova di Rosaspina, quel sonno di cent’anni che da maleficio diventa latenza preziosa: mentre nel castello tutto si è fermato, come morto, lei invece, la sua parte mentale, psichica, vive, esplora il mondo e sé stessa indisturbata.  Trae profitto dall’incantesimo ostile.

 

 

Giaceva immobile ma non stava ferma. Da subito qualcosa di lei si staccò dal corpo e prese a volare e vedere. Vide la madre e il padre accasciarsi insieme e vide crescere intorno al castello un muro alto di rovi che lo coprì alla vista. Quella protezione invalicabile le piaceva. […] Volava oltre il muro di rovi, e seppe della leggenda che la circondava, che diceva che un bacio l’avrebbe resuscitata. […]. Volava tutto il giorno, beate capriole godendosi le correnti ascensionali, la vista acuta, l’acqua che luccicava. Vide giovani impigliati nei rovi, morire. Cercavano un varco nella protezione pensando al bacio. Lei baciava l’aria, la neve, i fiori, per esercitarsi, per capire. Ma di notte sognava di tornare dentro sua madre e che suo padre la vegliasse e coprisse.

 

Anche qui si parte dal desiderio personale di dare all’adolescenza – un tempo che l’autrice ha avvertito come non rispettato – modo di articolarsi a piacimento, libero da schemi, dal ruolo sessuato in particolare. Ma ciò che emerge è un nodo generale, quello del passaggio vulnerabile dall’infanzia all’età adulta.

Il tempo è quello che serve a Rosaspina per maturare come donna ed essere pronta alla sessualità. I rovi non si aprono perché il principe è quello giusto ma perché è giusto il tempo. E lei non si sveglia perché lui la bacia, ma perché è giunta l’ora.

 

Non è affatto giunta l’ora invece per la dodicenne di Cappuccetto rosso, coprotagonista insieme alla mamma e alla nonna, di una delle ballate più scure della raccolta. La dodicenne, immersa nella sua realtà ancora amorfa, viene catturata da uno sguardo maschile che la vede donna, e rappresenta quindi un tentazione irresistibile. Giace quindi con il cacciatore ma, al contrario di Rosaspina, non ha avuto i cent’anni per prepararsi alla sessualità e, sentendo quello che è avvenuto come un fatto non assimilabile, uccide l’uomo.

 

mi guardava come io dodicenne mi sognavo

d’essere un giorno vista

stese il mantello sopra i dolci fiori

li schiacciammo e vennero gli odori

d’erba mista alla lana umida

al cuoio, al sudore, al sale

 

nell’erba stava il fucile. Il cacciatore

steso mirava il sole che tra i rami

accecava – sorrise e non si volse

quando da lui mi sciolsi e mi rialzai

presi il fucile e al cuore gli sparai

 

Nelle ballate, controcanto delle fiabe in prosa,  si racconta che a volte nulla si può, e si soffre sterilmente, perché va anche così, che esiste il dolore infruttuoso, e non sempre il processo trasformativo ha successo. Anche se l’arrivare a comprendere ha una sua parte nel trasformare la propria visione del mondo. Si tratta di sanguigni canti ritmati, in contropelo, ma anche attraversati da un certo humor nero. Scritti in prima persona e a partire da un’età che ha superato la soglia della trasformazione, registrano il divario tra le aspirazioni e l’accaduto, dando conto di ciò che rimane irrimediabile, dei tempi mancati, dei nodi mai sciolti. Un controcanto necessario a giustapporre alle speranze di cambiamento il disperare. A tenere dentro al mito della fiaba anche il suo rovescio.

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